MUHAMMAD IQBAL BANG-I DARA Il Richiamo della Carovana The Call of the Caravan Traduzione dall’Urdu con Introduzione e Note Translation from Urdu in to Italian, with Introduction and Notes A CURA DI VITO SALIERNO IQBAL ACADEMY PAKISTAN All Rights Reserved Publisher: Muhammad Suheyl Umar Director Iqbal Academy Pakistan 6th Floor, Aiwan-i-Iqbal Complex, Off Egerton Road, Lahore. Tel:[+ 92-42] 6314-510, 9203573 Fax:[+ 92-42] 631-4496 Email: director@iap.gov.pk Website: www.allmaiqbal.com ISBN 969-416-- 1st Edition : 2010 Quantity : 500 Cover Design : Khalid Faisal ————— Sales Point: 116 McLeod Road, Lahore. Ph. 7357214 INTRODUZIONE 1. BACKGROUND STORICO Quando Iqbal nasceva era da poco iniziata la riscossa dei musulmani del sub-continente indiano. Con la caduta dello Shah Bahadur II nel 1857, conseguente alla repressione inglese dell’ammutinamento o Mutiny, era scomparsa per sempre dalla scena del sub-continente indiano la dinastia dei Moghul, peraltro già in decadenza un secolo e mezzo prima con Aurangzeb, e con essa era svanita per i musulmani ogni illusione. I tuoi seguaci attraversano il momento più critico della loro vita. La fede che iniziò il suo cammino in gloria, oggi in terra straniera trascina l’esistenza più grama - scriveva Altaf Hussain Hali, considerato un po’ il Carducci e il Mameli della letteratura urdu. I musulmani si trovarono ad essere messi in disparte e guardati con diffidenza: l’Inghilterra applicò agli Stati musulmani dell’India misure speciali, privandoli della loro influenza, specie in quelle regioni più vicine ai confini. Nello Stato del Kashmir, con popolazione in prevalenza musulmana, fu imposta una dinastia hindu; l’Haiderabad nel Deccan continuò ad avere il suo regnante musulmano, il Nizam, solo perché regione lontana dai confini e priva di sbocco al mare; al Sindh, Panjab, Beluchistan e Provincia di Frontiera, regioni situate nella parte nord-occidentale dell’India e prossime quindi ai confini più deboli (non dimentichiamo che dal passo di Khaibar sono giunti tutti gli invasori) furono applicati regimi particolari. La passività musulmana non durò però a lungo. Gli scritti di Hali, inneggianti alle glorie degli imperi di Baghdad e di Spagna, e l’opera rinnovatrice del dotto Sayyid Ahmad Khan contribuirono gradatamente ad un riavvicinamento anglo-musulmano ed alla rinascita culturale dell’Islam indiano. Durante il Mutiny Sayyid Ahmad Khan aveva sostenuto la causa britannica, consapevole di un beneficio che ne sarebbe derivato per i suoi correligionari se gli Inglesi avessero mantenuto le loro posizioni in India: le rivalità hindu-musulmane sarebbero state tenute a freno e mitigate dall’azione britannica (in caso contrario gli hindu avrebbero avuto il sopravvento data la sproporzione numerica tra i due gruppi). Significativo l’elogio di Iqbal per l’uomo e la sua attività: “È stato probabilmente il primo musulmano moderno a intravedere il carattere positivo dell’era successiva. Il rimedio per i mali dell’Islam da lui proposto, come pure dal Mufti Alam Jan in Russia, fu l’istruzione moderna. Ma la vera grandezza dell’uomo consiste nel fatto di essere stato il primo musulmano indiano a sentire la necessità di un nuovo orientamento dell’Islam e di aver lavorato in questa direzione. Si può non essere d’accordo con le sue vedute religiose, ma non si può negare che la sua anima sensibile sia stata la prima a reagire all’età moderna”. Per agevolare la partecipazione musulmana alla vita indiana fu fondato ad ‘Aligarh nel 1877 il Muhammadan Anglo-Oriental College, su modello delle università di Oxford e Cambridge (il College di ‘Aligarh diventò università nel 1920). Pochi anni dopo, nel 1885, nasceva l’Indian National Congress, aperto a tutti, una sorta di valvola di sicurezza o di arena per la discussione delle riforme sociali; senonché il Congresso accentuò sempre più il suo carattere hindu e si giunse al punto che nel 1905 su 756 delegati solo 17 erano musulmani. Nacquero così tra i musulmani numerose associazioni che richiedevano con insistenza una maggiore rappresentanza politica: nel 1906 tutte queste associazioni confluirono nella Muslim League. Gli animatori del movimento, dopo la morte di Sayyid Ahmad Khan, furono i fratelli Muhammad e Shaukat ‘Ali e l’Agha Khan. Durante la prima guerra mondiale tutta l’India (hindu, musulmani, maharaja) si schierò a fianco dell’Inghilterra, convinta di ottenere a guerra finita l’indipendenza o almeno un’autonomia: il contributo di denaro e materiale bellico fu notevole, più di un milione di uomini fu messo a disposizione dell’Inghilterra che poté sostituire parte delle truppe dislocate in India con territoriali indiani e portarne altre sui vari fronti del Mediterraneo. Terminata la guerra, l’India rimase delusa: il “Government of India Act” del 1919 risultò un sistema contraddittorio poiché concedeva la rappresentanza ma negava la responsabilità. I rapporti tra musulmani e hindu peggiorarono e tutti quei musulmani che sino ad allora erano stati favorevoli al Congresso si dimisero poiché pensavano che il piano d’azione degli hindu avrebbe messo in pericolo la loro comunità: fra questi anche ‘Ali Jinnah, il futuro Qa’id-i-A’zam o Grande Guida della nazione pakistana. Vi fu ancora un riavvicinamento fra hindu e musulmani durante il periodo dell’agitazione per il califfato ottomano: Gandhi ed il Congresso sostennero le richieste musulmane circa il mantenimento dello status quo nell’Impero ottomano e la continuazione della giurisdizione califfale sui luoghi santi del Hijaz, nella penisola arabica, di Gerusalemme e dell’Iraq. Fu però una collaborazione di breve durata. Dopo il 1923, con l’abolizione del califfato da parte di Mustafa Kemal Atatürk, le relazioni hindu-musulmane ritornarono ad essere quelle che erano sempre state, cioè peggiorarono, rotte solo da qualche sprazzo fugace di riavvicinamento dovuto più al desiderio di trovare un momentaneo modus vivendi che un accordo duraturo. Alla fine del 1928, in risposta alla relazione presentata al Congresso da Motilal Nehru che chiedeva la costituzione dell’India a dominion, fu tenuta a Delhi, sotto la presidenza dell’Agha Khan, una Conferenza musulmana panindiana, la più importante forse fra tutte quelle tenute durante il lungo cammino verso l’indipendenza. In tale occasione fu approvata all’unanimità una serie di principi fra i quali i più importanti erano l’adozione di un sistema federale con completa autonomia, elettorati separati, adeguata rappresentanza dei musulmani nei gabinetti delle provincie e in quello centrale. Ben presto però ci si accorse dell’impossibilità di attuare un governo federale in un’India unificata, in cui musulmani e hindu avrebbero partecipato all’amministrazione del Paese in modo attivo ed in comune accordo: il sogno panindiano incominciò a perdere terreno per far posto invece all’idea di due Stati indipendenti, l’uno a maggioranza musulmana, l’altro a maggioranza hindu. Nel frattempo la Lega Musulmana si era rafforzata e nella sessione di Allahabad, il 29 dicembre 1930, Muhammad Iqbal lanciò l’idea di una “nazione musulmana”: Vorrei vedere il Panjab, la Provincia di Frontiera Nord- occidentale, il Sindh ed il Beluchistan, amalgamati in un unico Stato. L’autonomia entro l’impero britannico o fuori di esso e la formazione di un solido Stato musulmano nell’India nord-occidentale mi sembra che siano il destino finale dei Musulmani, almeno di quelli dell’India nord- occidentale. Tre anni più tardi, un gruppo di studenti musulmani in Inghilterra, guidati da Chaudhri Rahmat ‘Ali, fecero circolare all’università di Cambridge un opuscolo di quattro pagine con il nome di quella che avrebbe dovuto essere la nuova nazione: “Pakistan è una parola persiana e urdu. È composta con le lettere prese dai nomi di tutte le nostre madre-patrie ‘indiane’ e ‘asiatiche’. Cioè Panjab, Afghania (Provincia di Frontiera Nord-occidentale), Kashmir, Iran, Sindh (inclusi Kutch e Kathiawar), Tukharistan, Afghanistan e Baluchistan. Significa la terra dei Pak - i puri spiritualmente. Simbolizza le fedi religiose e la derivazione etnica delle nostre genti; e sta per tutti gli elementi territoriali costituenti la nostra originaria terra madre”. Un ultimo tentativo di conciliazione tra hindu e musulmani furono le tre Conferenze della Tavola Rotonda a Londra negli anni 1930-1932: in quelle riunioni furono discussi i vari problemi sul futuro dell’India e si cercò, per l’ultima volta, un accordo tale da consentire l’attuazione dell’ideale dell’indipendenza con l’unione di tutte le genti del sub-continente indiano, senza distinzione di razza, religione o cultura. In altri termini si giocò l’ultima carta per un’India unificata; ma le incomprensioni e più ancora la scarsa identità di vedute esistente all’interno delle stesse delegazioni hindu e musulmana fecero comprendere che era necessario raggiungere contemporaneamente l’indipendenza e la spartizione, se si desiderava evitare spargimenti di sangue e maggiori lutti a mezzo miliardo di uomini. È in questo periodo che torna alla ribalta ‘Ali Jinnah: dopo la seconda Conferenza della Tavola Rotonda il brillante avvocato s’era ritirato in volontario esilio in Inghilterra, poiché- come disse più tardi- “non si sentiva capace di aiutare l’India o mutare la mentalità hindu, né poteva contribuire a risolvere la precaria posizione dei musulmani”. La permanenza di Jinnah in Inghilterra fu però breve. Nel 1935, soprattutto per merito di Liyaqat ‘Ali Khan, futuro Primo Ministro del Pakistan, Jinnah si convinse dell’opportunità di ritornare in patria per mettersi alla testa del movimento musulmano. La Lega, che era quasi scomparsa, tornò a nuova vita, divenendo sempre più forte e compatta, anche se le elezioni del 1937 erano state un insuccesso: infatti del 30% dei voti andati ai musulmani, solo il 5% era toccato ai candidati della Lega, tanto che Jawaharlal Nehru ebbe a dire che due sole forze esistevano ormai nel Paese, il Congresso e l’Inghilterra. Lo scoppio della seconda guerra mondiale portò ad un aumento del malcontento generale in tutta l’India, anche se i principi s’affrettarono, come di consueto, ad aiutare l’Inghilterra. La situazione fra hindu e musulmani raggiunse momenti di grave tensione: mentre il Congresso, riunito a Ramgarh, denunciava la Gran Bretagna di combattere una guerra a scopi imperialistici, la Lega Musulmana approvava a Lahore, il 23 marzo 1940, una risoluzione in cui si dichiarava che lo schema federativo, incorporato nel “Government of India Act 1935”, era totalmente inapplicabile e che nessun progetto costituzionale poteva essere accolto dai musulmani se prima non si procedeva a circoscrivere e raggruppare le regioni a maggioranza musulmana, sì da dar vita a Stati indipendenti. Quella data entrerà in seguito nella storia del Pakistan come la Pakistan Resolution del 23 marzo 1940, prima impostazione ufficiale della nascente nazione islamica. Le stesse richieste furono avanzate nella sessione del 25 maggio; in quell’occasione ‘Ali Jinnah, ormai convinto della necessità della spartizione, così si espresse: “La differenza fra hindu e musulmani non è soltanto religiosa, ma giuridica e culturale: si tratta di due civiltà del tutto distinte e separate; [...] la questione quindi non è interconfessionale ma internazionale, e si può risolvere soltanto permettendo all’India di dividersi in Stati autonomi, non necessariamente avversi. I musulmani non possono accettare nessuna Costituzione che porti necessariamente ad un governo di maggioranza hindu. Unire hindu e musulmani, imponendo alle minoranze un sistema democratico, significa dare il potere agli hindu”. Il conflitto mondiale lavorò a favore dell’India: l’entrata in guerra del Giappone e la conseguente occupazione della Malesia, di Singapore e della Birmania spinsero l’Inghilterra a prendere in considerazione il problema costituzionale indiano con la proposta di concedere, dopo la guerra, il rango di dominion all’Unione Indiana, che sarebbe stata formata con quelle provincie e Stati disposti ad accedervi; identico rango sarebbe stato concesso a quelle provincie e Stati che non volevano l’accessione all’Unione. Congresso e Lega respinsero in pieno questa proposta tardiva, e i musulmani se ne avvantaggiarono rimettendo sul tappeto la questione del Pakistan; infatti, lo stesso Governo britannico, con la sua proposta, aveva implicitamente riconosciuto la validità, sul piano teorico, delle richieste musulmane. Perfino Gandhi fu portato ad ammettere, anche se con riluttanza, la possibilità di un futuro Pakistan; il 19 aprile 1942 così si espresse attraverso le colonne del giornale “Harijan”: “Se la grande maggioranza dei musulmani si considera una nazione separata, che non ha nulla in comune con gli hindu e altri, nessuna forza al mondo può costringerli a pensare diversamente. E se essi vogliono la spartizione dell’India su questa base, essi devono avere la spartizione a meno che gli hindu non vogliano opporsi con le armi ad una simile divisione”. Ad ogni modo il problema dell’indipendenza dell’India aveva ormai avvinto tutti, musulmani e hindu, e si imponeva tra i fatti ineluttabili della storia. Si trattava soltanto di vedere se vi sarebbe stata un’India unita come voleva il Congresso o due Stati separati come reclamava la Lega. Il fattore decisivo fu in Inghilterra l’avvento di un governo laburista che considerò impossibile il protrarsi di una dominazione in India. Gli avvenimenti indiani degli anni successivi (1945-1946) lo confermarono: furono indette nuove elezioni e la Lega conquistò quasi tutti i seggi riservati ai musulmani, dimostrando così di essere la sola legittima rappresentante della comunità musulmana. All’inizio del 1946 il Governo britannico inviò in India una missione con il compito di preparare uno schema per concedere al Paese l’autonomia. Con questo progetto si cercava, da parte britannica, di conciliare le richieste sia degli hindu che dei musulmani. Infatti lo schema elaborato prevedeva la creazione di due organismi, riuniti però sotto il governo centrale dell’Unione Indiana, alla quale erano riservati i ministeri degli Affari Esteri, Difesa, Comunicazioni e Finanze, ed inoltre la divisione delle undici provincie governative in tre gruppi, due dei quali sarebbero stati formati da popolazioni in prevalenza musulmane e corrispondevano all’incirca alle richieste della Lega. Infine il progetto contemplava la nomina di un governo interinale fino all’elezione di un’Assemblea Costituente. Ma anche questo piano era destinato a fallire. La Lega chiedeva la parità con il Congresso nel governo interinale ed il diritto esclusivo di nominare membri musulmani. Il Congresso non era disposto a concedere la parità richiesta data la sua superiorità di forze e non desiderava rinunciare al diritto di nominare membri musulmani poiché non si riteneva un corpo esclusivo come la Lega. Per tagliar corto alle discussioni peraltro infruttuose, la Lega boicottò il governo interinale che fu composto con membri del Congresso e si preparò a passare all’azione diretta. ‘Ali Jinnah invitò i suoi correligionari alla lotta con uno storico discorso, conclusosi con le parole del poeta persiano Firdusi: “Se voi cercate la pace, noi non vogliamo la guerra. Ma se voi volete la guerra, noi l’accetteremo senza esitazione”. Sanguinose rivolte scoppiarono ovunque, in particolare a Calcutta nel Bengala, a Bombay e nel Panjab. Tutto faceva presagire lo scoppio di una lunga e sanguinosa guerra civile che Jinnah aveva profetizzato come inevitabile se l’India avesse ottenuto l’autonomia senza la creazione di due nazioni. Man mano i mesi passavano, la situazione si faceva sempre più grave finché il 20 febbraio 1947 il governo laburista, nel disperato tentativo di porre fine a quelle sanguinose lotte, annunciò che al più tardi del giugno 1948 l’India avrebbe ottenuto l’autonomia in una maniera conforme alle esigenze e agli interessi delle varie comunità. Due mesi più tardi Nehru, che nel frattempo aveva sostituito Gandhi nella direzione del Congresso, si adattò all’idea della spartizione. Il nuovo viceré Lord Mountbatten presentò il 3 giugno un piano per la spartizione annunciando che la data fissata per l’indipendenza e la separazione sarebbe stata anticipata al 15 agosto. In luglio il Parlamento approvò l’Atto di Indipendenza secondo il quale l’India era divisa in due nazioni indipendenti, ognuna con il rango di dominion, mentre i vari Stati indiani erano liberi di accedere all’uno o all’altro Stato; veniva inoltre a cessare la sovranità inglese sugli Stati indiani e con essa tutti i trattati e gli accordi in vigore tra la Gran Bretagna e i sovrani indigeni. Come stabilito, alla mezzanotte tra il 14 e il 15 agosto 1947 nascevano le due nuove nazioni dell’India e del Pakistan. Il vecchio impero britannico- per adoperare le parole dell’Agha Khan- s’era dissolto “come la prima nebbia del mattino sotto la sferza del sole”. 2. MUHAMMAD IQBAL Muhammad Iqbal, il poeta-vate della nazione pakistana, nacque il 9 novembre 1877 a Sialkot, una cittadina al confine tra il Panjab e Jammu, la capitale invernale del Kashmir. Ricevette la sua prima istruzione nella città natale dove ebbe come insegnante di arabo e persiano il maulvi Sayyid Mir Hasan (1844-1929), docente al Murray College, che successivamente fu insignito dal Governo Britannico del titolo di Shams al-‘Ulama. Nel 1895 Iqbal entrò al Government College di Lahore dove fu allievo di Thomas W. Arnold (1864-1933) che lo guidò nel campo della filosofia. L’influenza del maestro sul giovane allievo è dimostrata dalla poesia Nala-i firaq [Lamento per la separazione] che Iqbal scrisse nel 1904 e inserì nel Bang-i Dara. Conseguito il titolo di M.A. [Master of Arts] nel 1899, ad Iqbal fu assegnato un lettorato di arabo all’Oriental College di Lahore, da dove passò alcuni anni dopo al Government College come incaricato di filosofia. Nel 1905 Iqbal decise di recarsi in Inghilterra per sostenere gli esami di avvocato e per completare i suoi studi in filosofia al Trinity College di Cambridge. Su consiglio del prof. Arnold, che si trovava allora in Inghilterra, Iqbal si dedicò a ricerche sul misticismo persiano preparando sull’argomento una tesi per la laurea in filosofia a Cambridge e successivamente per il Ph. D. [Philosophiae Doctor] all’Università di Monaco. La tesi The Development of Metaphysics in Persia. A contribution to the History of Muslim Philosophy fu in seguito pubblicata nel 1908 presso Luzac e ristampata nel 1955 dalla Bazm-i Iqbal o Accademia Iqbaliana a Lahore. Laureatosi in legge nel 1908, Iqbal ritornò a Lahore per esercitare l’avvocatura che abbandonò solo nel 1934 per le cattive condizioni di salute. La sua prima lirica risale al 1899: Homala, sulle bellezze naturali dell’Himalaya, che fu recitata durante una riunione di poesia indetta dalla Anjuman-i Himayat-i Islam [Società per il sostegno dell’Islam] a Lahore. Fu talmente apprezzata dagli ascoltatori e dal noto poeta Dagh (1831- 1905) di Delhi che venne pubblicata nel 1901 nel numero di aprile della rivista letteraria “Makhzan” [Il magazzino]. E qui dobbiamo fare una digressione per mettere in risalto il fatto che la poesia in Pakistan non è appannaggio di una élite o delle classi colte: è patrimonio popolare. Basti pensare che la musha‘ira, vale a dire una riunione di poeti, è in gran voga in Pakistan ed ha un rituale tutto suo. Con un certo anticipo sul giorno fissato si mandano gli inviti ai vari poeti, unitamente al misra‘-i tarah, che fissa il metro e la rima cui tutti i poeti invitati devono uniformarsi. Semplice è la struttura del ghazal, sorta di lirica breve e popolare, ma tutt’altro che facile: ogni verso (she‘r), formato da due emistichi (misra‘), racchiude un’idea completa di per sé stessa, e pertanto indipendente dal verso seguente; naturalmente vi è una connessione logica tra i vari versi. Negli ultimi due emistichi (maqta‘) il poeta include generalmente il suo pseudonimo (takhallus). Dal punto di vista metrico solo i primi due emistichi (matla‘) rimano; gli altri emistichi devono rimare alternatamente. Dal punto di vista del contenuto i soggetti comunemente trattati sono l’amore, la bellezza, la gioia dell’unione e il dolore della separazione, l’indifferenza e il disdegno dell’amata, la triste condizione dell’innamorato, il vano consiglio degli amici, il fervore religioso del moralista, e simili. Nel giorno della musha‘ira le case sono decorate a festa, luci e specchi riflettono il loro splendore, tappeti e cuscini vengono distesi sul pavimento, mentre grandi tendoni dai colori vivaci, le cosiddette shamiyana, vengono sistemati dappertutto. Il mir-i musha‘ira, cioè colui che ha il compito di presiedere la riunione, è generalmente un poeta famoso o un grande conoscitore di poesia. Egli dovrà regolare il turno, incominciando dai poeti minori per finire ai maggiori; per tradizione, il mir-i musha‘ira chiude la riunione recitando egli stesso un ghazal e ricevendone gli applausi più nutriti. Il pubblico, comprendente gente di tutte le classi e condizioni sociali, è molto competente e colto: tale pubblico non risparmia le più grandi lodi, ma non tollera il più piccolo errore o la più lieve banalità. Numerosi sono gli esempi di poeti rovinati per sempre dalla critica spietata e terribile dei loro ascoltatori. Spesso poi la musha‘ira termina prima del previsto; ciò accade quando viene recitato un verso di eccezionale bellezza, che il pubblico sottolinea a gran voce. A questo punto nessun poeta osa più cimentarsi e i convenuti si sperdono declamando e commentando il verso vincitore. Il mattino dopo i migliori ghazal sono pressoché “pubblicati”: nei bazar, al mercato, per i vicoli la gente si passa di bocca in bocca i versi uditi la notte precedente. Una volta noto, Iqbal fu invitato regolarmente alla riunione annuale dell’Anjuman-i Himayat-i Islam di Lahore; rimasero famose le sue recitazioni di Tasvir-i dard [L’immagine del dolore] nel 1904, Shikva [Protesta] nel 1911 e Javab-i Shikva [Risposta alla protesta] nel 1913, che confluirono poi nel Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], la prima raccolta in urdu, pubblicata nel settembre 1924. Shikva è la più significativa di questo gruppo di poesie, anche se dal punto di vista popolare le più note sono Tarana-i milli [Inno nazionale] e Naya Shivala [Un nuovo altare], certamente per l’immediatezza del concetto e la presa sul pubblico analfabeta ma non ignorante. Controversa fu l’accoglienza riservata a Shikva al suo primo apparire: per i musulmani ortodossi era inconcepibile una “Protesta” nei confronti di Dio, accusato di aver smesso di spargere i suoi doni tra i musulmani che avevano propagato la fede del Corano e diffuso il suo nome nel mondo. Come poteva - dicevano gli ortodossi scandalizzati - essere Iddio “accusato di ingiustizia”? Dall’altra parte, i musulmani nazionalisti- nel subcontinente indiano si lottava per l’indipendenza dagli inglesi e la separazione dagli hindu, e per la formazione di quello che sarà il Pakistan- avevano accolto con favore questa poesia e innalzato i loro osanna a Iqbal per i connotati didattici e politici. In realtà Iqbal non era stato compreso appieno né dagli uni né dagli altri: forse sia gli uni che gli altri avevano voluto accentuare il dissenso o il consenso per evidenti interessi politici. Iqbal era, da un punto di vista generale, un portavoce di tutto l’Islam, e da un punto di vista particolare il “vate” della nazione pakistana. Suo compito, al pari di quello di Hali e di Ghalib, suoi predecessori, era quello di chiamare i musulmani alla riscossa in nome delle glorie passate. Si ricordi il suo pianto in Siqilliya, la Sicilia vista durante il suo viaggio verso l’Inghilterra nel 1905. Perché - si chiede Iqbal in Shikva - rimanere in un silenzio passivo e sterile e non protestare? È vero che è costume dei musulmani rassegnarsi, anzi scusarsi se ci si lamenta; ma Iddio non può non ascoltare la protesta di un suo fedele, un tempo assuefatto alla lode. Iddio è pre- esistente all’eternità: esisteva anche quando “qua si adoravano pietre, là si veneravano alberi”. Chi recitava allora il suo nome? nessuno. Furono i musulmani che levarono le spade nel suo nome, che “rimisero a posto le cose” quando il mondo preislamico era dominato dal paganesimo politeista o da monoteismi corrotti, che bagnarono del loro sangue i campi di battaglia, per terra e per mare, facendo risuonare l’azan, l’invito alla preghiera “nelle chiese d’Europa”, recitando la kalima, la professione di fede “all’ombra delle spade”. La guerra santa - dice Iqbal - non fu mai condotta per brama di imperio, ma per diffondere la fede monoteistica, l’Islam: in realtà, aggiungiamo noi, non fu questo l’unico scopo, come ben sappiamo dalla storia, anche se Iqbal insiste sul motivo: Il marchio del monoteismo imprimemmo in ogni cuore, Quel messaggio diffondemmo anche con i pugnali. Dopo aver richiamato la storia degli inizi della predicazione dell’Islam, le benemerenze acquisite dai musulmani per affermare l’unità e la grandezza di Dio, la fede sincera e la preghiera devota, “rivolti alla qibla”, anche durante l’infuriare della battaglia, il livellamento democratico della società senza schiavi e padroni, senza poveri e ricchi, l’eliminazione del Falso [batil] cioè le vanità del mondo quali schiavitù, caste, panteismo, e via dicendo, Iqbal si rivolge a Dio con parole dai più considerate blasfeme: Ed ora te la prendi con noi ché non siamo fedeli. Se non siamo fedeli noi, Tu non sei generoso. Agli altri - continua Iqbal - Iddio concede i suoi doni, mentre punisce proprio i suoi fedeli, i musulmani: gli infedeli [kafir] ricevono i suoi benefici, cioè le huri, le vergini celesti, e i qusur, i magnificenti castelli celesti, mentre ai musulmani, i veri fedeli, vanno solo le promesse [va’da] di quelle ricompense. È triste vendetta che gli infedeli abbiano huri e castelli, E i poveri musulmani solo la promessa delle huri. In questa irritata affermazione - scrive Alessandro Bausani - si rispecchia, se non andiamo errati, tutta la inconscia ‘invidia’ e l’inferiority complex del musulmano moderno verso gli Europei, e si rivela nel contempo la inscindibile unione di successo religioso con successo ‘visibile’, mondano, tipico della concezione religiosa musulmana (come del resto della ebraica antica). Di qui la inspiegabilità della posizione storica attuale agli occhi del musulmano credente (il dominio fisico del mondo avrebbe dovuto, ovviamente, essere dell’Islam e non di una religione preislamica, antica, come il cristianesimo) e la sua irritazione contro la ‘ipocrisia’ di una religione come la cristiana che- proprio mentre proclama, in modo incomprensibile per un musulmano, la follia della croce e l’ascetismo e il distacco assoluto e la superiorità dell’insuccesso mondano sul successo- è, di fatto, riuscita a conquistare il predominio politico sul mondo che avrebbe dovuto essere logico retaggio islamico! Anche se il mondo dell’Islam- procede Iqbal nella sua “Protesta”- è in decadenza, non tutto è perduto: vi è ancora chi ricorda l’amore divino di mistici e santi dei primordi dell’Islam. È necessario solo riscuotere gli animi dall’apatia in cui sono caduti, ridare fiducia agli inerti, incoraggiare gli scoraggiati, rammentare l’antica forza della fede a tutti coloro che ora sono accecati dal fanatismo. Le melodie sono impazienti di uscire dalle corde, Il Sinai si agita per bruciare all’antico fuoco! La “protesta” si chiude con l’invito del poeta, solitario cantore, a riprendere la marcia interrotta: C’è un usignuolo che è ancora preso dal canto, Nel suo petto si agitano ancora le melodie. Due anni dopo Iqbal compose il Javab-i Shikva [La risposta alla protesta] che recitò a Lahore nel 1913: è la risposta di Allah alla protesta del poeta. L’occasione fu la campagna per la raccolta di fondi a favore dei turchi nella guerra contro i bulgari: migliaia di copie del poema furono vendute e il ricavato fu inviato a Costantinopoli. Con questa seconda parte Iqbal intese rispondere alle critiche dei musulmani ortodossi usando parole pure e sincere, provenienti dal cuore e capaci di giungere al cielo. La “risposta” per bocca di Allah considera la situazione di degrado in cui si trovavano i musulmani all’inizio del secolo. Divisi in nazioni, tribù, clan, si erano allontanati dagli insegnamenti del Profeta, abbandonando le tradizioni per ritornare all’idolatria e all’adorazione dei sepolcri. Invece di seguire il modo di vita tracciato dagli antenati, si erano lasciati conquistare dai valori occidentali e corrompere dallo stile di vita degli hindu. I ricchi vivono nel veleno delle ricchezze; solo i poveri frequentano le moschee, sopportano i dolori del digiuno nel mese di ramadan, lodano Iddio e cercano di nascondere le cattive azioni dei ricchi. Che ne è stato - si chiede Iddio - del modo frugale di vita di ‘Othman che donò alla comunità le ricchezze provenienti dalle provincie conquistate? e del modo ascetico di vita di ‘Ali, il quarto califfo? Che relazione spirituale c’è tra voi e i vostri antenati? Essi, come musulmani, furono in quel tempo rispettati, Voi, abbandonando il Corano, siete diventati reietti. I giovani hanno accettato il modo di vivere cittadino e si sono corrotti, hanno inseguito gli agi e i beni materiali, dimenticando le loro origini e la vita frugale del deserto. Ma è proprio nel momento del pericolo che si deve avere il coraggio di reagire: Il tumulto causato dall’aggressione bulgara Per i tiepidi è un messaggio di squilla. La “protesta” si chiude con un invito alla speranza: nulla è perduto se il musulmano ritorna alla sua fede, al suo Dio: Nel bocciuolo è il profumo che attira, si sparga l’ansia, Il fardello sulle spalle, si diffonda la brezza del giardino. Tu sei una particella, possa estendersi tutta ad una vastità. Il mormorio dell’onda diventi un tumulto di uragano, Con il potere dell’amore si sollevino gli umili, Con il nome di Muhammad ritorni nel mondo la luce. La particella che è ognuno di noi può estendersi e diventare molteplicità infinita, il mormorio dell’onda può diventare un uragano, la luce può ritornare nel mondo nel nome di Muhammad: Se non ci fosse il fiore, non ci sarebbe il canto dell’usignuolo, Se non ci fosse il coppiere, non ci sarebbe né vino né caraffa, il coppiere [saqi], ossia il maestro che versa il vino della conoscenza intuitiva, non potrebbe diffondere nel mondo il credo dell’unità di Dio [tohid]. I due poemetti (n.88 e n.103), che vogliono essere uno sforzo per conciliare l’Islam e l’Occidente, dimostrano quest’intento anche nell’uso particolare del lessico. Ricorrenti sono nel linguaggio di Iqbal determinati vocaboli che, oltre a dare risalto al filo conduttore della “protesta”, catturano l’orecchio con i loro suoni. I vocaboli più usati riguardano il mondo in cui viviamo: dunia [mondo] accanto a sahra [deserto] e gulshan/gulistan [roseto/giardino]. In questo contesto si colloca il bulbul [usignuolo] che è il poeta e non certo l’usignuolo stereotipato della poesia convenzionale, il poeta che è preso dal canto d’amore per l’umanità, ‘ishq [amore], termine ricorrente una decina di volte sempre con sfumature varie. Proprio all’inizio della “protesta” il poeta chiarisce il suo intento: Perché ascoltare il lamento dell’usignuolo, fattomi tutt’orecchi O cantore! son forse una rosa che debbo mantenere il silenzio? Nel turbamento [pareshani] e nel tumulto [hangama] della vita il faro è Allah, che è il profumo del fiore, il fiore dell’aiuola. È nel nome di Allah che risuonò l’invito alla preghiera, l’azan, anche fuori delle terre dell’Islam, da Santa Sofia in Costantinopoli alla moschea di Cordoba, in Spagna, e in Sicilia. La jihad [la guerra santa] fu adoperata - sempre secondo Iqbal - per diffondere il monoteismo [tohid] e non per furto o saccheggio o per vendere gli idoli conquistati [but, sanam]. Il marchio del monoteismo imprimenmo in ogni cuore Quel messaggio diffondemmo anche con i pugnali. Inutile dire che il termine tohid è ricorrente nei due poemetti anche in unione con termini tipici quali mae-i tohid [il vino dell’unità di Dio], mast-i mae [intossicato dal vino], nur-i tohid [la luce dell’unità di Dio], bazm-i tohid [il banchetto dell’unità di Dio], naqsh-i tohid [il marchio dell’unità di Dio]. E nell’infuriare della battaglia [jang] il musulmano era sempre rivolto, fisicamente durante la preghiera o spiritualmente con il pensiero e la mente, alla qibla, alla Mecca, alla Ka’ba: Dalle pagine del tempo cancellammo il falso, noi, L’umanità salvammo dalla schiavitù, noi. E qui ritorna il contrasto tra batil [il falso] e haqq [il vero], nel senso di “vano”, cioè il mondo “inutile” del ciclo spirituale e materiale premonoteistico e il “vero”, il “giusto” dell’Islam. E conclude. Chi resterebbe al mondo a diffondere il messaggio dell’Islam se scomparissero i musulmani? quale coppiere [saqi] verserebbe il vino [mae] della conoscenza dell’unità di Dio? Noi viviamo perché nel mondo resti il Tuo nome, Come può restare la coppa senza il coppiere? Al tempo stesso Iqbal cominciò a scrivere in persiano, lingua che trovò congeniale per esprimere le sue idee filosofiche. Nel 1915 pubblicò la sua prima opera in persiano, Asrar-i Khudi [I segreti dell’Io], che fu tradotta in inglese. Il suo nome, già noto in India, Iran e Turchia, fu in breve conosciuto in Inghilterra ed in America. A questo poemetto fece seguito il Rumuz-i Bekhudi [I misteri del non-Io] in cui il poeta, dopo aver affrontato lo sviluppo dell’Io o Personalità umana, proponeva la Forza ed il Coraggio come gli ideali che l’uomo deve seguire per raggiungere il suo grande Destino, e la soggezione della Personalità alla Legge, in questo caso alla legge dell’Islam. Nel 1923 apparve a Lahore la raccolta di poesie in lingua persiana, il Payam-i Mashriq [Il Messaggio dell’Oriente], un insieme di liriche modellate nello stile adoperato da Goethe nel suo West-östlicher Divan [Il Divan Occidentale- orientale] pubblicato nel 1819. Così come Goethe era sceso nel profondo di sé malgrado la critica vi avesse visto l’evasione del poeta in un mondo lontano, la “liberazione del presente” in una “obliosa delizia d’artista”, anche Iqbal- come scrive egli stesso nella lunga introduzione alla raccolta- vuole “mettere in evidenza quelle verità morali, religiose e nazionali che sono in relazione con la educazione interiore degli individui e dei popoli. [...] L’Europa ha visto con i propri occhi le terribili conseguenze dei suoi ideali scientifici, morali ed economici e ha anche ascoltato dal signor Nitti (ex primo ministro d’Italia) la triste storia della ‘decadenza dell’Occidente’. [...] L’Oriente, e specialmente l’Oriente musulmano, dopo il sonno ininterrotto di secoli, ha riaperto gli occhi, ma i popoli d’Oriente devono aver chiara la sensazione che la Vita non può produrre nel suo ambiente esteriore rivoluzione alcuna finché non si produca una rivoluzione interiore nelle sue profondità”. Nel 1927 uscì, sempre in persiano, lo Zabur-i ‘Ajam [I salmi di Persia]: si tratta di una raccolta in tre sezioni distinte. La prima comprende i veri e propri salmi suddivisi in poesie numerate, senza titolo, di contenuto generale, e in poesie tipo “manifesto”. Segue un poemetto, il Gulshan-i Raz-i Jadid [Il Nuovo Roseto del Mistero], una sorta di compendio del sufismo: scopo di Iqbal è quello di mostrare come la sua teoria dell’Io sia in sostanza profondamente diversa da quella di una concezione corrente della mistica, cosa che fa adoperando in un modo nuovo metafore e termini tecnici della mistica tradizionale. Infine il Bandagi- namah [Libro della schiavitù], in cui Iqbal analizza le ragioni della disposizione dell’uomo a diventare schiavo degli altri. L’ultima opera in persiano, la migliore, è il Javed-namah così chiamato dal nome del figlio Javed. Il poema celeste, questo il titolo più noto, fu tradotto per la prima volta in una lingua europea, per l’appunto in italiano, da Alessandro Bausani nel 1952. Paragonabile nello schema al poema dantesco, è la rappresentazione allegorica di un volo nel Mondo Superiore, compiuto dall’anima del Poeta, che ha come suo Virgilio l’anima del mistico persiano del XIII secolo, Jalal ad-Din Rumi. Nel suo viaggio Iqbal non tocca però l’Inferno, né fa alcun cenno al peccato; interessante è il suo incontro con Nietzsche, il filosofo tedesco propugnatore della teoria dello Übermensch. La vera fonte di questo messaggio, dato al mondo da Iqbal, fu lo spirito dell’Islam: Nietzsche non credeva nella religione, per Iqbal questa era invece la sola sorgente di vita e di forza. Prima di tornare alla produzione in urdu, che è scopo precipuo del nostro lavoro, dobbiamo fare un cenno all’attività politica di Iqbal, anche se qualcosa di specifico, e cioè dei rapporti con l’Italia, sarà oggetto del capitolo successivo. Tutta l’attività politica di Iqbal fu volta a dare una patria ai Musulmani sparsi per tutta l’India. Messo da parte il sogno panindiano per l’impossibilità di un accordo tra musulmani e hindu per un governo federale in un’India unificata, cominciò negli anni Trenta del secolo scorso a prender piede l’idea di due Stati indipendenti, uno a maggioranza hindu, l’altro a maggioranza musulmana. Nel 1930, in qualità di presidente della sessione della Lega Musulmana, tenutasi ad Allahabad, Iqbal lanciò l’idea della “nazione musulmana”. In una lirica “L’eterna rivoluzione”, inclusa nel Payam-i Mashriq, aveva così profetizzato l’avvento del più grande Stato musulmano del mondo, il Pakistan: Il seme che in seno alla terra è ancora sommerso Lo vedo albero alto, e ricco di fronde e di frutti! E vedo, e non so dire come, una rivoluzione possente: E non la san contenere i confini del cuore dei cieli! Come già detto all’inizio, il Bang-i Dara è la prima raccolta in urdu, apparsa nel 1924: reca un’introduzione di Shaikh ‘Abd al-Qadir, già direttore della rivista “Makhzan” in cui era apparsa la prima poesia di Iqbal, Himalaya. Lo sceicco descrive lo svolgimento dell’ispirazione di Iqbal con il passaggio dalla lettura e recitazione dei versi all’ausilio del canto. Infatti i versi in urdu, in persiano ed in altre lingue non sono fatti per essere letti o recitati, ma cantati; ne abbiamo accennato a proposito della musha’ira. L’impatto era pertanto forte sugli ascoltatori, anche su quelli non in grado di capire i versi di primo acchito a causa dei concetti spesso difficili. Seguiamone la descrizione di ‘Abd al- Qadir: La sua ispirazione poetica, quando gli veniva, aveva un carattere vulcanico: durante una seduta era capace di improvvisare innumerevoli versi, che i suoi amici ed alcuni studenti annotavano a lapis, ricantandoli poi a loro modo. [...] Dapprincipio Iqbal, nelle sedute pubbliche, usava recitare le sue poesie con voce normale e, anche così, l’effetto era molto bello. Ma una volta in una seduta pubblica alcuni amici insistettero che cantasse i suoi versi melodicamente. Aveva una voce naturalmente forte e piacevole ed aveva una speciale abilità nella recitazione melodica. L’armonia con cui cantò fu tale che si fece un improvviso silenzio e tutti gli astanti cominciarono a muovere ritmicamente il capo. Ne risultarono due effetti: il primo è che ora è diventato per lui difficile recitare versi senza cantarli, perché ogni volta che comincia a recitarli normalmente tutti insistono perché li canti, e il secondo è che mentre prima solo una élite di persone colte apprezzava e comprendeva i suoi versi, ora egli attrae anche il volgo. A Lahore, quando Iqbal canta i suoi versi nelle sedute pubbliche della Anjuman-i Himayat-i Islam, si radunano decine e decine di migliaia di persone che durante tutta la recitazione siedono col fiato sospeso nella più assoluta attenzione, in estasi, sia che capiscano sia che non capiscano il significato dei versi stessi. Le poesie del Bang-i Dara sono divise in periodi. Quelle iniziali che vanno dal 1901, data di pubblicazione di Himalaya, al 1905 quando il poeta partì per l’Inghilterra: tralasciando gli adattamenti per i bimbi o quelli da Ralph Waldo Emerson (1803-1882) “La montagna ed uno scoiattolo”, da William Cowper (1731-1800) “Simpatia”, dal Rig Veda “Il sole”, da Henry Wadsworth Longfellow (1802-1882) “Il messaggio del mattino”, da Alfred Tennyson (1809-1892) “Amore e morte”, le poesie significative, oltre a quelle recitate nelle sedute pubbliche, sono quelle a carattere didattico o didascalico quali “La candela e la falena”, “Ragione e cuore”, “La luna nuova”, “Virtù e vizio”, e in particolare “Un nuovo altare” in chiave nazionalistica e di una ancora possibile entente cordiale tra musulmani e hindu: Pensavi che v’era Dio negli idoli di pietra, Per me ogni particella della mia patria è Dio. Il periodo che va dal 1905 al 1908 riguarda gli anni trascorsi da Iqbal in Europa. Pur essendo il meno prolifico, comprende liriche più mature sia dal punto di vista del contenuto che della forma. Basti pensare a “L’essenza della bellezza”, al dialogo tra “La luna e le stelle”, alla nostalgia malinconica di “Una sera”, scritta ad Heidelberg lungo le rive del Neckar, ai versi struggenti di “Solitudine”, o alla meravigliosa lirica dedicata alla “Sicilia”, di cui parleremo ampiamente nel capitolo successivo. Il terzo periodo è quello del ritorno a casa: va dal 1908 al 1924 anno della pubblicazione di Bang-i Dara. Si tratta delle grandi odi nazionali: “Città dell’Islam”, “Inno nazionale”, “Nazionalismo”, e soprattutto le già citate “Protesta” e “Risposta alla protesta”, non ultimi i versi di denuncia del modernismo: Pensavamo che l’istruzione avrebbe portato felicità, Nessuno sapeva che avrebbe portato con sé l’ateismo. Al 1935 risale la pubblicazione della seconda raccolta di versi in urdu, la più matura, che va sotto il titolo di Bal-i Jibril [L’Ala di Gabriele]. L’opera sembra voler esaudire la speranza espressa da Shaikh ‘Abd al-Qadir nella parte finale dell’introduzione al Bang-i Dara, e cioè che Iqbal desse alla letteratura in urdu quella ricchezza che egli aveva dato alla letteratura in persiano. Tre le novità: dal punto di vista del contenuto la trattazione di concetti filosofici o politico-sociali, dello stile l’uso abbondante di termini persiani, della metrica l’impiego di ghazal o pseudo-ghazal e di ruba’i o quartine, frutto della sua personale esperienza mistica, in particolare il concetto dell’Io ed il conflitto tra ragione e amore divino. Per comprendere in maniera corretta la sua esperienza mistica ci vengono in soccorso quattro paragrafi della prima delle sette conferenze raccolte sotto il titolo di The Reconstruction of Religious Thought in Islam: 1. Il primo punto da notare è l’immediatezza dell’esperienza [mistica]. Sotto quest’aspetto non differisce da altri livelli dell’esperienza umana che forniscono dati alla conoscenza. Tutta l’esperienza è immediata. Come le regioni dell’esperienza normale sono soggette all’ interpretazione dei dati sensoriali per la nostra conoscenza del mondo esterno, così la regione dell’esperienza mistica è soggetta all’interpretazione per la nostra conoscenza di Dio. L’immediatezza dell’esperienza mistica significa semplicemente che noi conosciamo Dio proprio come noi conosciamo altri oggetti. Dio non è un’entità matematica o un sistema di concetti correlati scambievolmente o senza alcun riferimento all’esperienza. 2. Il secondo punto è l’interezza dell’esperienza mistica che non è analizzabile. Quando faccio esperienza del tavolo di fronte a me, innumerevoli dati dell’esperienza si uniscono nell’esperienza singola del tavolo. Da questa ricchezza di dati seleziono quelli che cadono in un certo ordine di spazio e tempo e li completo con riferimento al tavolo. Nello stato mistico, per quanto vivido e ricco possa essere, il pensiero è ridotto al minimo ed una simile analisi non è possibile. Ma questa differenza dello stato mistico dalla consapevolezza razionale ordinaria non significa discontinuità con la consapevolezza normale, come pensava erroneamente il professor William James. In entrambi i casi è la stessa Realtà che opera su di noi. La consapevolezza razionale ordinaria, in vista della nostra necessità pratica di adattamento al nostro ambiente, coglie quella Realtà pezzo per pezzo, selezionando successivamente serie isolate di stimoli per reazione. Lo stato mistico ci porta in contatto con il passaggio totale della Realtà in cui tutti i diversi stimoli si fondono l’un nell’altro e formano una singola unità non analizzabile nella quale non esiste la distinzione ordinaria di soggetto e oggetto. 3. Il terzo punto da notare è che per il mistico lo stato mistico è un momento di intima associazione con l’unico Altro Io, che trascende, racchiude e sopprime momentaneamente la personalità privata del soggetto dell’esperienza. Considerandone il contenuto lo stato mistico è altamente oggettivo e non può essere considerato come un semplice isolamento nelle nebbie della pura soggettività. Ma mi chiederete come sia del tutto possibile l’esperienza immediata di Dio come un Altro Io Indipendente. Il semplice fatto che lo stato mistico sia passivo non prova alla fine la ‘diversità’ genuina dell’Io sperimentato. Questa domanda sorge nella mente perché noi assumiamo, senza critica, che la nostra conoscenza del mondo esterno attraverso la percezione sensoriale è il tipo dell’intera conoscenza. Se così fosse, noi non potremmo mai essere sicuri della realtà del nostro proprio io. Ad ogni modo, in risposta suggerisco l’analogia della nostra esperienza sociale quotidiana. Come conosciamo le altrui menti nelle nostre relazioni sociali? È ovvio che noi conosciamo il nostro proprio io e la nostra natura con la riflessione interiore e la percezione sensoriale rispettivamente. Noi non possediamo alcun senso per l’esperienza delle altrui menti. L’unico terreno della mia conoscenza di un essere consapevole di fronte a me sono i movimenti fisici simili ai miei dai quali ricavo la presenza di un altro essere consapevole. O, potremmo dire, sulla scia del professor Royce, che sappiamo che i nostri compagni sono reali perché rispondono ai nostri segnali e forniscono così in maniera costante il supplemento necessario ai nostri propri significati frammentari. Il responso è, senza dubbio, la prova della presenza di un io consapevole, un punto di vista condiviso dal Corano: E disse il vostro Signore: ChiamateMi ed io vi risponderò (XL, 60). Quando i Miei servi ti chiedono di Me, Io sono vicino; ed esaudirò la preghiera di chi prega quando Mi prega (II,182). È chiaro che se applichiamo il criterio fisico o quello non- fisico e più adeguato di Royce, in entrambi i casi la nostra conoscenza delle altrui menti rimane qualcosa simile solo al deduttivo. Eppure sentiamo che la nostra esperienza di altre menti è immediata e non ha mai alcun dubbio nei confronti della realtà della nostra esperienza sociale. Non intendo ad ogni modo allo stato presente della nostra inchiesta costruire sulle implicazioni della nostra conoscenza di altre menti un argomento idealistico in favore della realtà di un io comprensivo. Tutto ciò che intendo suggerire è che l’immediatezza della nostra esperienza nello stato mistico non è senza un parallelo. Rassomiglia alquanto alla nostra esperienza normale e probabilmente appartiene alla stessa categoria. 4. Poiché la qualità dell’esperienza mistica deve essere sperimentata in maniera diretta, è ovvio che non può essere comunicata. Gli stati mistici rassomigliano più a sensazioni che a pensieri. L’interpretazione che il mistico o il profeta pone a contenuto della sua consapevolezza religiosa può essere trasmessa ad altri nella forma di proposizioni, ma il contenuto stesso non può essere trasmesso in questo modo. Pertanto nei seguenti versetti del Corano è la psicologia e non il contenuto dell’esperienza che viene data: A nessun uomo Dio può parlare altro che per Rivelazione, o dietro un velame, o invia un Messaggero il quale riveli a lui col Suo permesso quel che Egli vuole. Egli è l’Eccelso Sapiente (LXII, 51). Per la stella, quando declina! Il vostro compagno non erra, non s’inganna e di suo impulso non parla. No, ch’è rivelazione rivelata, appresagli da un Potente di Forze sagace, librantesi alto sul sublime orizzonte! Poi discese pèndulo nell’aria, s’avvicinò a due archi e meno ancora, e rivelò al servo Suo quel che rivelò. E non smentì la mente quel che vide. Volete voi dunque discuter quel che vede? Sì, ei già Lo vide ancora presso il loto di al- Muntahà presso al quale è il Giardino di al-Ma’wa quando il loto era coperto come d’un velo. E non deviò il suo sguardo, non vagò. E certo ei vide, dei Segni del Signore, il supremo! (LIII, 1-18). L’incomunicabilità dell’esperienza mistica è dovuta al fatto che è essenzialmente una materia di sensazioni inarticolate, non toccate dall’intelletto discorsivo. Va comunque notato che la sensazione mistica come tutte le sensazioni ha anche un elemento cognitivo; e lo è, io credo, a causa di questo elemento cognitivo che presta sé stesso alla forma dell’idea. Infatti, è la natura della sensazione a cercare espressione nel pensiero. Sembrerebbe che i due - sensazione e idea - siano gli aspetti non-temporale e temporale della stessa unità dell’esperienza interiore. Ma su questo punto non posso fare di meglio che citare il Professor Hocking che ha compiuto uno studio molto acuto della sensazione a giustificazione di una veduta intellettuale del contenuto della consapevolezza religiosa: ‘Che cos’è quella altra-che-sensazione in cui la sensazione può finire? Rispondo, consapevolezza di un oggetto. La sensazione è l’instabilità di un intero io consapevole: e ciò che riporterà la stabilità di quest’io non giace entro il nostro proprio confine, ma al di là di esso. La sensazione si spinge all’esterno, così come l’idea comunica con l’esterno: e nessuna sensazione è così cieca da non avere alcuna idea del suo proprio oggetto” [...]. Di particolare importanza sono nel Bal-i Jibril le quarantun quartine o ruba’yat (dalla radice araba r-b-‘ con il senso per l’appunto di “quattro”). Il ruba’i è una brevissima composizione lirica di quattro emistichi (misra‘), due versi, a rima a-a-b-a o in casi particolari a rima a-a-a-a: viene di solito usato per trasferire in poesia un pensiero, un’idea, una considerazione, una constatazione, e simili. Il ruba’i, reso celebre nella letteratura persiana da ‘Omar Khayyam, porta “spesso a possenti risultati estetici con la concisione obbligata impostagli dalla breve ed esilissima forma, e con l’abile uso del ‘ritorno’ dell’ultima rima dopo l’interruzione ritmica del terzo verso, il che fa del ruba’i come un circolo conchiuso e levigato di pensiero che mirabilmente si adatta all’aforisma scettico o alla eiaculazione mistica”. Il filo sottile che lega queste “quartine” è il rimpianto dei tempi passati e la constatazione della sterilità e della vuotezza del tempo presente: non c’è più devozione nella fede dell’Islam, persi come sono i musulmani nelle lotte intestine e nell’acquiescenza di fronte all’Occidente. La quartina n.21 sembra condensare tutte le altre, che ripetono questo concetto in forme e in momenti in apparenza diversi: La pazzia dell’amore non dura, Nei musulmani il sangue è acqua. Ranghi rotti, cuori confusi, preghiere scipite. I sentimenti profondi non durano. Anche se in maniera inconsapevole, queste “quartine” sembrano essere un’ideale continuazione del pensiero già espresso in Shikva e Javab-i Shikva: un unico richiamo in tante forme differenti, ossia invitare i musulmani alla riscossa in nome delle glorie passate. Il vocabolo chiave in queste “quartine” è ‘ishq, un amore che brucia, che diventa amore mistico (soz-i Khuda’i, ‘ishq o masti), amore in genere (mahabbat), amore o sospiro di passione (ah-i sehr), un “amore” usato nel dualismo costante tra “cuore” (dil) e “ragione” (khirad, ‘aql) dove “la ragione è in lotta con il cuore, il cuore con la ragione” (ruba’i n.33). Il tono delle “quartine” è essenzialmente mistico: la personale esperienza mistica, il concetto dell’Io (Khudi), il conflitto tra ragione e cuore. Questo misticismo si svolge nel dilemma di tutta la vita di Iqbal, in primis, tra l’ateismo di Nietzsche e il misticismo di Rumi. Consapevole di questo contrasto nella sua personalità, Iqbal chiude il ghazal n.14 della seconda parte del Bal-i Jibril con questi emistichi: Tu solo, o apostolo di Dio, sei il mio sostegno La mia conoscenza è europea, il mio credo è pagano. Nel 1936 Iqbal pubblicò la sua terza opera poetica in urdu, Zarb-i Kalim [Il colpo dell’Interlocutore], ossia il colpo di Mosè che, secondo la tradizione teologica musulmana, è “colui che parlò con Dio”. Mosè- come scrive Bausani- è nell’Islam uno dei più efficaci simboli della potenza profetica di contro alla potenza magico-satanica dei maghi di Faraone. È naturale che il contrasto dovesse attirare Iqbal, che vede nella potenza puramente magica e ‘pagana’ dell’Europa ‘materialistica’ la nemica della potenza veramente sacra e profetica che il mondo musulmano dovrebbe far sua di nuovo, dopo la lunga decadenza. Inferiore all’opera precedente sotto il punto di vista artistico, Zarb-i Kalim, che è dedicato a colui che fu il protettore di Iqbal negli ultimi anni della sua vita, il navvab di Bhopal, sir Hamidullah Khan, chiarisce lo scopo nei brevi versi di dedica in cui si dice che “sul campo di battaglia a nulla serve il suono del liuto”. Il sottotitolo stesso dell’opera, “Dichiarazione di guerra all’età moderna”, e la suddivisione degli argomenti in ampie sezioni sono di per sé stessi significativi. “L’Islam e i musulmani” è la prima e più ampia sezione: seguono “Educazione e cultura”, “La donna”, “Letteratura e belle arti”, “La politica d’Oriente e d’Occidente”, e infine i “Pensieri di Mihrab Gul l’Afghano”, un immaginario saggio afghano che è la voce stessa del Poeta e dalla cui bocca escono le considerazioni politico-culturali-poetiche di Iqbal. L’ultima opera di Iqbal, Armughan-i Hijaz [Il dono del Hijaz], uscì postuma nel 1938 poco dopo la morte: contiene poesie in persiano e in urdu, a forte contenuto “concettuale”. Non per nulla Iqbal ritornò al ruba‘i, quella forma poetica che gli sembrò la più adatta ad esprimere il suo pensiero. A conclusione di queste note c’è da menzionare un diario che il poeta iniziò il 27 aprile 1910, ma interruppe, non si sa per quale ragione, dopo pochi mesi: scritto in inglese, con il titolo di Stray Reflections, fu parzialmente pubblicato a guisa di pensieri o riflessioni in giornali dell’epoca. Si trattava probabilmente di un diario cui affidare le proprie emozioni in un difficile periodo della vita del poeta. Ritornato dall’Europa dove aveva visto il contrasto tra due differenti civiltà, allora una dinamica, l’altra statica, Iqbal si trovava ad un bivio della sua esistenza: professore di filosofia al Government College di Lahore, era combattuto tra il desiderio di diventare un fautore della riscossa dei musulmani e la sua posizione di dipendente del raj britannico. A ciò si aggiungevano le difficoltà finanziarie e l’insoddisfazione per un matrimonio combinato secondo le usanze del tempo. Il mese precedente, in marzo, Iqbal si era recato nel Deccan, ad Haidarabad, per esplorare le possibilità di un suo trasferimento in uno stato principesco in maniera da non dover dipendere direttamente dal governo inglese: ma ne era rimasto disilluso ché l’atmosfera culturale stagnante non era migliore di quella del Panjab e la situazione politica peggiore ché il nizam, il sovrano, era completamente succubo degli inglesi. L’anno prima, in una lettera all’amica Atiyya Begam, il 9 aprile 1909, aveva espresso quei sentimenti che lo portarono a dare le dimissioni dal Government College: “Il mio scopo è di fuggire da questo paese il più presto possibile. [...]. La mia vita è terribilmente triste. Essi [i genitori] mi hanno imposto una moglie. Ho scritto a mio padre che non aveva alcun diritto a concludere il mio matrimonio. [...]. Sono un essere umano ed ho diritto alla felicità.” E nella lettera successiva, il 17 aprile: “L’altra notte sono stato nel paradiso e ho attraversato i cancelli dell’Inferno. Ho trovato il luogo terribilmente freddo. Mi fu detto, quando mi sono meravigliato, che quel luogo è freddo di natura; ma che sarebbe diventato molto caldo poiché ognuno avrebbe portato il proprio fuoco dal mondo”. Si tratta di un appunto prezioso relativo alla poesia Sair-i falak [A zonzo nell’empireo] che ne spiega i versi, in particolare gli ultimi sei: Questo luogo gelido è nomato inferno, Il suo seno è privo di fuoco e di luce. Il calore delle fiamme che l’avvolgono Spaventa gli uomini in cerca di un monito. Quando la gente della terra arriva qui Si porta appresso l’ultima scintilla La disillusione del poeta di ritorno da Haidarabad era tale che scrisse all’amica il 7 aprile 1910 in questi termini: “Ricevo lettere da varie parti del paese affinché io pubblichi le mie poesie in forma di libro. Un signore che tu hai forse conosciuto si è offerto a fare ciò – scrivere un’introduzione, far stampare il libro in una delle migliori tipografie in India e farlo rilegare in Germania. Ma non sento entusiasmo per la poesia: mi sento come se si fosse spenta in me l’ispirazione e mi avessero privato dell’immaginazione. Forse la poesia su Aurangzeb – di cui ho visitato di recente la tomba – sarà l’ultima”. Questo terribile periodo di pessimismo passò e la vita del poeta andò avanti come descritto in precedenza. Muhammad Iqbal morì a Lahore il 21 aprile 1938: dalla nascita del Pakistan la giornata è diventata ricorrenza nazionale. 3. IQBAL E L’ITALIA Il primo contatto di Muhammad Iqbal con l’Italia fu nel 1905 durante la traversata del Mediterraneo nel suo viaggio dall’India verso l’Inghilterra; vedendo dalla nave, in lontananza, le coste della Sicilia, compose una delle liriche più toccanti, Siqilliya. La lirica, scritta in urdu, oggi lingua ufficiale del Pakistan, fu inserita anni dopo nella raccolta di poesie Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], pubblicata nel 1924. Siqilliya è uno struggente ricordo delle antiche glorie dell’isola durante il periodo della civiltà araba. Ad Iqbal la Sicilia appare di lontano come la tomba della civiltà araba. Un tempo- dice- gli abitanti del deserto solcavano il mare Mediterraneo con le loro navi agili, facendo risuonare tutta l’isola del grido di battaglia Allah u akbar [“Iddio è grande”]; ora, invece, tutto piange nel mondo dell’Islam: piange il poeta persiano Sa’di, “l’usignuolo di Shiraz”, sulla Baghdad distrutta nel 1258 per mano dei mongoli di Hulagu Khan, piange il poeta urdu Dagh sulla Delhi (Jahanabad) conquistata dagli inglesi, piange il poeta arabo Ibn Badrun su Granada caduta in mano ai cristiani nel 1492. E piange infine il poeta stesso, Iqbal, che riporterà in patria una visione della decadenza dell’Islam. Questa nostalgia per il passato si ritrova, in varie forme e sotto vari aspetti, in tutta l’opera poetica di Muhammad Iqbal; non è però il suo un rimpianto sterile. Anzi sarà proprio questo ricordo nostalgico del passato che porterà nel 1947 alla creazione di una nazione musulmana nel sub- continente indiano, il Pakistan per l’appunto. E quando il poeta parla di millat, ossia di nazione, non adopera il termine nel senso occidentale di nazione ma nel senso sopranazionale di intero mondo dell’Islam. Attraverso il velo allegorico della poesia Iqbal volle stimolare i suoi correligionari all’azione; nel ricordare ai musulmani il loro passato dimenticato Iqbal volle dire che l’Islam non è solo un insieme di rituali ma è nella sua essenza un atteggiamento di vita. Ai suoi correligionari fermi nella passività e sopraffatti da un senso di frustrazione portò un messaggio di speranza ricordando loro le glorie e le gesta degli antenati. A questo punto potrebbe sembrare che Iqbal fosse uno spregiatore dell’Occidente: non fu tale. Pubblicando le sue conferenze The Reconstruction of the Religious Thought in Islam, proprio all’inizio rilevò che “il fenomeno più caratteristico della storia moderna era l’enorme rapidità con cui il mondo dell’Islam si muoveva spiritualmente verso l’Occidente”, aggiungendo subito dopo che non c’era nulla di sbagliato poiché “la cultura europea, nel suo aspetto intellettuale, non è altro che un ulteriore sviluppo di alcune delle più importanti fasi della cultura dell’Islam”. E per ricordare qui i legami tra mondo islamico e mondo occidentale e le imperscrutabili vie di scambi, influenze, compenetrazioni, in altre parole tutto il processo di osmosi in oltre tredici secoli di storia, è sufficiente richiamare l’attenzione su quello che successe in Europa nel 1919 quando lo spagnolo Miguel Asin Palacios stupì e irritò al tempo stesso il mondo occidentale, in particolare l’Italia, con la pubblicazione di una infiammatoria Escatologia musulmana en la Divina Comedia. Nel suo lavoro lo studioso iberico descrisse le analogie esistenti tra la costruzione del mondo ultraterreno nella Commedia di Dante e l’escatologia musulmana; a sostegno della sua tesi portava comparazioni tra episodi dell’opera dantesca e passi della letteratura araba. All’epoca gli fu controbattuto il fatto che Dante non conosceva l’arabo e che le opere della letteratura araba cui si riferiva l’Asin Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante. In realtà queste controtesi, valide di per sé stesse, erano state in parte dettate più da un senso di consorteria che da un approccio veramente critico, almeno da parte di molti studiosi interessati alla questione: si trattava di fare quadrato contro l’Islam come se la fama di un Dante potesse essere diminuita da una conoscenza o da un uso di testi islamici e non viceversa accresciuta. Trent’anni dopo, nel 1949, l’orientalista italiano Enrico Cerulli pubblicava Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia: nella prima parte riportava i testi francese e latino relativi ad un viaggio celeste di Maometto ed alla sua visione dei cieli e dell’inferno, nella seconda i testi, pressoché inediti, di autori medievali contenenti notizie sulle tradizioni escatologiche musulmane. Lo scopo di questa seconda parte era quello di valutare quanto l’Occidente conosceva delle idee musulmane sul Paradiso e sull’Inferno, indipendentemente dal Libro della Scala, nell’originale arabo al-Mi’raj [L’ascensione di Maometto], che era una traduzione latina e francese dal castigliano, a sua volta derivata dall’arabo. A questi aspetti dell’osmosi Islam-Occidente pensava certamente Iqbal quando scriveva il testo delle conferenze sul pensiero religioso dell’Islam e soprattutto quando scriveva che “con il risveglio dell’Islam è necessario esaminare, in uno spirito indipendente, quanto il pensiero europeo e le conclusioni raggiunte possano aiutare i musulmani nella revisione e, se necessario, nella ricostruzione del pensiero teologico dell’Islam”. Un tempo fosti la culla della civiltà di quel popolo, Un tempo fuoco fu la tua incandescente bellezza non sono versi sterili, che possono apparire tali dal punto di vista poetico; sono didattici così com’è didattica la sua poesia religiosa, filosofica o politica che fosse. La teoria dell’”Arte per amor dell’arte”, quell’Art for Art’s sake tipicamente romantica, non era condivisa da Iqbal, un maestro senza scuola. La nostalgia del passato significava invitare i suoi correligionari ad aprire la mente e il cuore al messaggio della fede e a sgombrare il campo da ogni malinteso, pregiudizio, errore che albergavano nella mente e nel cuore prima di criticare i malintesi, i pregiudizi e gli errori degli altri. Iqbal, come già detto, scrisse, oltre che in urdu, anche in persiano: profondo conoscitore delle culture occidentali - si era laureato nei primi anni del secolo a Cambridge e a Monaco di Baviera - ammiratore di Dante, Milton e Goethe, scrisse in persiano il Javed-namah [Il poema celeste], paragonabile nello schema al poema dantesco. Si tratta - come abbiamo già detto ma preferiamo ripeterlo per il valore comparativo con la Divina Commedia - di una rappresentazione allegorica di un volo nel mondo Superiore, compiuto dall’anima del poeta, che ha come suo Virgilio l’anima del grande mistico persiano del XII secolo, Jalal ad- Din Rumi. Nel suo viaggio Iqbal non tocca però l’Inferno, né fa alcun accenno al peccato; interessante è il suo incontro con Nietzsche, il filosofo tedesco propugnatore della teoria dello Übermensch. La vera fonte del messaggio, dato al mondo da Iqbal, fu lo spirito dell’Islam. Nietzsche non credeva nella religione; per Iqbal questa era invece la sola sorgente di vita e di forza. Tornando alla lirica Siqilliya, pur costituendo la visione dell’isola un ricordo letterario, vi si adombra sotto lo sfogo poetico la considerazione della situazione politica dei musulmani d’India, argomento chiave del discorso presidenziale tenuto da Iqbal a Lahore nella sessione della All Indian Muslim Conference il 21-22 marzo 1932. In quel discorso, famoso per l’idea di creare in India due aree separate per gli hindu e i musulmani, che sfocerà anni dopo nel Pakistan Movement, c’è un passo significativo in cui Iqbal fa un richiamo a Mussolini, richiamo certamente di ordine linguistico e di forma, non scevro però da una certa simpatia anche se sul piano personale e non delle idee: “Non aspettate alcunché da alcuna parte. Concentrate tutto il vostro io soltanto su voi e fate che la vostra creta maturi in una piena virilità, se desiderate veder realizzate le vostre aspirazioni. La massima di Mussolini fu “Chi ha acciaio, ha pane”. Io oso modificarla un po’ e dico “Chi è acciaio, ha ogni cosa”. Siate forti e lavorate fortemente. Questo è tutto il segreto della vita individuale e collettiva. Il nostro ideale è ben definito. È di guadagnare per l’Islam, nella prossima Costituzione [Indiana], una posizione che possa dargli l’opportunità di compiere il suo destino in questo Paese”. L’anno precedente, nel 1931, Iqbal era ritornato in Inghilterra in qualità di Membro della Delegazione per la Seconda Conferenza della Tavola Rotonda. Di ritorno da Londra si era fermato per alcuni giorni a Roma su invito dell’Accademia d’Italia. E il 27 novembre, alle ore 15,45, era stato ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia. Ignoto lo scopo dell’incontro. Una visita di cortesia soltanto? o non piuttosto un duplice interesse: di simpatia umana da parte di Iqbal, di natura politica da parte di Mussolini che, sappiamo da altre fonti, conduceva una sua politica personale nei confronti dell’India. Iqbal fu certamente impressionato dall’Italia mussoliniana, che non faceva mistero della sua anglofobia. Ritornato a Lahore, Iqbal compose qualche tempo dopo due poesie su Mussolini, pubblicate nel 1935-1936. La prima apparve nel Bal-i Jibril [L’ala di Gabriele] nel gennaio 1935 ed è antecedente alla campagna abissina: è decisamente favorevole a Mussolini che Iqbal vede come forza nuova, capace di risvegliare “negli occhi dei vecchi lo splendore della vita, nei petti dei giovani l’ardente desiderio”. Il suonatore di cui la ribeca era in attesa è giunto ed ha operato il miracolo. Mussolini L’originalità del pensiero e dell’azione? Desiderio di rivoluzione! L’originalità del pensiero e dell’azione? Giovinezza della nazione! Con l’originalità del pensiero e dell’azione miracoli di vita, Con l’originalità del pensiero e dell’azione selce di puro rubino! O Roma, la Grande! Mutata è la tua coscienza. O Dio, ciò che vedo lo vedo da sveglio o da addormentato? Negli occhi dei vecchi lo splendore della vita, Nei petti dei tuoi giovani brucia l’ardente desiderio! Questo calore dell’amore! Quest’anelito! Questa fama! Nella stagione delle rose i fiori non possono non sbocciare! Il tuo spazio è pieno di canti d’aspirazione, La tua ribeca era in attesa del suonatore! Di quale sguardo è quest’abbondanza? Di chi è questo miracolo? È di colui il cui sguardo è simile ai raggi del sole. La seconda poesia fu composta a Bhopal il 22 agosto 1935 e fu inclusa nel Zarb-i Kalim [Il colpo dell’Interlocutore], pubblicato nel luglio 1936. C’è stato forse un ripensamento tra la stesura della lirica e il tempo della pubblicazione avvenuta dopo la campagna etiopica e la proclamazione dell’Impero il 9 maggio 1936? Apparentemente sì. Il sottotitolo “Ai suoi avversari in Oriente e in Occidente” preannuncia un’autodifesa di Mussolini nei confronti degli inglesi che mal digerirono la campagna d’Etiopia. Mussolini enumera tutti i crimini e le sopraffazioni inglesi che sono stati giustificati nei secoli “sotto il velo della civiltà” e dà così una giustificazione dei suoi: in apparenza potrebbe trattarsi di una difesa di Mussolini, nella realtà è un’amara constatazione dell’imperialismo che si è sempre servito di tutti i mezzi a sua disposizione nella più cruda ottica machiavellica. Mussolini (ai suoi avversari in Oriente e in Occidente) Qual è il crimine di Mussolini sì inaudito in quest’epoca? Questi innocenti europei han perso la calma per nulla. Perché s’offende lo staccio, quando faccio la separazione? Noi tutti siam strumenti di civiltà, Tu staccio, io ventilabro. Voi disdegnate la mia bramosia d’imperialismo. Non avete voi forse calpestato le nazioni deboli? Quale imperialismo non s’è servito di simili astuzie? Esiste la capitale ma senza sovrano e sovranità. La progenie di Cesare è indaffarata a irrigar canne, Mentre voi non lasciaste esente da tributo la più sterile terra! Voi saccheggiaste le tende dei poveri abitator del deserto, Voi saccheggiaste campi di contadini, corona e trono! Il saccheggio e l’assassinio dietro il velo della civiltà Ieri voi giustificaste, oggi io lo giustifico. Abbiamo detto all’inizio che non si sa nulla dell’incontro tra Mussolini e Iqbal, anzi sino a poco tempo fa non si era neppure certi che l’incontro fosse avvenuto: c’era solo la frase di Pietro Quaroni in un articolo pubblicato sul “Corriere della Sera” l’11 febbraio 1956. Che la visita a Mussolini fosse possibile lo si arguisce da un “Appunto” datato Roma 8 ottobre 1931, redatto forse dal console Scarpa per il Ministero degli Esteri. Nella Nota si diceva che, interrottisi i lavori della Conferenza della Tavola Rotonda a Londra, altri delegati indiani quali Gandhi e Malaviya (Rettore dell’Università di Benares) sarebbero forse giunti in Italia. L’estensore dell’”Appunto” si preoccupava di controbilanciare la visita di un leader musulmano con quella di un leader hindu, come poi avvenne per Gandhi: “Potrebbe sotto un certo aspetto essere conveniente, dato che è stato invitato dall’Accademia un leader musulmano, che venga anche invitato il leader hindu, per non urtare la suscettibilità di questa comunità che è costituita da 280 milioni di persone. Gli hindu e in particolare i nazionalisti rifiutano ogni appoggio alla recente campagna di calunnie e di boicottaggio contro l’Italia per la quale e per il Duce hanno generale simpatia”. In che lingua si sarà svolto il dialogo, ammesso che dialogo vi fu? Mussolini non era in grado di seguire una conversazione in inglese su un tema complesso, né Iqbal conosceva l’italiano. Per l’incontro tra Mussolini e Tagore c’era stato come interprete il prof. Formichi, sanscritista e indologo di fama. Ma per Iqbal? Fu forse solo una visita di cortesia? Nel registro delle udienze di quel venerdì 27 novembre 1931 non sono registrate dalla Segreteria Particolare altre visite dopo quella di Iqbal che reca accanto la lettera “E” per estero: è probabile che sia durata un quarto d’ora come la visita precedente sotto l’ora 15,30. Che cosa comunque ne pensasse Iqbal lo sappiamo dalla conversazione tra lui e Pietro Quaroni a Lahore nel 1936 dopo la proclamazione dell’impero. Vale la pena sentirla dalle parole del consumato diplomatico italiano: “Era una stanza minuscola, irregolare, col soffitto basso: un piccolo divano correva tutto intorno al muro. Iqbal era seduto per terra, su di un paio di cuscini; accanto a lui, una hookah di vetro verde scuro coi disegni dorati. Teneva in mano il lungo bocchino di ambra e di velluto rosso e ogni tanto, come distrattamente, aspirava una boccata di fumo. Una strana faccia sottile, pallida, bianchissima, come emaciata: mi avevano detto che era stato malato, e si vedeva. Prima dell’Islam eravamo una famiglia di brahmini del Kashmir- fu una delle prime cose che mi disse. Il naso aquilino, marcato, tagliente, due baffetti sottili, appena brizzolati, leggermente spioventi, le mani lunghe, nervose. Teneva la testa sempre un po’ inclinata da una parte; anche la voce era lenta, affaticata, chiara, eppure sembrava che ogni parola volesse entrarvi a forza nella testa. Ogni tanto un sorriso leggero, appena un accenno; il labbro superiore si sollevava un po’ da un lato: una delle sopracciglia si alzava trascinando dietro la palpebra. Ma in quel sorriso appena accennato c’era la sicurezza della sua superiorità intellettuale e c’era anche un’ironia profonda, distruggente, forse anche un po’ ostile. Di musulmani ne avevo incontrati tanti, in Turchia, in Albania, nel Medio Oriente; più che altro conservatori, forse più attaccati sentimentalmente alla forma che alla sostanza della loro religione: un Islam, nel complesso, sulla difensiva. Questa volta no: davanti a me c’era un pensatore, un riformatore, un profeta: un Islam, forse rinnovato, certo cosciente della sua forza, della sua volontà. Naturalmente, si era finito per parlare della posizione dell’Italia davanti all’Islam: era già l’epoca in cui cominciavano a circolare le prime teorie sulla spada dell’Islam e sul Protettore dell’Islam. Spiegare le nostre idee non era facile: erano tanto, ma tanto vaghe. Poi, come interlocutore non era facile Mohammed Iqbal: non diceva una parola, mi guardava attraverso le palpebre socchiuse, s’era spinto un po’ avanti, curvo per sentirmi meglio, ma si sentiva il rifiuto. Stavo cercando di indovinare dove era la giuntura della corazza se c’era. Quando è che si costruisce una moschea a Roma? - mi chiese ex abrupto. Cercai ancora di spiegare; ma era anche meno facile. Allora perché mandate i vostri missionari dalle nostre parti? Perché ci imponete le vostre chiese? Siete dei cattolici, ritenete che la vostra religione sia la sola vera, cercate di convertirci; è il vostro diritto. Anch’io sono convinto che la mia religione è la sola vera e cerco di convertire chi non ci crede. Ma se volete dichiararvi amici, o protettori dell’Islam, e se volete che noi cominciamo a crederci, allora dovete cominciare col rispettarci, col dimostrarci che ritenete la nostra religione buona come la vostra. E allora, logicamente, dovreste smetterla di mandare fra di noi i vostri missionari e non ci sono ragioni al mondo per cui non si debba costruire una bella moschea a Roma, proprio a Roma. Anche noi, sa, conosciamo e apprezziamo la logica, la stessa logica vostra, la logica aristotelica: non se lo dimentichi. Come fare a dargli del tutto torto? Cercai di cambiare argomento. Ma non c’era verso, si ritornava sempre alla politica. Si era nel ‘36: la proclamazione dell’Impero era ancora tutta fresca. Difendere la nostra impresa di fronte a della gente che stava agitandosi per liberarsi da una dominazione straniera non era la cosa più facile della terra; è curioso come tanti argomenti sembrino eccellenti quando uno li pensa dietro ad un tavolino per apparire, invece, senza alcun valore quando ci si trova di fronte a delle persone vive. Lei sa cosa voglio dire se le parlo di Rum?- mi chiese. Si era voltato tutto dalla parte mia: c’era qualche cosa di volutamente ironico nella maniera con cui si lisciava i baffetti sottili. Letteralmente Rum è Roma, in genere l’Impero romano, in particolare l’Impero bizantino; in un certo senso la cristianità organizzata così come essa lo era all’epoca delle Crociate. Ebbene, potrebbe spiegarmi perché l’Italia proprio adesso vuole ridiventare Rum? Finché l’Italia resta l’Italia, anche se è un Paese cattolico, purché rispetti la nostra religione come noi rispettiamo la sua, non ci sono ragioni per non andare d’accordo. Ma se l’Italia vuole ridiventare Rum, allora non si faccia illusioni: essa troverà contro di sè tutto il mondo dell’Islam come all’epoca del Rum antico. Era un avvertimento, una minaccia? Non lo so: il tono era estremamente cortese, la voce pacata, insinuante; c’era anzi come una certa luce benevola in fondo all’occhio, che si era un po’ aperto; ma c’era anche, nel tono, qualche cosa di duro, di deciso, quasi di spietato. Noi vogliamo liberarci dagli inglesi - continuò Mohammed Iqbal come se seguisse il suo pensiero - ma non certo per mettere qualcun altro al loro posto. Anzi, a dirle la verità, preferiamo liberarci da noi. Decisamente il terreno era molto delicato. Non saprei nemmeno dire se fui io od il mio ospite a sviare la conversazione sul tema molto meno scottante dei mistici dell’Islam. Mohammed Iqbal continuava con la stessa voce pacata, con lo stesso tono leggermente ironico... Sa che ho scritto una poesia su Mussolini - mi disse con un sorriso impercettibile quando stavo per andarmene - gliela manderò domani. Il giorno seguente vennero a trovarmi all’albergo tre dei seguaci del Maestro: mi consegnarono, sulle palme delle mani aperte, come in un rito, un volume rilegato con le poesie di Iqbal. E mi parlarono a lungo di lui: c’era una specie di esaltazione nelle loro parole. Come riusciva, quell’uomo, all’apparenza freddo, distante, ironico a suscitare tanto entusiasmo? O era stato solo una maschera di fronte all’estraneo? Il libro era in urdu, il che non facilitava le cose per me: domandai ai miei giovani amici di tradurmi quello che riguardava Mussolini. Si scambiarono uno sguardo come imbarazzato, poi uno di loro cominciò a sfogliare il libro: mi guardò ancora, e poi cominciò a tradurre. Era stato scritto, credo, subito dopo che Mohammed Iqbal era stato ricevuto a Palazzo Venezia. Mi stavo domandando se qualcuno ne avesse mai mandato a Mussolini la traduzione integrale”. Sin qui il testo dell’articolo di Pietro Quaroni che ci fa conoscere il pensiero di Iqbal sulla scottante questione. Anche se dubitiamo che il problema della posizione dell’Italia nei confronti dell’Islam possa essere stato affrontato in una visita certamente di cortesia, Iqbal ne aveva parlato a Quaroni con cognizione di causa. Oggi sappiamo che in base ad un assioma logico, ma disarmante, Mussolini aveva pensato di dare il via ad una politica italiana nel sub-continente indiano, o meglio ad una sua personale politica verso l’India. L’assioma sembrava chiaro: l’India e l’Italia sono anti-inglesi, quindi l’India e l’Italia dovrebbero trovarsi d’accordo. Questo il nocciolo, anche se non così semplice l’iter di tale politica. Nella realtà non esisteva una politica chiara dell’Italia fascista nei confronti dell’India britannica: si trattò sempre di improvvisazione determinata, come fu, non da un programma ma da situazioni o accadimenti, o spesso dalla disponibilità di personaggi che ora si offrivano ora si negavano in un giuoco di interessi o personali o politici, o spesso utopistici. Si contattavano i vari leader indiani in occasione di loro viaggi per e dall’Europa approfittando anche del fatto che dovevano passare per l’Italia per imbarcarsi a Brindisi sui vapori della Valigia delle Indie. Chi si preoccupava di agganciare questi personaggi era Gino Scarpa, console italiano a Calcutta, simpatizzante più della causa di Gandhi che dei musulmani: la cosa doveva però essere fatta con discrezione per evitare di entrare in collisione con la Gran Bretagna, tanto è vero che gli inviti ufficiali ad importanti personaggi indiani non erano mai fatti dal Ministero degli Esteri ma dall’Accademia d’Italia o dalle università. Non c’era inoltre una visione unitaria del problema neppure tra i responsabili della politica estera italiana, Mussolini, Ciano, Grandi e loro collaboratori, condizionati tutti dalle personali predilezioni e dall’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Inghilterra prima della seconda guerra mondiale e nei confronti della Germania dal 1940 in poi. Che Mussolini pensasse ad una penetrazione commerciale in India e a stabilirvi delle teste di ponte dopo la vittoria dell’Asse ed il crollo dell’impero anglo-indiano lo testimonia una frase da lui letta in un libro sull’unità jugoslava e segnata con tre punti esclamativi: Les Indes sont bien le coffre-fort du monde. Il faut que l’Italie les possède. Peu leur importe ce que les Anglais diront. Les légionnaires fascistes se chargeraient de les faire taire ... . Il libro è del 1931: ma quando avrà letto Mussolini questo passo? Forse nello stesso anno di edizione. Ci induce a crederlo la presenza nella sua biblioteca di una monografia del 1930, L’India dove va?, scritta da Gino Scarpa sotto lo pseudonimo di “Viator” e pubblicata a Roma dalla Libreria del Littorio. La breve introduzione a L’India dove va?, non di mano dell’autore, ma di qualcuno delle alte sfere del Ministero degli Esteri, recitava testualmente: “Che cosa accade in India? Le notizie pubblicate recentemente sui giornali europei, erano molto interessanti, ma altrettanto confuse. C’è stato un Congresso di Indiani, nel quale è stata innalzata la bandiera della assoluta indipendenza dell’India dall’Impero britannico e contemporaneamente un altro congresso nel quale è stata patrocinata la possibilità e l’utilità di un compromesso fra dominatori e dominati. Del primo Congresso l’animatore è stato Gandhi, una delle figure mondiali dell’epoca in cui viviamo. Il pubblico europeo torna a chiedersi: che cosa succede in India? Qual è la situazione reale? Quali sono i probabili sviluppi della situazione nell’avvenire? Che il mondo indiano sia in una fase di movimento: che dalla immobilità castale sia passato al dinamismo occidentale, nessun dubbio: ma quale sarà lo sbocco di questo movimento? A tutti questi interrogativi dà una chiara risposta l’autore delle pagine che seguono. Si tratta di persona che conosce perfettamente uomini e cose. La sua parola nasce da una testimonianza diretta e gioverà ad illuminare i fascisti sul problema indiano, cioè su un problema che concerne trecentoventi milioni di uomini e dalla cui soluzione dipende l’avvenire dell’Impero inglese e gran parte della storia futura del mondo”. Anche la chiusa della monografia rifletteva il pensiero governativo nei confronti dell’Inghilterra: “Alcuni dicono: anche se la Gran Bretagna fa degli errori, noi dobbiamo essere solidali con essa perché se la Gran Bretagna cade, cade insieme il prestigio dell’Europa. È esatto dire che la Gran Bretagna è responsabile dell’indirizzo che saranno per prendere i popoli di Asia nei riguardi dell’Europa. Ma ciò non vuol dire che questa la debba seguire anche se la politica adottata sia errata e se la Gran Bretagna, invece di trovare un compromesso e stabilire una collaborazione, crea la separazione e il conflitto. Al contrario, l’Europa deve far sentire all’Inghilterra la responsabilità della sua posizione, una responsabilità che va oltre i suoi particolari interessi materiali. La stessa concezione dell’Impero non è una manifestazione europea né una difesa dell’Europa; ha fulcro solo sull’Inghilterra indipendentemente ed eventualmente contro l’Europa. L’Inghilterra, presa fra lo sviluppo mondiale degli Stati Uniti e la tendenza verso grandi unità economiche del continente europeo, si stringe all’organizzazione dell’Impero per continuare il suo isolamento e non essere costretta ad aderire ad una combinazione con l’Europa continentale. L’India è un elemento indispensabile in questo disegno. Ciò rende più difficile la concessione di un’autonomia, perché l’Impero non è un sistema in cui l’India possa mai trovarsi interessata allo stesso modo degli altri componenti. È un organismo destinato a servire, anzitutto, gli interessi della metropoli, poi, quelli degli altri dominî bianchi, in quanto sono legati alla metropoli da interessi di razza o di difesa rispetto ad altri stati. E L’India, nel momento in cui avesse la possibilità di sviluppare in maniera autonoma la sua economia, avrebbe degli interessi che coinciderebbero solo occasionalmente con questo sistema il quale diventerebbe perciò un peso ed una restrizione”. Da notare che queste affermazioni erano fatte in un periodo in cui l’Italia fascista pensava ancora alla possibilità di un’intesa con l’Inghilterra. La conclusione era comunque la posizione mediatrice di Roma, che avrebbe certamente ottenuto dei vantaggi e si sarebbe eretta ad ago della bilancia internazionale: “Se l’India diventerà padrona del suo governo la prima ripercussione si avrà sulla posizione politica di questi Stati [Egitto, Palestina, Iraq]. Il mediterraneo orientale tornerà alla funzione storica che ebbe nel passato. E Roma è il luogo in cui Oriente ed Occidente di nuovo s’incontreranno”. In quest’ottica erano visti tutti i contatti più o meno ufficiali con esponenti dell’intellighenzia indiana che contavano a livello internazionale, tra i quali Iqbal, Tagore e Gandhi in primis. Vito Salierno BANG-I DARA IL RICHIAMO DELLA CAROVANA Introduzione a cura di Shaikh ‘Abd al-Qadir, Barrister at Law, direttore di “Makhzan”. N essuno poteva immaginare che dopo Ghalib sarebbe venuto in India qualcuno che avrebbe infuso nella poesia in urdu un nuovo spirito e che avrebbe ricreato nuovamente l’incomparabile immaginazione e il raro linguaggio di Ghalib, contribuendo alla gloria della letteratura in urdu. Ad ogni modo l’urdu ebbe la fortuna di avere un poeta del calibro di Iqbal, la cui superiorità nell’eleganza letteraria ha influenzato l’uditorio di lingua urdu in tutta l’India e la cui fama si è estesa all’Iran, all’Asia Minore e persino all’Europa. Ghalib e Iqbal hanno in comune molte caratteristiche. Se credessi alla trasmigrazione dell’anima, avrei certamente detto che l’amore di Mirza Asadullah Khan Ghalib per la poesia in urdu e in persiano non ha concesso alla sua anima di riposare in pace neppure nei Campi Elisi e l’ha costretto a riapparire sotto un’altra forma materiale per rendere un servigio alla poesia, facendolo nascere in un angolo del Panjab, chiamato Sialkot, e prendere il nome di Muhammad Iqbal. Il rispettato padre e l’affezionata madre di Shaikh Muhammad Iqbal devono avergli dato quel nome in un periodo di grande auspicio poiché il nome da loro scelto [Iqbal significa “fortunato”] si dimostrò appropriato alle sue connotazioni, ed il loro figlio di talento partì per l’Inghilterra dopo aver completato la sua istruzione in India. Conseguite le sue mete a Cambridge, si spostò in Germania e fece ritorno in patria fornito dei più alti titoli intellettuali. Durante il suo soggiorno in Europa, Muhammad Iqbal studiò molti testi in persiano e pubblicò i risultati sotto forma di un lavoro di ricerca che dovrebbe essere considerato una breve storia della filosofia persiana. Sulla base di questo testo l’Università di Monaco gli conferì il Ph. D. Il Governo britannico che non ha un accesso diretto alle lingue e culture orientali impiegò molto tempo a rendersi conto dell’apprezzamento universale della poesia di Iqbal, ma infine lo capì e gli conferì il Cavalierato. Sebbene sia conosciuto come Sir Dr. Muhammad Iqbal che è al tempo stesso il nome datogli da Dio ed il nome letterario, è in realtà noto anche senza i titoli di dottore e di Sir. Esiste a Sialkot una scuola superiore dove un noto intellettuale, Maulvi Sayyid Mir Hasan, erede e seguace degli studiosi orientali dei tempi passati, insegna il sapere orientale: di recente gli è stato conferito dal Governo il titolo di Shams al-‘Ulama. La qualità caratteristica del suo insegnamento è stimolare negli allievi il gusto per il persiano e l’arabo. Iqbal è stato fortunato nell’aver avuto in gioventù un insegnante quale Sayyid Mir Hasan. Iqbal, che iniziò a scrivere poesie durante gli anni di scuola, aveva una naturale inclinazione per la letteratura: apprendere il persiano e l’arabo da un simile insegnante ha aggiunto molto alla sua eleganza. A quel tempo l’urdu era diventato così popolare nel Panjab che la lingua e la poesia si erano diffusi più o meno in tutte le città. Negli anni in cui era studente, si svolgevano di solito a Sialkot piccole musha‘ira in occasione delle quali Iqbal cominciò a comporre ghazal. In quel periodo Navab Mirza Khan Sahib Dagh di Delhi godeva di una grande reputazione come poeta in urdu, cosa che aumentò considerevolmente quando divenne tutore del Nizam del Deccan. Chi non poteva recarsi da lui, intratteneva relazioni tutoriali per posta: gli venivano spediti ghazal che restituiva con le dovute correzioni. Nei tempi passati quando non esisteva un tale servizio di posta, un poeta non poteva avere molti allievi. Con queste facilitazioni ora centinaia di persone avevano potuto istituire relazioni tutoriali in absentia e Dagh dovette crearsi a questo scopo un ufficio di segreteria. Anche Muhammad Iqbal iniziò una corrispondenza con Dagh inviandogli i suoi ghazal per le correzioni; in tal modo Iqbal intrattenne una relazione in urdu con un letterato considerato a quel tempo unico nell’arte linguistica nel campo del ghazal. Sebbene i ghazal di Iqbal non avessero a quel tempo i requisiti dei lavori successivi, Dagh comprese le straordinarie qualità poetiche nell’allievo di un remoto distretto del Panjab. In breve concluse che non c’era necessità alcuna di correzione e la relazione tutoriale non durò a lungo: rimase comunque un affettuoso ricordo da entrambe le parti. Il nome di Dagh è così famoso nella poesia in urdu che Iqbal ha avuto una particolare considerazione per quel periodo e per quella relazione in absentia; Iqbal ha ottenuto quest’alto apprezzamento durante la vita di Dagh, che è sempre stato orgoglioso di averlo avuto per allievo. Ho avuto la fortuna di incontrare Dagh nel Deccan e sono stato testimone delle sue parole di orgoglio. Poiché nella scuola superiore di Sialkot il massimo livello era F.A. [Fellow of Arts], Muhammad Iqbal dovette trasferirsi a Lahore per conseguire il B.A. [Bachelor of Arts]. Intendeva studiare filosofia e trovò tra gli insegnanti di Lahore chi comprese le sue inclinazioni per la filosofia e si preoccupò della sua istruzione. Il professor Arnold, ora (1924) Sir Thomas Arnold, attualmente in Inghilterra, è un uomo di capacità straordinarie, scrittore ed esperto nelle nuove metodologie di investigazione e ricerca accademica. Volle trasmettere le sue intuizioni e i suoi metodi all’allievo e ci riuscì largamente. Agli inizi era stato in grado di infondere maturità nelle percezioni intellettuali del suo amico Maulana Shibli durante il periodo in cui insegnò all’Aligarh College. Arnold scoprì un’altra gemma e si diede con tutto il cuore a farla rilucere. L’amicizia reciproca e l’affetto tra insegnante e allievo sin dagli inizi culminò con la partenza di Iqbal per l’Inghilterra sulle orme del suo insegnante. La relazione si rafforzò sul posto ed è continuata sino ai nostri giorni (1924): Arnold è felice per il risultato della sua fatica e per il fatto che il suo allievo sia diventato fonte di orgoglio e di fama nel mondo intellettuale. Iqbal riconosce che le sensazioni create in lui da Sayyid Mir Hasan, e migliorate nella conoscenza con Dagh in absentia, hanno raggiunto l’apice sotto la guida affezionata di Arnold. Durante il suo percorso intellettuale Iqbal ha avuto ottime guide ed ha incontrato parecchi studiosi di fama, tra i quali i dottori McTaggart, Brown, Nicholson e Sorley dell’Università di Cambridge. Il professor Nicholson merita in particolare la nostra speciale gratitudine per aver fatto conoscere Iqbal in Europa e in America con la traduzione inglese del famoso lavoro in persiano Asrar-i Khudi [I segreti dell’Io] corredata di prefazione e commento. Nello stesso modo Iqbal ha intrattenuto corrispondenza e contatti personali con le migliori personalità dell’orizzonte intellettuale dell’India quali Maulana Shibli, Maulana Hali e Akbar . Questi influenzarono gli scritti di Iqbal che a sua volta ne influenzò il pensiero: Shibli nelle sue molte lettere e Akbar nelle sue poesie hanno riconosciuto il merito di Iqbal, similmente Iqbal ne ha lodato la personalità nei suoi lavori. Lasciando da parte gli anni iniziali, la poesia di Iqbal in urdu risale a poco prima dell’inizio del ventesimo secolo. Io lo incontrai per la prima volta ad una musha’ira [riunione di poesia] a Lahore due o tre anni prima del 1901. Era stato spinto da alcuni suoi compagni di scuola a partecipare ad una musha’ira e a recitare un ghazal. Gli abitanti di Lahore non lo conoscevano affatto: il ghazal era breve, con parole e pensieri semplici, ma fu apprezzato per humour e spontaneità. Partecipò alle musha‘ira altre due o tre volte e la gente intuì in lui un promettente poeta. La sua fama comunque rimase ristretta nell’ambito studentesco di Lahore e degli addetti ai lavori. Nel frattempo era sorta un’associazione letteraria frequentata da nomi celebri e aumentò la richiesta di lavori in prosa e in poesia. In uno di questi incontri Muhammad Iqbal recitò la sua poesia sull’Himalaya, Homala, che univa al tempo stesso il pensiero inglese con l’eleganza dello stile persiano e con un tocco di nazionalismo: poiché rispondeva al gusto e alle richieste del tempo, la lirica fu ampiamente apprezzata e ci furono richieste di pubblicarla, ma Iqbal si schermì con la scusa che aveva bisogno di una revisione e la poesia non fu allora stampata. Poco tempo dopo decisi di pubblicare “Makhzan”, una rivista per il progresso della letteratura in urdu; nel frattempo avevo iniziato ad intrattenere relazioni amichevoli con Muhammad Iqbal, ottenendone la promessa di collaborazione per la sezione di poesia. Nel periodo preparatorio del primo numero della rivista gli chiesi una poesia; mi rispose che non ne aveva pronta alcuna. Gli chiesi allora di darmi Homala e di scriverne un’altra per il numero successivo. Si mostrò riluttante a darmela perché diceva che aveva bisogno di miglioramenti. Avendo notato la popolarità della lirica, insistetti e la pubblicai nel primo numero di “Makhzan”. Ciò segnò l’inizio dell’attività pubblica di Iqbal poeta che continuò sino alla sua partenza per l’Inghilterra nel 1905. Durante questo periodo era solito scrivere qualche poesia regolarmente per ogni numero di “Makhzan”; nel frattempo gli giungevano richieste da vari giornali e riviste, da persone che apprezzavano la sua poesia, e inviti da circoli e società letterarie, affinché recitasse le sue composizioni nelle loro sedute annuali. A quell’epoca Iqbal aveva terminato gli studi ed era stato nominato professore al Government College di Lahore: era impegnato giorno e notte nei suoi lavori scientifici. La sua ispirazione poetica, quando gli veniva, aveva un carattere vulcanico: durante una seduta era capace di improvvisare innumerevoli versi, che i suoi amici e qualche studente trascrivevano a matita, ricantandoli poi a loro modo. A quel tempo non l’ho mai visto prendere la penna in mano per scrivere versi: sembrava che dalla sua bocca scorresse un fiume di parole ritmiche e rimate o che ne traboccasse una fonte di poesia. Quando un avvenimento lo colpiva, declamava i suoi versi con voce melodiosa, mandando in estasi sé stesso e gli altri. Una singolare caratteristica della sua forte memoria era che dopo qualche giorno poteva ricantare i versi delle sue poesie- che non metteva mai per iscritto- nello stesso ordine in cui li aveva improvvisati la prima volta. Ho conosciuto molti poeti, li ho visti e uditi comporre, ma questa qualità di cui parlo non l’aveva nessuno. Un’altra qualità di Iqbal era che, malgrado la sua naturale facilità poetica, non era assolutamente in grado di produrre versi a comando, e per questo motivo dovette spesso rispondere negativamente a inviti fattigli da società e circoli letterari. Solo per la Anjuman-i Himayat-i Islam [Società per la protezione dell’Islam] di Lahore, Iqbal fece un’eccezione recitando per alcuni anni di seguito delle composizioni poetiche- che però preparava mentalmente in anticipo- in occasione delle sedute annuali. All’inizio, nelle sedute pubbliche, Iqbal usava recitare le poesie con voce normale e, anche così, l’effetto era molto bello. Ma una volta, in una seduta pubblica, alcuni amici insistettero affinché cantasse i versi melodicamente. Aveva una voce forte per natura e piacevole ed aveva una speciale abilità nella recitazione melodica. L’armonia con cui cantò fu tale che si fece un improvviso silenzio e tutti i presenti cominciarono a muovere il capo ritmicamente. Ne risultarono due effetti; il primo è che è ora diventato per lui difficile recitare versi senza cantarli, perché ogni volta che comincia a recitarli normalmente tutti insistono perché li canti, e il secondo è che mentre prima, solo una élite di persone colte apprezzava e comprendeva i suoi versi, ora egli attrae anche il volgo. A Lahore, quando Iqbal canta i suoi versi nelle sedute pubbliche della Anjuman-i Himayat-i Islam, si radunano decine e decine di migliaia di persone che durante tutta la recitazione siedono con il fiato sospeso nella più assoluta attenzione, in estasi, sia che capiscano sia che non capiscano il significato dei versi stessi. Dal 1905 al 1908 va il secondo periodo della produzione poetica di Iqbal in urdu: sono gli anni da lui trascorsi in Europa, durante i quali non ha avuto troppe occasioni di poetare. Nelle sue non numerose poesie di questo periodo si comincia a notare un nuovo stile: due grandi cambiamenti sono avvennuti nelle sue idee. Durante due di questi tre anni mi trovavo anch’io in Europa ed ho avuto spesso occasione di incontrarlo. Un giorno Iqbal mi disse che aveva deciso di rinunciare alla poesia e di voler dedicare il tempo speso nella poesia a qualche altro lavoro più utile. Gli risposi che la sua poesia non era di quel genere che è bene abbandonare, bensì che essa poteva esercitare un influsso benefico sul nostro popolo demoralizzato e sul nostro disgraziato paese. Iqbal rimase un po’ esitante e decise di affidare la decisione finale al giudizio di Sir Thomas Arnold. Questi fu d’accordo con me, per fortuna del mondo culturale, e fu il primo cambiamento in lui. Il secondo, originato da un insignificante episodio, ebbe un seguito di grandissima portata. Si tratta cioè della decisione di Iqbal di preferire il persiano all’urdu come mezzo di espressione poetica. Possono esservi state, per questo, varie ragioni. Una, credo, fu l’influenza delle vaste letture persiane che gli furono necessarie per scrivere il libro sullo sviluppo della mistica. Un’altra è che, man mano che andava approfondendo i suoi studi filosofici e sentiva il bisogno di esprimere sottili concetti ed idee profonde, notava la relativa inadeguatezza dell’urdu, a questo fine, rispetto al persiano. Ma, come ho già detto, il piccolo ed insignificante evento che segnò l’inizio del suo poetare in persiano fu il seguente: trovandosi una volta presso un amico, gli fu chiesto di recitare dei versi persiani, se mai ne avesse composti. Dovette rispondere di no, che non aveva mai provato a comporre più di mezzo verso in persiano. Ma quell’invito, cui non aveva potuto corrispondere, gli fece un tale effetto che, tornato a casa e messosi a letto, rimuginò tutta la notte versi persiani e la mattina, quando mi incontrò, aveva già pronti due ghazal che mi recitò e che dimostravano la forza e la bontà del suo poetare in persiano, cosa che non aveva mai prima sperimentato. Tornato in patria, compose di quando in quando poesie in urdu, ma la sua indole poetica s’era ormai volta al persiano. È questa la terza parte della sua produzione poetica che va dal 1908; sebbene in questo periodo abbia prodotto molte famose poesie in urdu, il lavoro più importante cui si sia dedicato è il noto masnavi in persiano Asrar-i Khudi [I segreti dell’Io] (1915). I pensieri che rimasero nella sua mente a lungo furono infine trasferiti dalla mente alla carta, in un libro che ha reso Iqbal famoso anche fuori dell’India. Sino ad oggi (1924) Iqbal ha prodotto tre libri in persiano, cioè Asrar-i Khudi (1915), Rumuz-i be-Khudi [I misteri del non-Io] (1915) e Payam-i Mashriq [Il messaggio dell’Oriente] (1923), tutti di alta qualità. Il linguaggio si snoda dal primo all’ultimo in maniera sempre più semplice e facile. Forse gli amanti della poesia di Iqbal in urdu sono rimasti disillusi da questi libri in persiano, ma va ricordato che attraverso il persiano Iqbal ha ottenuto ciò che non poteva avere con l’urdu. I suoi lavori hanno raggiunto l’intero mondo musulmano dove il persiano è lingua più o meno parlata e contengono quella profondità di pensiero necessaria ad una propagazione capillare. Hanno inoltre costituito il mezzo per far conoscere il nostro Autore agli Europei e agli Americani. Nel Payam-i Mashriq l’Autore ha dato una risposta a un famoso poeta europeo, Goethe, espressa con pensieri altamente filosofici. I suoi versi hanno risolto molti intricati enigmi mai spiegati prima con termini semplici: da tempo riviste e giornali si riferiscono a Muhammad Iqbal con il termine di Tarjuman-i Haqiqat, ossia di “Interprete della Verità”. I versi di quest’opera ne sono una testimonianza e non c’è alcuna esagerazione in tutto ciò. Uno degli effetti del poetare in persiano sulla poesia urdu è costituito dal fatto che nelle poesie in urdu di questo terzo periodo sono più abbondanti che nelle poesie precedenti i composti e le costruzioni persiane e qua e là si incontrano inserimenti di interi versi persiani. Molti hanno sperato in un ritorno di Iqbal alla poesia in urdu quale quella pubblicata in riviste e giornali sin dal 1901: i suoi amici ne hanno fatto costante richiesta, ma la pubblicazione è stata ritardata per parecchi motivi. Lode a Dio oggi per il conseguimento di questo desiderio degli amanti della poesia urdu e per la pubblicazione di questa raccolta di poesie in urdu in 336 pagine, suddivisa in tre parti: la prima comprendente poesie sino al 1905, la seconda dal 1905 al 1908, e la terza dal 1908 ad oggi. Nel complesso si può ben dire che sino ad oggi non esisteva nella letteratura urdu una raccolta di poesie simile a questa, nella quale cioè fosse concentrata una così gran quantità di idee e nella quale contenuto e forma fossero così sapientemente equilibrati. Come, del resto, poteva essere altrimenti, se queste poesie sono il succo di un quarto di secolo di letture, di esperienze, di studi e di viaggi? In alcune composizioni questo o quel verso o emistichio si presterebbe a formare l’oggetto di un intero articolo. Questa breve introduzione non ha la pretesa di una critica o di una comparazione tra le varie poesie; voglio solo congratularmi con il letterato per la disponibilità delle sue poesie in urdu in forma di libro anziché sparse in riviste e antologie. Spero solo che sia cordiale l’apprezzamento di coloro che attendevano questa raccolta. Da parte della poesia in urdu vorrei rivolgere una preghiera all’Autore, che cioè il suo genio dia anche all’urdu la parte che si merita e di cui ha bisogno. Egli stesso in una strofa di un poemetto in lode di Ghalib ha ben descritto la situazione dell’urdu: I riccioli dell’Urdu han pure necessità del pettine, Il cero è triste per il cuore bruciato della falena! Leggendo questo suo verso ci permettiamo di chiedergli che, utilizzando il sentimento che gli dettò queste parole, dedichi di nuovo un po’ del suo tempo a pettinare il ricciolo dell’urdu, dandoci l’occasione di considerare questo libro, pubblicato così in ritardo, come l’annunciazione di una nuova raccolta di versi in questa lingua. PRIMA PARTE (... fino al 1905) 1. HIMALAYA O Himalaya! il baluardo della tua India! Inchinandosi, il cielo bacia la tua fronte. In te non si nota segno alcuno di vecchiaia, Sei giovane nel corso del giorno e notte. Per il Kalim del Sinai tu eri un bagliore, Per l’occhio vigile eri un grande splendore. All’aspetto all’occhio esperto sei un monte, In realtà sei la sentinella e finestra dell’India. Sei il divan e il cielo ne è il primo verso, Sei la guida dell’uomo nei recessi del cuore. La neve ha creato per te un turbante d’onore Che deride la corona del sole, luce del mondo. Il vecchio è solo un istante nella tua età passata, Nelle valli si addensano le tue nuvole oscure. I tuoi picchi gareggiano in eleganza con le Pleiadi, Sei sulla terra, ma il cielo è la tua vera patria. Ai tuoi piedi la corrente è uno specchio che scorre, Ai piedi dell’onda la brezza è un vero fazzoletto. Nelle mani di una nuvola al cavallo a passo lento Il lampo della vetta del monte ha dato una frustata. Oh Himalaya, tu sei simile ad un palcoscenico Creato dalla mano della natura con i suoi elementi. Ah, come si libra la nuvola all’apice della gioia, La nuvola che s’affretta come un elefante libero. L’onda della brezza mattutina somiglia a una culla, Nel tossico della vita ogni bocciuolo di fiore ondeggia. Il silenzio del bocciuolo con la lingua del petalo dice: “Non ho mai sentito il moto della mano del giardiniere. Lo stesso mio silenzio narra tutto il mio racconto, La mia dimora è l’angolo del romitaggio della natura”. Dall’alta vetta discende la corrente piena di melodia, Scontrandosi con le onde del Kauthar e del Tasnim. Per mostrare lo specchio della bellezza della natura, Sfuggendo o cozzando contro la roccia nel suo corso. Suona per via la melodia di questa musica celestiale, O passeggero, il cuore comprende la tua musica. Quando Laila fa sciogliere di notte le lunghe trecce, Il suono delle cascate si conquista l’orlo del cuore. Il silenzio della notte la cui bellezza supera la parola, Quel silenzio di meditazione che avvolge gli alberi, Quella bellezza del crepuscolo tremante lungo il monte, Questo rossetto sulle tue guance appare davvero bello. O Himalaya! Raccontaci le storie del tempo in cui Le tue valli divennero la dimora dei primi uomini. Raccontaci qualcosa della vita in maniera schietta, Che non sia macchiata di una qualche sofisticazione. O immaginazione, riportaci indietro a quel tempo, O vicende del tempo, riportaci indietro al passato. 2. LA ROSA DAI COLORI VIVACI Tu non conosci le difficoltà per risolvere i problemi, O rosa colorata, nel tuo cuore non ci sono sensazioni. Infondi bellezza negli astanti, ma non ne dividi le pene, Nella riunione della vita a me non dai conforto alcuno. In questo giardino io sono uno strumento del desiderio, La tua vita è priva del calore di quell’ardente desiderio. Strapparti dal ramo della pianta non è una mia abitudine, Questa vista non differisce dall’occhio che vede la forma. Ah, o rosa colorata, questa non è la mano di chi violenta, Come farti capire che io non sono un coglitore di fiori! Non ho interesse alle sottigliezze dell’occhio del sapere, Io ti guardo con l’occhio dell’usignuolo come un amante. Innumerevoli sono i linguaggi, ma hai scelto il silenzio, Quale è il segreto che si cela stretto stretto nel tuo petto? Al pari di me tu sei una foglia del giardino del Sinai, Io sono lontano dal giardino, tu sei lontana dal giardino. Tu sei soddisfatta, io sono confuso simile al profumo, Ferito dalla spada dell’amore, io ricerco e investigo. Che non sia questa mia confusione un mezzo per la pace? Che non sia questo tormento una fonte di luce mentale? Che non sia questa debolezza un mezzo per avere la forza? Che non sia questo specchio l’invidia della coppa di Jam? Questa costante ricerca è una candela che dà luce al mondo E insegna l’andatura al destriero dell’intelletto umano. 3. IL TEMPO DELL’INFANZIA La terra e il cielo erano per me regioni sconosciute, Il mondo era per me lo spazio del grembo materno. Ogni movimento era per me un segno di gioia di vita, Lo stesso linguaggio non aveva alcun senso per me. Se nelle pene dell’infanzia mi facevano piangere, Il rumore della catena della porta mi rasserenava. Oh! come guardavo fisso la luna per lunghe ore, Seguendone il viaggio silente tra le nuvole sparse. Chiedevo di continuo di quelle montagne e pianure E rimanevo sorpreso di quella conveniente bugia. Il mio occhio osservava, le labbra volevano parlare, Nel mio cuore non c’era che il gusto della ricerca. 4. MIRZA GHALIB Per opera tua fu fatta luce all’intelletto umano, E risolti abilmente molti problemi con il pensiero. Tu eri tutt’anima, riunione letteraria il tuo volto, Ti palesavi e ti nascondevi agli uomini riuniti. Il tuo occhio voleva mostrare quella Bellezza velata, Rimasta celata in ogni cosa come il pathos della vita. La riunione dell’esistenza trabocca dalla tua arpa Come il silenzio del monte alla melodia del ruscello. Il giardino della tua mente dà gloria all’universo, Il tuo pensiero genera i mondi come verdi prati. La vita si nasconde nell’umorismo dei tuoi versi, Il potere del linguaggio muove le labbra del quadro. La bellezza delle tue labbra è l’orgoglio della parola, Le Pleiadi sono attonite per l’eleganza del tuo stile. Amanti delle Arti prediligono il tuo modo di vita, Il bocciuolo di Delhi deride la rosa di Shiraz, Ah! tu riposi nel bel mezzo delle rovine di Delhi, La tua controparte riposa nel giardino di Weimar. Gareggiare con te in parole eleganti non è possibile Finché si uniscano maturità di pensiero e immagine. Ah! che cosa è accaduto alla terra dell’Hindustan? Ah! l’insegnante dalla vista acuta e ipercritica. “I riccioli dell’Urdu han pur bisogno del pettine, Il cero è nero di tristezza pel cuore della falena”. Oh, Jahanabad! o tu culla del sapere e dell’arte, Tutta la tua costruzione è un lamento silente. Sole e luna dormono negli atomi della tua polvere, Tante altre gemme sono nascoste nella tua polvere. È forse sepolto in te un altro uomo famoso come lui? È forse nascosta in te un’altra gemma al pari di lui? 5. LA NUVOLA DEI MONTI La carezza del cielo è con l’altezza della mia dimora, Io sono la nuvola dei monti, la mia veste sparge rose. Ora il deserto ora il giardino sono la mia abitazione, Città e campagne sono miei, mare e foresta sono miei. Se mi fa piacere tornare ad una valle per la notte, La vegetazione del monte è il mio tappeto di velluto. La natura m’ha insegnato ad essere spargitrice di perle E a cantare per il cammello dell’Amante di Misericordia. Essere un conforto per il cuore del contadino depresso, Essere bellezza per il convito degli alberi del giardino. Sulla superficie della terra mi distendo come i riccioli, Mi preparo e mi faccio bella con il pettine della brezza. Faccio tante promesse di lontano all’occhio speranzoso, Mentre vado con passo silente verso qualche abitazione, Mi avvicino gironzolando presso la riva di un ruscello, Regalo alla corrente orecchini di vorticosi mulinelli. Sono la speranza per gli ortaggi dei campi coltivati, Sono la figlia dell’oceano, sono alimentata dal sole. Sono il tumulto dell’oceano per la sorgente dei monti, Sono un’incantatrice per gli uccelli per i loro cinguettii. Pronuncio: ‘Sorgi!’ stando a capo dei campi coltivati, Al bocciuolo della rosa attribuisco il gusto del sorriso. Per la mia benevolenza in aiuole opulenti si convertono Le casupole dei contadini lungo il declivio dei monti. 6. UN RAGNO ED UN INSETTO (adattamento per i bambini) Un giorno un ragno disse ad un insetto: “Tu trascorri la vita così ogni giorno, Non hai mai fatto visita alla mia capanna, Non vi hai messo piede neppure per caso. Non importa non far visita ad un estraneo, Ma non è bello trascurare i propri simili. Una tua visita a casa mia sarebbe un onore, Di fronte a te c’è una scala se tu accetti”. Udendo queste parole l’insetto rispose: “Signore, cerchi di ingannare uno sciocco! Quest’insetto non verrà mai nella tua rete, Chiunque vi entri, non ne uscirà mai”. Il ragno disse: “Mi consideri un bugiardo? Non c’è nel mondo uno stupido simile a te. Io desideravo solo accoglierti con calore, Non ho in ciò alcun interesse personale. Volando di lontano sei giunto qui, o Dio, Che male c’è riposarti un po’ a casa mia? Qui ci sono innumerevoli cose da vedere, Anche se da fuori sembra un’umile dimora. Alle porte sono appese tende delicate, Le pareti sono tutte decorate di specchi, Per il riposo degli ospiti ci sono letti, Non a tutti son date queste comodità”. L’insetto rispose: “Ciò può andar bene, Ma non aspettarti ch’io venga a casa tua. Mi protegga Iddio da queste comodità, Una volta addormentati, non ci si alza più”. Udendo queste parole il ragno disse fra sé: “Come intrappolarlo! Questo tizio è astuto. Nel mondo l’adulazione esaudisce i desideri, Nel mondo l’adulazione ci rende schiavi”. Pensando ciò, il ragno disse all’insetto: “Iddio ha profuso su di te grandi onori. Tutti ammirano la tua bella immagine, Anche se ti si incontra per la prima volta. I tuoi occhi sono pezzi di lucenti diamanti, Iddio ha ornato il tuo capo di una piuma. Questa bellezza, abito, eleganza, nitore! Tutto è impreziosito dal canto nel volo”. Al che l’insetto fu preso dall’adulazione e rispose: “Non ho più alcun timore di te. Non ho la cattiva abitudine di rifiutare, Non è bello ferire il cuore di qualcuno”. Dicendo ciò, spiccò il volo dal suo luogo, Una volta entrato, il ragno l’intrappolò. Il ragno aveva fame da svariati giorni, E l’insetto gli fornì un pasto luculliano. 7. UNA MONTAGNA ED UNO SCOIATTOLO (adattamento da Emerson) Ad uno scoiattolo diceva una montagna: “Vergognati, gettati in acqua e affoga. Sei una piccolezza, orgogliosa, che strano! Né saggia, né intelligente, e neppure astuta! Strano che una piccolezza si creda importante, Che uno stupido come te si mostri intelligente! Che cosa sei tu rispetto alla mia grandezza? Persino la terra non può paragonarsi a me. La mia grandezza non può paragonarsi a te. Una piccolezza non può eguagliare il monte!” Al che lo scoiattolo disse: “Frena la tua lingua, Sono parole immature, scacciale dal tuo cuore! Non mi importa se io non sono grande come te! Tu non sei una piccola cosa carina come me. Tutte le cose mostrano l’onnipotenza di Dio, Grandi, piccole, tutte sono parte del Suo potere. Egli ha voluto crearti grande e grossa nel mondo, A me ha insegnato ad arrampicarsi sugli alberi. Tu non sei capace di muovere neppure un passo, Sei solo grande, dove sta la tua grandezza? Se sei grande, fammi vedere qualche tua abilità, Mostrami se sai rompere questa noce come me. Nulla è da considerarsi inutile a questo mondo, Nulla è da considerarsi brutto nel creato di Dio. 8. UNA MUCCA ED UNA CAPRA (adattamento per i bambini) C’era in qualche dove un prato verde, Un vero panorama in tutta la terra. Come descriverne tutta la bellezza, Per ogni dove scorrevano rivoli d’acqua. C’erano innumerevoli alberi di melograni E c’erano tanti alberi ombrosi di pipal. Vi soffiava ovunque una fresca brezza E gli uccelli cantavano per ogni dove. Una capra arrivò nei pressi d’un ruscello, Vi giunse da un qualche luogo brucando. Quando si fermò, si guardò attorno E vide che una mucca era lì vicino. Per prima cosa la capra la salutò, Poi parlò alla mucca con deferenza. “Signora mucca, come va la salute?” La mucca le rispose: “Non va bene, La mia vita è proprio un vero vegetare, La mia vita è un completo calvario. La mia vita è in pericolo, che dire? Sono davvero sfortunata, che dire! Mi sorprendo di quanto avviene qui, E lancio maledizioni agli uomini malvagi. I poveri come noi non hanno potere, La sfortuna cade su gente come noi. Non si dovrebbe aver a che fare con l’uomo, Possa Iddio proteggerci sempre dall’uomo! Borbotta se il mio latte diminuisce, Mi vende se vede il mio peso scemare. Ci rende schiavi con grande astuzia! Ci soggioga sempre con l’inganno. Nutro i suoi figli con il mio latte, Do loro nuova vita con il mio latte. Malvagità in cambio di questa bontà, Mio Dio, invoco la tua misericordia!” Udita questa storia la capra rispose: “È ingiusta questa tua lamentazione. Anche se la verità è sempre amara, Dirò ciò che penso sia soddisfacente. Questo pascolo, questa brezza fresca, Quest’erba verde e quest’ombra. Dove trovare tutte queste comodità, Dove, per noi poveri senza parola! All’uomo dobbiamo questi piaceri, All’uomo dobbiamo la nostra felicità. Da lui ci viene la nostra prosperità, È meglio per noi la schiavitù o la libertà? Nella foresta ci sono tanti pericoli, Possa Iddio proteggerci dalla foresta. Dobbiamo essergli veramente grati, Non è corretto lamentarsi di lui. Se apprezzassi le comodità della vita, Non ti lamenteresti mai dell’uomo”. Udendo tutto ciò, la mucca arrossì, Scusandosi per essersi lamentata. Meditò a lungo sul bene e sul male E pensando e pensando disse fra sé: “Sebbene il suo corpo sia piccolo, convincente è la parola della capra.” 9. LA PREGHIERA DEL BIMBO (adattamento per i bambini) Le mie labbra hanno desiderio di preghiera, Che la mia vita sia come la candela, oh Dio! L’oscurità del mondo sparisca dalla mia vita, Possa ogni luogo risplendere della mia luce! Che la mia patria sia bella come la mia vita, Come la bellezza del giardino con i fiori. La mia vita sia bella come la falena, oh Dio! Che io abbia amore per la conoscenza, oh Dio! Possa la mia vita essere di sostegno ai poveri, Possa io amare vecchi, derelitti e sofferenti. Proteggimi dalle vie del male, o mio Dio! Mostrami il sentiero della retta via, o mio Dio! 10. SIMPATIA (adattamento per i bambini da William Cowper) Sul ramo di un albero, solingo, Appollaiato, un usignuolo triste, Pensava fra sé : “La notte è giunta. Il giorno se n’è andato volando, Come posso giungere al nido? L’oscurità ha avvolto ogni cosa”. Udendo il lamento dell’usignuolo, Una lucciola lì vicino così parlò: “Con tutto il cuore sono pronta, Anche se sono un piccolo insetto. Che t’importa se la notte è scura, Ti farò luce lungo il cammino, Iddio mi ha dotata di una torcia, Mi ha donato un raggio di luce. Nel mondo i buoni sono coloro Che sono utili e pronti per gli altri”. 11. IL SOGNO DI UNA MAMMA (adattamento per i bambini) Mentre dormivo, ho avuto questo sogno, Che ha accresciuto la mia agitazione. Sognavo di andare in un qualche luogo, Era buio e non riuscivo a trovare la strada. Tremavo di paura in ogni mio capello, Non potevo fare un passo per il terrore. Con un qualche coraggio andai avanti E vidi dei bambini sistemati in una fila. Di color smeraldo erano i loro vestiti, Portavano in mano lampade accese. Camminavano in lunga fila in silenzio, Dove stessero andando Dio solo lo sa! Ero tutta assorta in questi pensieri Quando vidi in quella folla mio figlio. Era in fondo alla fila e non aveva fretta, La lampada nella sua mano era spenta. Mi avvicinai e gli dissi: “Figlio mio! Dove te ne sei andato lasciandomi qui? Piena di ansia sono per la separazione, Verso lacrime senza fine ogni giorno. Non hai avuto nessuna cura di me. M’hai lasciata! È questo il tuo affetto?” Vedendo la mia afflizione, il bimbo Volgendosi verso di me questo rispose: “La separazione da me ti fa soffrire, A me tutto questo non fa molto bene”. Dopo aver parlato, tacque per un po’, Poi mostrandomi la lampada, disse: “Comprendi che cosa le è accaduto? Le tue lacrime l’hanno spenta tutta”. 12. IL LAMENTO DI UN UCCELLO (per i bambini) Costante è in me il ricordo dei tempi passati, Le primavere dei giardini, tutti quei cinguettii. Se ne sono andate le libertà dei nostri nidi, Dove volare su e giù a nostro piacimento. Nel mio cuore c’è tanto dolore al ricordo Del sorriso dei bocciuoli roridi di rugiada. La bella forma, il bell’aspetto dei kamini Che erano fonte di gioia per il mio nido. Nella mia gabbia non giungono quei suoni, Dio voglia che la libertà sia nel mio potere. Come sono sfortunato, desioso del mio nido, I miei amici sono a casa, io sono in prigione. La primavera è giunta, ridono i bocciuoli in fiore, Io piango il mio destino in questa casa oscura. A chi dire, o mio Dio, la mia storia di dolore? Morirò con i miei lamenti in questa prigione. Da quando lasciai il giardino, tale è il mio stato, Il cuore accresce il dolore, il dolore il cuore. O ascoltatori, udendo questa musica siate tristi, Questa voce è il lamento del mio cuore ferito. Custode della prigione, rendimi la mia libertà, Un prigioniero silente sono, rendimi la libertà. 13. L’INTERROGAZIONE DEI MORTI Celata è la luce del sole, la notte mostra il suo volto, Il ricciolo della notte si stende sul pettine del mondo. Questo vestito nero è pronto per un qualche funerale, L’assemblea della natura è forse nel funerale del sole. Il cielo getta un incanto sul labbro che parla parole, Il mago della notte osserva l’occhio vigile e sveglio. Nel fiume del silenzio affonda la corrente del vento, Ma di lontano giunge il richiamo di una campana. Il cuore, che nel tumulto dell’amore fugge dal mondo, M’ha portato qui lontano dalla pazzia del mondo. Sono spettatore dello spettacolo della disillusione, Sono con quelli che dormono in un angolo solitario. Riposati, o cuore afflitto! aspetta e fermati un po’. E fammi versare qualche lacrima in questo luogo. O voi, sprofondati intossicati nel torpore! dove siete? Ditemi qualcosa di quella terra in cui voi vivete. È quel mondo oggi anch’esso di prevaricazione? È quel mondo anch’esso di lotta di elementi? È l’uomo anche avvolto nel dolore della terra? È il cuore dell’uomo senza aiuto in quella terra? Brucia la falena nell’amore della candela laggiù? C’è in quel giardino la storia del fiore e dell’usignuolo? In questo mondo un solo emistichio conturba il cuore, Lenisce il cuore anche il calore della poesia laggiù? Le relazioni e connessioni del mondo sono i mali, Simili alle spine aguzze presenti anche in quel giardino? In questo mondo cibo quotidiano e milioni di calamità, In quel mondo si libera lo spirito dalle ansie calamitose? Esistono anche lì il tuono, il contadino, il raccolto? Esistono anche lì le carovane? E il timore dei ladroni? Mettono assieme gli uccelli le pagliuzze per i nidi? Si va in cerca di mattoni e fango per costruire case? Sono gli uomini inconsapevoli della propria realtà? Sono pazzi per le discriminazioni di nazioni e costumi? Non piange anche il giardino al lamento dell’usignuolo? Come in questo mondo non c’è anche in quello dolore? Il Paradiso è un giardino ed anche un luogo di riposo? Il nome dell’eterna bellezza è un volto non velato? È l’inferno un mezzo per bruciare tutti i peccati? O le fiamme del fuoco sono un mezzo di disciplina? Ha il volo preso in quel mondo il posto del camminare? Qual è il segreto di ciò che i terrestri chiamano morte? La vita in questo mondo è il bagaglio del dolore del cuore, È la conoscenza umana limitata anche in quel mondo? Trova lì consolazione con l’occhio il cuore separato? Dicono anche lan tarani i Turani di quella terra? Trova anche lì l’anima consolazione nel desiderio? È anche lì l’uomo preso dal desiderio del sapere? Ah! è anche quella terra avvolta dalle buie tenebre? O è completamente illuminata dalla luce dell’amore? Dicci quale sia il segreto in questa cupola rotante, La morte è nel cuore dell’uomo una spina che punge. 14. LA CANDELA E LA FALENA Perché t’ama, o candela, la debole falena? Perché ti sacrifica la sua vita irrequieta? La tua grazia la rende simile al mercurio: Le hai insegnato forse i modi dell’amore? Un trono nuziale essa crea attorno a te, L’incendia forse il lampo del tuo sguardo? Perché trova riposo in un’agonia di morte? Nella tua fiamma c’è forse la vita eterna? Se non illuminassi questo mondo di dolore, La palma del cuore ardente non sarebbe verde. Cadere davanti a te è la preghiera del cuore, Nel suo piccolo cuore c’è il piacere di bruciare. C’è in lei un antico ardore per la bellezza: Tu, piccolo profeta sul tuo piccolo Sinai. Falena, tu hai un grande desiderio di luce! Insetto, tu hai un grande desiderio di luce! 15. LA RAGIONE E IL CUORE Un giorno la ragione disse al cuore: “Sono guida per i semplici e i fuorviati. Pur stando sulla terra raggiungo il cielo, Guarda come sono in profondo pensiero. Il mio lavoro è essere di guida sulla terra, Sono per natura proprio simile a Khizr. Interprete io sono del libro della vita. Sono la gloria della manifestazione di Dio. Tu sei solo una goccia di sangue, tu sei, Io sono l’invidia del prezioso rubino”. Udendo ciò, il cuore disse:”È vero ciò, Ma guarda anche me, che cosa sono! Tu comprendi tutti i segreti della vita, Io li vedo però con i miei propri occhi. Tu li osservi solo con l’intelletto, Io li vedo anche con il mio intimo. A te la conoscenza, a me la rivelazione, Tu cerchi solo Dio, io mostro la divinità. Il limite della conoscenza è l’impazienza, Io sono la medicina per quella malattia. Tu sei la candela dell’assemblea del Vero, Io sono la lampada della Divina Bellezza. Tu ti preoccupi del tempo e dello spazio, Io mi interesso dell’uccello di Sidrah. Guarda la grandezza della mia posizione, Io sono il trono della Maestà di Dio”. 16. LAMENTO DI DOLORE Arso dal dolore non trovo pace in alcun modo, O vicine acque del Gange, annegatemi in voi. La nostra terra fomenta reciproche inimicizie. Quale unità! la vicinanza è causa di separazione. Inimicizia e violenza al posto della sincerità, Separazione e violenza nel raccolto di un granaio. Se la brezza della fratellanza non è entrata tra i fiori, Nessun piacere può venire dai canti nel giardino. Sebbene io ami eccessivamente la vera vicinanza, Sono perplesso dalla mescolanza tra onde e riva. Il poeta miracoloso è come il grano per il granaio, Il grano non può esistere se non esiste il granaio. A che serve la bellezza quando nessuno la desidera? A che serve accendere la candela se non c’è riunione? Perché il desiderio di parlare non diventa silenzio? Perché sul mio specchio non si vede questo splendore? Ahimè! La lingua svela la nostra gioia di parlare Quando il fuoco della guerra ha bruciato il giardino. 17. IL SOLE (adattamento da Gautier) O sole! spirito e motore del mondo tu sei, Organizzatore del libro dell’universo tu sei. Tu hai creato lo splendore dell’esistenza, Il tuo alito è il rigoglio del giardino della vita. Da te viene lo spettacolo degli elementi, Da te provengono le necessità della vita. Ogni cosa esiste per il tuo splendore, Il tuo calore bruciante costituisce la vita. Tu sei il solo che oggi è luce nel mondo, Tu sei cuore, ragione, spirito, saggezza. O sole, concedi a noi la luce della saggezza, Concedi a noi la luce per l’occhio dell’intelletto. Tu sei l’ornamento delle necessità dell’esistenza. Tu sei il Yazdan degli alti e bassi della vita, In ogni essere vivente è il tuo miracolo di vita, Nella catena dei monti c’è il tuo splendore. Tu sei il nutrimento della vita d’ogni cosa, Tu sei il sovrano degli eccessi della luce. Non ci sono né un inizio né una fine in te, La tua luce è libera dai limiti del tempo. 18. LA CANDELA O candela! nella riunione del mondo io pure sono triste, Il lamento costante è mia scelta come quella della ruta. L’amore ti ha dato il calore della passione interiore, E ha reso me il fiorista delle lacrime miste a sangue. Candela nella riunione del piacere e candela nella tomba, Tu sei legata in ogni condizione alle lacrime di dolore. Simile agli amanti del segreto il tuo occhio osserva, Il mio occhio è la causa del tumulto della discriminazione. Il tuo splendore è uguale sia nella Ka’ba che nel tempio, Io preso dalla discriminazione del tempio e della moschea . Nel tuo nero fumo è racchiusa tutta l’eleganza del sospiro, C’è un qualche cuore nascosto nella tua manifestazione? Tu bruci con pathos lontano dalla luce del potere di Dio, Gli insensibili considerano il tuo pathos come la tua luce. Anche se tu bruci tu non sei consapevole di tutto questo, Tu puoi vedere ma non riesci a cogliere il dolore interiore. Io nell’eccitazione dell’ansia fremo tutto come mercurio, E consapevole sono anche dell’ansia del cuore in tumulto. Questa è stata anche l’adulazione di uno spirito libero Che mi ha dato la percezione della mia propria passione. Questa mia autoconsapevolezza mi tiene tutto in tumulto, Innumerevoli templi del fuoco dormono in queste scintille. Solo da ciò deriva la discriminazione tra l’alto e il basso! Solo da ciò deriva la fragranza del fiore, l’estasi del vino! Giardino e fiore, rosa e profumo sono questa consapevolezza, La radice della lotta di “io” e “tu” è questa consapevolezza. All’alba dell’origine, come la bellezza fu il cuore dell’amore, Il suono del Kun insegnò il calore allo spirito dell’amore. Il comando fu:”Osserva la bellezza del giardino del Kun, Osserva con un occhio gli innumerevoli sogni di ansia”. Non chiedermi della natura del velo dell’esistenza, La sera della separazione fu l’alba della mia esistenza. Passati quei giorni quando non ero conscio della prigione, Quando la mia residenza era l’ornamento dell’albero di Tur. Sono prigioniero ma considero un giardino la mia gabbia, Considero la mia patria questa povera casa di dolore. I ricordi della patria sono ora malinconie irragionevoli, A volte ho desiderio di vedere, a volte ho un’ansia di ricerca. O candela! guarda l’illusione illimitata del mio pensiero, Guarda la fine di colui che gli abitanti del cielo adorano! Io sono oggetto di separazione, sono le Pleiadi del segno, Io sono il disegno della volontà del Signore dell’universo. Decidendo in mio favore, gli è piaciuta la mia mostra, Quando mi ha iscritto all’inizio del Libro dell’esistenza. Per la perla è piacevole vivere in una manciata di polvere, Povero è forse lo stile, anche se l’argomento è grande. Guardare con l’occhio sbagliato è il difetto della vista corta, L’universo è la mostra dello splendore del gusto del sapere. Questa rete di tempo e spazio è una scala dell’universo, E le piace mostrare al collo la collana dell’eterna bellezza. Smarrita ho la strada, desidero con tutto il cuore la mèta, O candela! sono prigioniero dell’illusione della percezione, Sono cacciatore ma anche il cerchio della rete della tirannia! Sono il tetto dell’haram e anche uccello sul tetto dell’haram! Sono la bellezza ma anche la completa fusione dell’amore! Non è chiaro se io sia al tempo stesso l’amato o l’amante! Può darsi che il vecchio segreto venga di nuovo alle labbra, Può darsi che la storia della sofferenza della croce riappaia. 19. UN DESIDERIO O Signore, io sono stanco delle assemblee del mondo, Quando il cuore è triste, che piacere c’è nella riunione? Dal tumulto vado cercando scampo, il mio cuore cerca Il silenzio al quale il discorso possa essere sacrificato. Anelo con forza al silenzio, il mio desiderio è quello di Avere una piccolissima casa sul fianco di una montagna. Libero dalle ansie, trascorrere i giorni nella solitudine, La spina dei dolori del mondo mi sia levata dal cuore. Nel cinguettio degli uccelli sia il piacere della musica, Nei suoni della primavera sia la melodia dell’orchestra. Il bocciuolo del fiore che sboccia sia un messaggio di Dio, Questa coppa sia per me una mostra del mondo intero. Le mie braccia siano un guanciale, il prato il mio letto, La mia solitudine faccia vergognare tutta l’assemblea. L’usignuolo possa essere così abituato al mio volto Da non aver timore alcuno di me nel suo piccolo cuore. File di verdi cespugli possano allinearsi sui due lati, L’acqua limpida della sorgente sia bella a vedersi. La vista della catena dei monti sia così accattivante Da far sollevare le onde per poterla vedere di continuo. Nel grembo della terra si addormenti la vegetazione, Risplenda l’acqua che scorre senza fine tra i boschi, I rami in fiore si incurvino sino a toccare l’acqua. Come se una qualche bella si guardasse allo specchio. Quando il sole colora di rosso la sposa della sera, La tunica di ogni fiore possa diventare di un rosso oro. Quando i viandanti della notte si fermano affannati, La loro unica speranza sia la mia lampada di creta. La luce del lampo possa mostrare loro la mia casa, Quando le nuvole si addensano dappertutto nel cielo. Il primo richiamo del cuculo, del muezzin al mattino, Possa io essere il suo cantore, lui essere il mio cantore. Non sia io costretto ad andare al tempio o alla moschea, Il buco della mia casa sia per me l’annuncio del mattino. Quando la rugiada sta per compiere l’abluzione dei fiori, La mia abluzione sia il pianto, la mia supplica preghiera. In questo silenzio si alzino alti i lamenti del mio cuore, Per la carovana delle stelle il mio lamento sia il richiamo. Che pianga assieme a me ogni cuore compassionevole, Risveglierà forse quelli che vivono nella sconoscenza. 20. IL SOLE DEL MATTINO Sei al di sopra del tumulto della taverna dell’uomo, Sei la coppa di vino che adorna l’assemblea del cielo. Sei il gioiello, perla all’orecchio della sposa al mattino, Sei il gioiello, orgoglio della fronte dell’orizzonte. Dalle pagine del tempo fu tolta la macchia della notte! Dal cielo è stata rimossa la stella come un quadro falso! Quando la tua bellezza si mostra dal balcone del cielo, Dall’occhio subito scompare l’effetto del vino del sonno. Si riempie tutta di luce l’estensione della percezione, Anche se la tua luce può aprire solo l’occhio visibile. Piace lo spettacolo che gli occhi vanno cercando, Piace lo splendore che può aprire l’occhio interiore. In questo mondo non si realizza il desiderio di libertà, Siamo tutta la vita prigioni delle catene della schiavitù. Per il tuo occhio l’alto e il basso non sono differenti, Anch’io ho desiderio di avere un occhio che discerne. Possa il mio occhio lacrimare per gli affanni altrui, Possa il mio occhio liberarsi dai pregiudizi usuali! Sia la mia lingua libera dalla discriminazione del colore, Sia l’umanità la mia nazione, la mia patria, il mio mondo. Il mio occhio interiore veda il segreto dell’ordine naturale, Al cielo si alzi il fumo della candela dell’immaginazione. Si agiti sempre in me la ricerca del mistero degli opposti! Ed io veda in ogni cosa la bellezza dell’amore creativo! Se i petali della rosa vengono deturpati dalla brezza, Il dolore siano le lacrime che scendono dai miei occhi. Ci sia nel mio cuore quella scintilla del fuoco dell’amore, La luce di quella fiamma contenga il segreto della verità. Non sia mio il cuore ma sia lo specchio del mio Amato! Nella mia mente non ci sia che simpatia per l’umanità! Se non puoi sopportare i travagli del mondo tumultuoso, O astro luminoso, questo non è un indice di superiorità! Non sei conscio della tua bellezza che adorna il mondo, Non sei uguale a un grano di polvere alla porta dell’uomo! Rimanga la luce dell’uomo, desideroso di spettacolo, Rimanga il tuo obbligo verso il mattino del domani. Il desiderio della luce della verità è solo nei nostri cuori, La casa di Laila del desiderio della ricerca è in questa sella. Che onore e che piacere è il risolvere il difficile mistero! Il piacere del risultato completo è nel nostro sforzo infinito. Il tuo petto non è consapevole delle pene della ricerca, Tu non hai familiarità con la ricerca dei segreti della natura. 21. IL DOLORE DELL’AMORE O dolore dell’amore! tu sei una perla scintillante, Fa’ attenzione a non mostrarti tra gli estranei! Il teatro della tua mostra si cela sotto il velo, L’occhio dell’assemblea moderna è il visibile. Una nuova brezza è giunta nel giardino della vita, O dolore dell’amore! non c’è piacere in questa vita. Ah! non andare in cerca in maniera così ostentata! Non essere obbligato al lamento dell’usignuolo! La coppa del tulipano sia priva del vino dell’amore, Il nome della rugiada sia quello di una goccia d’acqua. Il tuo segreto rimanga celato nel petto in qualche sito, Le lacrime del cuore che si scioglie non siano rivelatrici. La lingua del poeta dal bello stile non dovrebbe parlare, Nella musica del flauto non c’è il lamento di separazione. Quest’epoca è critica, va’ a nasconderti in qualche luogo, Nel cuore che è la tua dimora, nasconditi completamente. Attento, o uomo, la meraviglia della conoscenza ti trascura! Attento, il tuo occhio immaturo non riesce a vedere il vero. Lascia che il tuo pensiero vada alla ricerca della verità. In meraviglia rimanga il tuo occhio che ama la conoscenza. Questo non è il giardino dove può esserci la primavera, Questa non è l’assemblea degna della tua apparizione. Quest’assemblea comprende solo le cose della materia, Lo scopo della tua vista è la segretezza del segreto. Ogni cuore viene intossicato dal vino del pensiero, Alquanto diverso è il Sinai dei Kalim di quest’epoca. 22. UNA ROSA AVVIZZITA Come posso chiamarti ancora rosa, o rosa avvizzita, Come posso chiamarti ancora cuore dell’usignuolo? L’onda tremante dello zefiro ti ha cullato un tempo, Il tuo nome fu un tempo rosa splendente nel giardino. La tua benevolenza conobbe la brezza del mattino, Il giardino, vaso di profumiere conobbe il tuo respiro. Colmi di pianto son gli occhi e la rugiada piove su te, Nel tuo dolore il cuore desolato vi trova un rifugio. Del mio sordo dolore tu sei una piccola immagine, Un sogno fu la mia vita e tu ne fosti l’interpretazione. La mia storia come canna strappata dal canneto ti dirò, Ascolta, o rosa! il lamento del mio cuore separato ti dirò. 23. LA PIETRA TOMBALE DEL SAYYID O tu, uccello prigioniero del filo del desiderio, O tu, la cui esistenza è prigioniera di una gabbia. Guarda la libertà dei cantori di questo giardino, Guarda la prosperità delle città un tempo deserte. Questa è la riunione alla quale ero interessato, Questo è il risultato della pazienza e perseveranza. Guarda, la mia pietra tombale desidera parlare, Guarda l’iscrizione tombale con l’occhio interiore. Se il tuo scopo nel mondo è l’insegnamento della fede, Non insegnare alla tua nazione l’abbandono del mondo. Non adoperare la tua lingua per scopi faziosi e settari, Il tumulto del Giorno del Giudizio è solo un pretesto. I tuoi scritti dovrebbero essere tutti elementi di unità, Guarda, la tua parola non dovrebbe ferire nessun cuore. Nella nuova assemblea nessuna noia di vecchi racconti, Nessuna noia di quei racconti, nessuna risposta sullo stile. Ascolta i miei consigli se sei un buon funzionario, Il coraggio è la tua forza se sei una guida politica. Non ci sia in te esitazione nello scopo appropriato, Se le tue intenzioni sono buone, che timore hai tu? Il cuore del fedele è esente da paura e da ipocrisia, Il cuore del fedele non teme di fronte al sovrano. Se nelle tue mani tu tieni la penna del miracolo, Se l’intimo del tuo cuore è simile alla coppa di Jam, Se la tua lingua è pura, tu sei un discepolo divino! Attento a che la tua preghiera non sia senza risposta! Risvegli i dormienti con il miracolo del tuo verso, Brucia il falso prodotto con la fiamma della tua parola. 24. LA LUNA NUOVA Affondata è la nave del sole nelle profondità del Nilo, Galleggia un frammento sul volto delle acque del Nilo. Sgocciola nella coppa del cielo il sangue puro della sera, Ha forse una lancetta della natura aperto le vene del sole? O ha il cielo rubato un orecchino alla sposa della sera? O guizza nelle acque del Nilo un liquido pesce d’argento? Senza l’ausilio dei campanelli procede la tua carovana, L’orecchio umano non può udire la voce dei tuoi passi. Tu mostri agli occhi come si declina e si risorge. Dov’è la tua patria? per quale paese stai partendo? Prendimi con te, o pianeta errante eppur fermo, Ora che mi punge la spina dell’irrequieta nostalgia. Vado in cerca della luce, mi agito in questo mondo, io, Un fanciullo irrequieto nella scuola dell’esistenza, io. 25. L’UOMO E L’ASSEMBLEA DELLA NATURA Guardando al mattino il sole che risplendeva, Chiesi all’assemblea della casa dell’esistenza: “Dal soffio dei raggi solari viene il tuo splendore, L’acqua dei tuoi fiumi è simile a liquido argento. Il sole ha rivestito il tuo volto di gioielli di luce, Questa sua candela ha illuminato il tuo banchetto. Le tue rose e giardini sono quadri del paradiso, Tutti questi sono un commento alla surah del Sole. Rosso è il manto dei fiori, verde quello degli alberi, Nel tuo banchetto esistono belle fate verdi e rosse. La tenda del firmamento si mostra orlata d’oro, Quando le rosse nuvole appaiono sull’orizzonte. Com’è piacevole agli occhi il rosso del crepuscolo, Quando versi il vino rosato nei vasi della sera. Elevato è il tuo rango, grande è la tua pompa, Nel velo della luce si nasconde ogni tua cosa. L’alba è da capo a piedi un inno alla tua maestà, Non una sola traccia di tenebra resta sotto il sole. Io ho pure un’abitazione in questa dimora di luce, Perché allora s’è bruciata la stella del mio destino? Sono lontano dalla luce, sono prigioniero del buio, Perché sono perseguitato, e sfortunato, e infelice?” Mentre dicevo ciò, giunse da un luogo una voce, Dal balcone del cielo o dal cortile della terra: “Dalla tua luce dipende il mio essere o non-essere, Tu sei il giardiniere del giardino dell’universo. Tu sei assemblea della bellezza, io il tuo quadro, Tu sei il libro dell’amore, io sono il tuo commento. Tu hai messo ordine tra le mie cose disordinate, Tu hai tolto dalle mie spalle il peso che m’opprimeva. La mia esistenza dipende solo dalla luce del sole, Ma il tuo splendore non è debitore di nulla al sole. Senza il sole il mio giardino sarebbe desolato, Il luogo di delizie sarebbe invece la mia prigione. Oh, chi non comprende questo semplice mistero, Impigliato com’è nel cerchio e nella rete del desiderio! Oh, ignaro! il tuo occhio è legato alla forma materiale, Tu eri fiera bellezza, ma ora il tuo occhio è fiera umiltà. Se tu fossi davvero consapevole della tua realtà, Non saresti né perseguitato, né sfortunato, né infelice”. 26. IL MESSAGGIO DEL MATTINO (adattamento da Longfellow) Quando lo scintillio della luce sparì dalla fronte della notte, Lo zefiro della vita portò il messaggio del primo mattino. Risvegliò l’usignuolo dal canto di mille colori nel suo nido, Scosse le spalle del contadino lungo i bordi del suo campo. Ruppe l’incanto del talismano della notte buia con al- nur, Portò via la corona d’oro della candela nella camera al buio. Insegnò la magia del risveglio ai dormienti nel tempio, Diede al brahmano la buona novella del sole luminoso. E giungendo al tetto della moschea così parlò al muezzin: “Non hai paura nel tuo cuore alla vista del sole fulgente?” Scalando le pareti del giardino, così gridò al bocciuolo: “Fiorisci! tu sei il muezzin del mattino, o bocciuolo di rosa”. Nel deserto diede il comando “mettiti in cammino, carovana! Ogni granello di polvere splenderà come lucciola nel deserto”. Giunto al cimitero dei poveri dalle abitazioni dei viventi, Vedendo lo spettacolo miserevole del cimitero così gli parlò: “Fermati qui a riposare, io ritornerò ancora, e nuovamente, Fa’ dormire il mondo intero, io ti sveglierò nuovamente”. 27. AMORE E MORTE (adattamento da Tennyson) Incantevole fu l’ora in cui apparve il mondo, Il bocciuolo della vita sparse i suoi sorrisi. Qua il sole, corona d’oro, stava sorgendo, Là la luna andava effondendo i suoi raggi. La notte prendeva il suo lungo camice nero, Le stelle stavano imparando a risplendere. Qua il ramo dell’essere metteva le sue foglie, Là il bocciuolo della vita metteva i germogli. Gli angeli insegnavano il pianto alla rugiada, Per la prima volta prese a sorridere la rosa. Nel cuore del poeta fecero entrare il dolore, L’io si struggeva per il vino del non-io. Per la prima volta apparvero buie nuvole nere, Come se una huri spargesse all’aria i capelli. La terra pretendeva l’eleganza del cielo, Lo spazio pretendeva di essere il non-spazio. In breve quella visione era così incantevole Che era di per sé stessa un bel panorama. Gli angeli mettevano alla prova le loro ali, Dalle loro fronti balenavano splendori eterni. C’era anche un angelo il cui nome era Amore, Era ad ognuno di guida, ad ognuno di speranza. Un angelo che era il prototipo dell’irrequietezza, Angelo tra gli angeli, mercurio tra mercurio era. Si dirigeva verso il Paradiso per una passeggiata, Quando lungo la strada per caso incontrò la morte. Le chiese: “Qual è il tuo nome e il tuo lavoro? Non mi piace incontrarmi faccia a faccia con te”. Udendo queste parole, l’angelo della morte disse: “Sono l’angelo della morte, il mio lavoro è chiaro. Io recido il filo del bene dell’esistenza e della vita, Io spengo la scintilla dell’esistenza e della vita. Nei miei occhi c’è la magia dell’annientamento, Il messaggio di distruzione è il simbolo che reco. Ma in tutto l’universo esiste un solo elemento, È il fuoco, di fronte a lui io sono solo mercurio, Egli vive nel cuore degli uomini come scintilla, Egli è la stella degli occhi della Luce Suprema. Dagli occhi gli cadono lacrime senza tregua, Quelle lacrime di cui è sopportabile l’amaro”. Quando Amore sentì ciò dalle labbra della morte, Sulle sue labbra prese a comparire un sorriso. Il fulmine di questo sorriso discese sulla morte, Come può l’oscurità stare di fronte a tale luce? L’immortalità, vedendo la morte, cadde a terra, La morte era, e preda della morte cadde a terra. 28. VIRTÙ E VIZIO Ti racconto solo la storia di un signor mullah, Non voglio mettere in mostra la mia bravura. La sua reputazione di sufi era molto nota, Nobili e plebei gli prestavano dovuto omaggio. Diceva che la shar’iah era velata nel tasavvaf Così come i significati sono velati nelle parole. La coppa del cuore era colma del vino dell’estasi, Nel suo intimo aveva vaghe idee di onniscienza. Descriveva i suoi propri poteri soprannaturali, Intendeva accrescere il numero dei discepoli. Da lungo tempo aveva abitato nel mio quartiere, L’asceta e l’ateo erano amici da lungo tempo. Il sant’uomo chiese un giorno ad un mio amico: “Iqbal, che è una colomba dell’albero di qualità, Come si conforma agli obblighi della shar’iah? Anche se in poesia è l’invidia di Kalim Hamadani? Sento dire che non ritiene l’hindu un miscredente, Il suo credo è invero un risultato della sua filosofia. Ho sentito dire che c’è in lui anche un po’ di shi’a, Ho sentito da lui parlare della grandezza di ‘Ali. Considera la musica un elemento dell’adorazione, Ha forse intenzione di farsi beffa della religione. Non si vergogna di incontrare i venditori del bello, È pur questa la vecchia abitudine dei nostri poeti. La notte suona musica, il mattino recita il Corano, Sino ad oggi non abbiamo compreso questo segreto. Ma sono stato informato proprio dai miei discepoli Che la sua gioventù è immacolata come l’alba. Egli non è Iqbal ma è un insieme degli opposti. Un libro di saggezza il suo cuore, strana la sua indole. Conosce la pietas dello spirito così come la shar’iah, Se gli chiedi del tasavvaf è secondo solo a Mansur. Non riesco proprio a comprendere la sua personalità, Sembra che sia il creatore di un altro tipo di Islam”. In una parola prolungò così tanto il suo sermone, Continuò senza sosta il suo meraviglioso discorso. Tutti sanno in breve ciò che succede in questa città, Io stesso udii queste parole dalla bocca degli amici. Un giorno il degno asceta mi incontrò per la strada E la vecchia storia tornò a galla nella conversazione. Mi disse: “Quella doglianza fu dovuta al mio amore, Era mio dovere mostrarti il sentiero della shar’iah”. Gli risposi: “Io non ho nulla di che lamentarmi, io. Era un vostro diritto in qualità di mio vicino di casa. Chino il capo con profondo rispetto dinanzi a voi, La gioventù è abituata al rispetto degli anziani. Se voi non conoscete dunque la mia vera personalità, La vostra onniscienza non è toccata minimamente. Io stesso non conosco la mia vera personalità, Profonda è l’acqua del mare dei miei pensieri. Da tempo anch’io anelo e desidero vedere Iqbal, Da tempo verso lacrime per questa separazione. Anche Iqbal non sa quale sia la sua personalità, Non c’è alcuna beffa in queste parole, ve lo giuro.” 29. IL POETA La nazione è come un corpo e gli uomini sono gli arti, Artigiani e costruttori ne costituiscono le mani e i piedi. L’amministrazione statale è il bel volto della nazione, Il poeta dallo stile elegante ne è l’occhio lungimirante. Se un organo si ammala, l’occhio comincia a piangere, Come è in sintonia l’occhio con il corpo del mondo! 30. IL CUORE Racconti di forche e croci sono cose puerili per il cuore, La preghiera di arini è la sanguinante storia del cuore. Oh, Signore! come traboccherebbe la coppa di quel vino, La via all’immortalità è un verso per misurare il cuore. Oh, Dio! fu la nuvola di misericordia o il lampo d’amore Che bruciò il raccolto della vita e originò il seme del cuore. Se tu avessi pure un tesoro colmo di bellezza, o Farhad, Non riusciresti mai a scavare nella solitudine del cuore. Ora sembra simile al trono di Dio, ora simile alla Ka’ba, Oh Dio! a chi appartiene la dimora del mio cuore? Ha la sua pazzia ed anch’io ho la mia propria pazzia, Il cuore ama qualcun altro ed io amo il cuore. Tu non capisci ciò, o asceta dal cuore semplice! L’invidia di mille prostrazioni è una svista del cuore. Riesce a trasformare il mucchio di terra in un elisir, Tale è il potere e la forza delle ceneri del cuore. Preso nella rete dell’amore, si guadagna la libertà, Colpito dal fulmine, l’albero del cuore verdeggia. 31. L’ONDA DELL’OCEANO Il mio cuore impaziente mi tiene in forte agitazione, Simile al mercurio l’agitazione è per me fonte di vita. Il mio nome è onda, il mare è per me cosa guadabile, Il cerchio del vortice non sarebbe per me una catena. Il mio destriero si getta nell’acqua come il vento, Dalla spina del pesce la mia veste non è mai toccata. Talvolta io faccio salti attratta invero dalla luna piena, Talvolta per l’eccitazione infrango il corpo a riva. Sono quel viaggiatore che ama giungere a destino, Perché mi agito nel cuore, si chiederebbe qualcuno. Vado fuggendo dall’inquietudine del fiume stretto, Avvilita dalla separazione della vastità oceanica. 32. ADDIO, O ASSEMBLEA DEL MONDO (adattamento da Emerson) Addio, assemblea del mondo! vado alla mia terra, Ah! mi sento confuso in questo deserto abitato. Sebbene io sia depresso, inadatto alle assemblee, Tu non sei adatto per me, io non lo sono per te. La sala del trono e la camera del visir sono carceri, Il prigione spezzerà la catena e uscirà dalla carcere. Sebbene ci sia piacere nell’adornare la tua riunione, Pure c’è una qualche estraneità nella tua familiarità. A lungo sono stato in compagnia dei tuoi egoisti, A lungo sono stato inquieto come onda nell’oceano. A lungo sono stato seduto nelle tue riunioni di piacere, A lungo sono andato alla ricerca della luce nel buio. A lungo ho ricercato la vista delle rose tra le spine, Ah! non ho trovato quel Yusuf nel tuo mercato. L’occhio confuso è ora alla ricerca di un’altra scena, Come l’occhio colpito è in cerca di una spiaggia. Lasciando il tuo giardino fragrante, me ne vado via, Addio, assemblea del mondo! vado alla mia terra. Ho costruito la mia casa nella quiete della montagna, Ah! non trovo questo piacere nella musica delle parole. Compagno del narciso blu e amico della rosa io sono, Il giardino è la mia patria, vicino dell’usignuolo io sono. La sera mi culla il suono della musica delle sorgenti, Il mattino mi risveglia il cuculo dal verde tappeto. Nell’assemblea del mondo tutti amano la vita di società, Il cuore del poeta non ama che l’angolo della solitudine. Sono incline alla pazzia ché sono turbato dalla folla. Chi vado cercando, vagabondando tra valli e monti? Il desiderio di chi mi fa vagabondare per i verdi prati? E mi fa addormentare lungo le rive delle sorgenti? Tu mi rimproveri ché amo l’angolo della solitudine, Guarda, o ignaro! sono un messaggero della natura. Amico degli olmi e confidente delle tortore io sono, In questo giardino silente sono in uno stato d’ansia. Se odo qualcosa, io vado subito a riferirlo ad altri, Se vedo qualcosa, io vado subito a riferirlo ad altri. Il mio cuore ama il romito, orgoglioso della casa. Non mi importa dei troni di Dario e di Alessandro. Com’è bello distendersi sotto gli alberi e le piante, Quando il mio occhio osserva le stelle della sera. Si può forse vedere questo nella casa del sapere? Il segreto dell’universo si vede nel petalo d’una rosa. 33. IL BIMBO CHE SUCCHIA Tu strilli quando ti tolgo dalle mani il coltello, Sono buono con te anche se mi credi cattivo. Tu strilli, o arrivato in questa terra di dolore, Attento a non tagliarti! la punta è affilata. Ah, perché ti piacciono le cose pericolose? Gioca con questo innocuo pezzo di carta. Dov’è la tua palla? dov’è il tuo gatto cinese? Dov’è quell’animale dalla testa decapitata? Il tuo specchio è privo della nuvola di polvere, Aperti gli occhi, è sorta la scintilla del desiderio. Nel moto delle mani, nei tuoi sguardi si cela, Il tuo desiderio è nato da poco proprio come te. La tua vita non sa le restrizioni della libertà, Il segreto della natura si mostra nei tuoi occhi. Quando, adirato con me per qualcosa, strilli, Che fa se accetti un piccolo pezzo di carta? Ah, in questo costume anch’io concordo con te, Tu ami i capricci, anch’io amo i capricci. Sono amante dei piaceri effimeri, io strepito, In breve tempo mi adiro, in breve mi calmo. I miei occhi sono presi dalla bellezza esteriore, La mia ignoranza non è minore della tua. Ora grido, ora vado ridendo proprio come te, Alla vista sono adulto, in realtà sono un bimbo. 34. L’IMMAGINE DEL DOLORE Non si è obbligati ad ascoltare tutta la mia storia, Il mio silenzio è parola, il mio tacere è linguaggio. Perché nella tua riunione c’è quest’uso di tacere? La mia lingua in questa riunione desidera parlare. Un petalo è del tulipano, altri del narciso e della rosa, In ogni dove per il giardino si diffonde la mia storia. Tortore, pappagalli, usignuoli l’hanno portata via, Gli abitanti del giardino hanno rubato il mio lamento. O candela! gocciola a stille dagli occhi della falena, Io sono tutto dolore, di rimpianto è la mia storia. Oh Dio! che piacere c’è a vivere in questo mondo? La mia non è né vita eterna né morte improvvisa. Non è questo lamento solo mio ma di tutto il giardino, Io sono una rosa, l’autunno di ogni rosa è il mio. “In terra di dolore, nel suono della carovana io sono, Dai doni del cuore palpitante ricevo il clamore silente”. Nel mondo non mi curo del piacere della compagnia, Chi la felicità rimpiange, quello io sono privo di gioia. La parola stessa versa lacrime sul mio infelice destino, Parola silente, desiderosa di un orecchio impaziente. Sono un pugno di polvere sparsa, ma non so nulla, Sono Alessandro, o uno specchio o polvere di sabbia? Malgrado tutto ciò, la mia esistenza è lo scopo divino, È un tutto di luce ma la realtà è che sono nell’oscurità. Sono un tesoro celato in un pugno di polvere del deserto, Nessuno sa dove io sia o di quale ricchezza io sia fatto? La mia vista non è obbligata al giro della ruota della vita, Sono quel piccolo mondo di cui io stesso sono il signore. Né vino, né coppiere, né estasi, né coppa di vino io sono, Sono la verità di ogni cosa in questa taverna dell’essere. Lo specchio del cuore mi mostra i segreti dei due mondi, Riferisco tutto ciò che si presenta dinanzi ai miei occhi. Mi si concede un simile discorso tra gli eleganti oratori Ché sono d’accordo con me anche gli uccelli sul tetto. È questo anche un effetto della mia opera di ribellione Ché lo specchio del mio cuore è nei fiduciosi nel destino. Oh, India! questo tuo spettacolo mi fa versare lacrime. Il tuo racconto tra tutti i racconti è un ammonimento. Concedermi lacrime è come darmi qualunque cosa, La penna del destino m’ha posto tra i tuoi lamentatori. Oh, giardiniere! non lasciare nel giardino traccia di rose, Per tua sfortuna si vanno preparando guerre tra i giardinieri. Il cielo ha tenuto nascosto i fulmini nella sua manica, Gli usignuoli del giardino imprudenti non stiano nei nidi. Ascolta il mio richiamo, imprudente. È un qualcosa che Gli uccelli nel giardino recitano come preghiere quotidiane. Pensa alla patria, ignorante! stanno per giungere tempi duri, Nei cieli si fanno preparativi per la tua completa distruzione. Pensa a ciò che sta accadendo e a ciò che andrà accadendo. A che serve ripetere di continuo le storie delle vecchie glorie? Fino a quando tacerai? e darai vita al piacere della protesta? Dovresti restare sulla terra, le tue grida rimangano nel cielo! Se non comprendete, sarete distrutti, o popoli dell’India! Persino le tue storie svaniranno dalle cronache del mondo. È questa la legge della natura, è questo l’ordine naturale, La natura ama quelli che seguono il sentiero dell’azione. Di certo, renderò oggi manifeste tutte le mie ferite celate, Muterò la forma del giardino con lacrime miste a sangue. Illuminerò la candela d’ogni cuore con dolore nascosto, Illuminerò di certo la tua oscurità con lampade luminose. Farò nascere il dolore del cuore in forma di bocciuoli, Spargerò per tutto il giardino una manciata di polvere. Se è difficile riunire le perle sparse in un unico rosario, Io renderò di certo semplice questo compito difficile. Oh compagno! lasciami solo nel compito della ricerca, Ché mostrerò di certo il segno dell’amore appassionato. Mostrerò al mondo tutto ciò che i miei occhi hanno visto, Farò di te distratto un uomo perplesso come uno specchio. L’occhio che discerne vede ogni cosa ricoperta di veli, Vede nel profondo le esigenze della natura dei tempi. Tu non hai fatto sapere al cuore il piacere della dignità, Tu hai trascorso la vita in umiltà come le orme dei piedi. Il tuo cuore è rimasto legato alla riunione dell’assemblea, Fuori dell’assemblea non hai mai conosciuto il mondo. Hai amato di continuo il fascino delle bellezze materiali, Non hai mai veduto la tua eleganza in questo specchio. Metti da parte i pregiudizi! Nella casa di vetro del mondo Hai preso le tue proprie immagini per forme malefiche. Diventa il lamento dell’ingiustizia del dolore della vita! Hai celato la voce in un nodo come il seme della ruta. Un cuore puro non si perde dietro orpelli appariscenti, O sciocco! Hai sparso henna sulla palma dello specchio. Terra e cielo, entrambi, si lamentano della tua imprudenza, È oltraggioso che tu abbia distorto i versetti del Corano! Con la lingua tu parli di unità di Dio! ma a che scopo? Hai tramutato l’idolo della tua presunzione nel tuo dio. Yusuf che hai visto nel pozzo, come l’hai davvero visto? O imprudente! Ciò che è assoluto l’hai reso relativo. Tu prediligi l’uso di uno stile fiorito persino dal pulpito, Anche i tuoi consigli sono una forma per dire una storia. Mostra al tuo occhio bagnato quell’universale bellezza, Che agita la falena e fa lacrimare la rugiada come occhio. Un semplice vedere non è il suo scopo, o stravagante! Qualcuno ha creato l’occhio umano per la comprensione. Anche se vedesse l’intero mondo, che cosa vedrebbe? Jam non poteva vedere nella coppa la sua propria realtà. Il settarismo è l’albero, il pregiudizio ne è il frutto, Questo frutto ha fatto cacciare Adamo dal paradiso. Neanche un petalo di rosa nascerebbe dalla luce del sole, È il desiderio dell’eleganza che dà la vita alla rugiada. I colpiti dall’amore non vanno alla ricerca di una cura, I colpiti si preparano la propria cura con le loro mani. Dalla scintilla dell’amore il cuore riceve la sua luce, Dal piccolo seme dell’amore nascono i giardini di Tur. Ogni rimedio è rimanere feriti dalla spada del desiderio, Il rimedio alla ferita è la libertà dall’obbligo della sutura. Con il vino del be-khudi il mio volo si libra sino al cielo, Con la scomparsa del colore so che rimane il profumo. Può l’occhio che lagrima frenarsi dal lamento della patria? L’adorazione dell’occhio del poeta resta pura e limpida, A che scopo creare il proprio nido tra i rami d’una rosa, Ah, perché vivere nel giardino in maniera disonorevole! Se comprendi, l’indipendenza resta velata nell’amore, La schiavitù è essere prigionieri della rete dello scisma. L’appagamento è ciò che tiene la coppa immersa in acqua, Tu dovresti anche restare come gorgoglio nella corrente. È meglio per te non restare indifferente ai tuoi simili, Se vuoi continuare a vivere nel mondo, o ingenuo! Il vino che dà forza all’anima è l’amore per l’umanità, Mi fu insegnato a restare intossicato senza vino e coppa. Le nazioni malate sono state curate solo con l’amore, Le nazioni si sono scrollate le avversità con l’amore. La distesa dell’amore è invero terra straniera e patria, Questo deserto è gabbia, ma è anche nido, è giardino. L’amore è quella sosta che è sosta ma è pure deserto, È anche campanello e carovana, guida e malfattore. Ognuno lo chiama malattia ma è una tale malattia In cui si nasconde il rimedio di tutte le malattie. Il dolore del cuore è come fosse incarnazione di luce, Se questa falena brucia, brucia la candela della riunione. La bellezza è solo una ma appare diversa in tutte le cose, È Shirin, il cielo e anche chi scava nella montagna. La distinzione di leggi e governi ha distrutto le nazioni, Si preoccupa della patria il cuore dei miei compatrioti? Il racconto dei miei lamenti chiede il silenzio, oppure La lingua nella mia bocca e l’abilità di parlare sono: “Non prendere queste parole così come le ho riferite, La storia dell’esistenza è infinita, ma detta in silenzio”. 35. LAMENTO PER LA SEPARAZIONE (In ricordo di Arnold) O casa, il tuo padrone vive ora in occidente, Ah! non gli piaceva forse la terra d’oriente. Oggi il mio cuore è sicuro di questa verità, ll dì della separazione è più buio della notte, “Come la cicatrice è presa dal petto dell’addio, così nei miei occhi la vista dorme candela spenta”. Mi piace il romitaggio, odio la confusione, Fuggo lontano dalla città nel tormento d’amore. Al ricordo dei vecchi tempi il mio cuore è desto, Per consolazione corro con ardore verso di te. Il mio occhio conosce ogni angolo della tua casa, Pure c’è un qualcosa di estraneità nei miei passi. Una particella del cuore stava per conoscere il sole, Lo specchio infranto era per espandersi nell’universo. L’albero dei miei desideri stava per diventare verde, Ah! chi sa che cosa avrebbe mai potuto diventare! La nuvola misericorde prese la veste dal giardino e partì, Bagnò di pioggia i bocciuoli dei miei desideri e andò via. Dove sei tu, o interlocutore dell’ibn-i Sina del sapere? Il tuo respiro era la brezza che porta la gioia del sapere. Dov’è ora il desiderio di percorrere le vastità del sapere? Il tuo respiro portava alla mia mente l’amore del sapere. “Dov’è il fervore di Laila per ornare di nuovo l’amore, Per rimescolare la polvere di Majnun con il deserto?” Il deserto della solitudine scioglierà il nodo del destino, Io ti raggiungerò infrangendo le catene del Panjab. Il mio occhio confuso guarda alla tua immagine, Come può essere felice chi è in cerca del parlare? “La bocca dell’immagine non ha il potere di parlare, Il silenzio è la sola parola che l’immagine possiede”. 36. LA LUNA La tua patria è miglia e miglia lontana dalla mia, In tumulto come il mare è il mio cuore preso da te. Dove hai intenzione di andare? Da dove provieni? Forse sei pallida per gli strapazzi del viaggiare. Nella creazione tu sei fatta di luce, io di oscurità, Anche se il destino mi ha fatto a tua simiglianza. Ah! Io brucio al calore del desiderio di vedere, Tu bruci per il dolore di dover seguire il sole. Se il tuo moto stabilito deve seguire un’orbita, Il mio moto è simile a quello di un compasso. Tu segui con cura il sentiero della vita come me, Tu risplendi nelle riunioni dell’esistenza come me. Nel mezzo del cammino io sono, tu lo sei pure, Tu nelle riunioni sei silente com’io nel mio cuore. Tu vai alla ricerca, io pure vado alla ricerca, La tua è luce lunare, la mia è luce d’amore. La mia vita è con gli altri nell’assemblea del mondo, Se unica è la tua assemblea, unica è anche la mia. Per te la luce del sole è come un messaggio di morte, Nel fulgore della tua bellezza si strugge il mio cuore. Pure, o luna splendente, io son diverso, tu sei diversa. I petti che sono afflitti dal dolore non sono gli stessi, Sebbene io sia fatto di oscurità, e tu sia fatta di luce. Tu sei miglia e miglia lontana dal piacere dell’intelletto. Io conosco quale sia lo scopo della mia esistenza, Tu non puoi conoscere lo splendore di questo sapere. 37. BILAL La stella del tuo destino che sorse luminosa Ti sollevò dall’Abissinia per portarti in Hijaz. Proprio questo albergò la tua casa di dolore, La tua schiavitù valeva più di mille libertà. Quella soglia non hai lasciato per un attimo, Tutti i tormenti sopportasti per amore di Uno. La tirannia che diventa amore non è tirannia, Se non c’è tormento, non c’è piacere nell’amore. La vista della tua mente era la stessa di Salman, Il vino della vista aumentava vieppiù la tua sete. Come Kalim tu eri alla ricerca di quella Vista, Il potere della vista prese Uwais di fervore. Madinah fu, per così dire, la luce dei tuoi occhi, Per te questo deserto, per così dire, fu il Sinai. Il tuo desiderio della vista soddisfatto rimase tale, Il cuore freddo si riscaldò ma il respiro non si placò. Il fulmine e il lampo colpirono la tua anima avida Al punto che il tuo buio derise la mano di Mosè. Presero il calore della fiamma ponendolo sul cuore, Che fulmine fulgente posero sui grani del tuo sforzo! Il fascino del tuo desiderio della Vista fu la supplica, La vista continua di un qualcuno fu la tua preghiera. Sin dall’eternità l’azan diventò l’inno del tuo amore, La preghiera fu il perspicace pretesto per la Vista. Felice fu l’epoca in cui Yathrib era la sua dimora, Felice fu l’epoca in cui comune era la sua Vista. 38. LA STORIA DI ADAMO Si dovrebbe udire la storia del mio migrare, Ignoravo la storia di quel mio patto primitivo. Non sentivo amore per il giardino del paradiso, Quando bevvi l’ardente coppa della conoscenza. Andavo alla ricerca della verità dell’universo, Dimostravo l’eccellenza del mio bel pensiero. Avevo un temperamento sì facilmente mutevole Che non mi fermavo in nessun luogo sotto il cielo. Talvolta rimuovevo gli idoli di pietra dalla Ka’ba, Talvolta riportavo indietro gli idoli nell’haram. Un tempo arrivai a Tur per il desiderio di parlare E nascosi la luce eterna sin dentro la mia camicia. Talvolta venivo crocifisso dalla mia stessa gente E ascesi al mondo celeste abbandonando la terra. Un tempo mi nascosi per anni nella cava di Hira Un tempo diedi al mondo l’ultima coppa di vino. Andando in India io suonai la divina orchestra, Un tempo prescelsi per me la terra della Grecia. Quando la gente dell’India non mi diede ascolto, Dissi il mio sermone alla Cina e al Giappone. Un tempo creai l’universo unendo gli elementi, Lo feci contro i dettami e le prediche dei preti. Macchiai di sangue centinaia e centinaia di terre, Quando iniziai una guerra tra intelletto e religione. Quando non potei comprendere la realtà degli astri, Trascorsi notti insonni in questa contemplazione. Le spade della Chiesa non potevano spaventarmi, Quando insegnai la teoria della rotazione terrestre. Dimostrai a tutto il mondo il segreto della gravità, Usando lo specchio del lungimirante intelletto. Io fermai le radiazioni e l’irrequieta elettricità, Feci della terra la fonte dell’invidia per il paradiso. Ah, ma non potei penetrare i segreti dell’Esistenza, Pur rendendo bello il mondo con il mio intelletto. Alla fine, apertosi il mio occhio materialistico, Trovai Lui che albergava addentro nel mio cuore. 39. CANTO DELL’INDIA La cosa più bella del mondo è la nostra India, È il nostro giardino e noi ne siamo gli usignuoli. Se siamo all’estero il nostro cuore è per la patria, Siamo presenti dove i nostri cuori sono presenti. La montagna più alta che giunge fino al cielo È la nostra propria sentinella, la nostra guardiana. Migliaia di fiumi scorrono nel suo grembo, E fanno di questo giardino l’invidia del mondo. O acque del fiume Gange! Ti ricordi del giorno In cui la nostra carovana giunse alle tue rive? La religione non ci insegna il rancore reciproco, Siamo tutti indiani e l’India è la nostra patria. Grecia, Egitto, Roma, tutti scomparsi dal mondo, Ma sino ad oggi rimangono il nostro onore e fama. La realtà è che la nostra esistenza non è scomparsa, La verità è che le vicende dei tempi sono state avverse. O Iqbal! Nel mondo non c’è per noi un amico fedele, Come potrebbe qualcuno sapere i nostri dolori celati? 40. LA LUCCIOLA Nella casa del giardino brilla il lume della lucciola, O è una candela accesa nell’assemblea dei fiori? È caduta forse una qualche stella dall’alto del cielo O ha preso forse la sua dimora in un raggio di luna? O nel regno della notte è ambasciatore del giorno, Luminoso all’estero, ignoto nella sua propria patria? È caduto un qualche bottone dalla veste della luna O ha preso vita un granello nella camicia del sole? Era forse un barlume della bellezza eterna nascosto Nella solitudine e portato nella riunione della natura? In questa piccola luna ci sono luce e oscurità anche, Ora è in stato di eclisse, ora è uscita fuori dall’eclisse. La falena è un insetto, anche la lucciola è un insetto, La prima ha bisogno di luce, l’altra è un corpo di luce. Nell’universo la natura ha dato bellezza ad ogni cosa, Ha dato il palpito alla falena, dato la luce alla lucciola. Ha dato il cinguettio canoro all’uccello privo di voce, Ha dato la lingua alla rosa insegnandole il silenzio. La bellezza dello spettacolo del tramonto scemava, Ed effimera vita diede a questa fata rischiarandola. All’aurora diede colore come ad una giovane sposa, Vestendola di rosso le diede lo specchio della rugiada. All’albero diede l’ombra, al vento diede il volo, All’acqua diede il fluire, alle onde il movimento. Ma è solo nostra prerogativa il segno del pensare, Per la lucciola il giorno è quel che è notte per noi. In ogni cosa è presente il riflesso dell’eterna bellezza, Nell’uomo è la parola, nel bocciuolo è lo sbocciare. Questa luna nel cielo è per così dire il cuore del poeta, Lassù è luce lunare quello che è acuto dolore quaggiù. I modi della parola ci hanno ingannati, per altri aspetti Il canto è profumo d’usignuolo, il profumo canto di fiori. Nella Pluralità si nasconde e si cela il segreto dell’Unità, Lo scintillio della lucciola è ciò che è fragranza nel fiore. Perché dovrebbe questa differenza essere causa di guerra Quando al fondo d’ogni cosa si cela il primevo silenzio? 41. LA STELLA DEL MATTINO Lasciare il piacere e la compagnia del sole e della luna, E abbandonare questo compito di annunciare l’alba? Per me non è bella l’altezza del mondo delle stelle, Per me meglio di quest’altezza è il fondo dei terrestri. Che cos’è il cielo? è la mia propria patria disabitata, La veste lacera e a pezzi del mattino è il mio sudario. Il mio destino è morire e nascere di nuovo ogni giorno, Bere il vino mattutino dalle mani del coppiere della morte. Non son belli questo compito, quest’onore, questa dignità, Migliore di questa luce effimera sono il buio e l’oscurità. Se fosse in mio potere, non sarei mai divenuta un pianeta, Sarei stata una perla scintillante nel profondo dell’oceano. E se anche mi fossi stancata di lottare pure con le onde, Avrei lasciato il mare per diventare collana su un collo. Nell’ornamento della bellezza sta il piacere dello scintillio, Nell’ornamento della corona della regina di un Cesare. Una grande fortuna diventa un semplice pezzo di pietra, Una volta incastonato nell’anello al dito di Salomone. Ma svanisce nel mondo alla fine tutta questa gloria, Svanire e frantumarsi è la fine delle perle inestimabili. Vive solo tutto quello che non si riferisce alla morte, Può chiamarsi vita quella che dipende dalla morte? Se la nostra fine è quella di dover adornare l’universo, Perché non cadere come rugiada su un qualche fiore? Vivere come gioiello nell’ornamento di una fronte, Come una scintilla nel sospiro di un cuore afflitto. Come lacrima che brilla sulle ciglia di un occhio, Perché no, che sgocciola dagli occhi di una donna. Il cui signore, vestito in armatura di ferro, parte Per il campo di battaglia, spinto dall’amor patrio. Il volto di lei che mostra speranza e disperazione, Il silenzio che mette in imbarazzo la parola stessa, Il suo compiacere il marito le dà un animo forte, Gli occhi modesti le danno il potere della parola, Le guance rosee diventano pallide alla partenza, Il dolore della separazione rende bella la bellezza. Sgocciolerei lì sul cuore che si controlla a stento, Sgocciolerei lì dalla coppa dell’occhio lacrimoso, Mescolandomi con la polvere otterrei vita eterna, Partendo mostrerei al mondo il calore dell’amore. 42. CANTO NAZIONALE DEI BIMBI INDIANI La terra che ascoltò il messaggio divino di Chisti, Il giardino che ascoltò il canto divino di Nanak, La terra che i Tartari adottarono come loro patria, La terra per quale gli Arabi abbandonarono i deserti, Quella terra è la mia patria, è la mia propria patria. Che lasciò i Greci stupefatti per la sua saggezza, Che diffuse sapere e conoscenza in tutto il mondo, Che Iddio dotò di enormi ricchezze e dell’elisir, Che ha riempito di diamanti le tasche dei Turchi, Quella terra è la mia patria, è la mia propria patria. Che illuminò e riportò nuovamente sulla Via Lattea Le stelle che erano cadute dal cielo della Persia, Da dove il mondo ha ascoltato il canto dell’unità, Da dove il Santo Profeta ha sentito la fresca brezza, Quella terra è la mia patria, è la mia propria patria. La terra dove abitano i Kalim, dove si erge il Sinai, La terra dove approdò la barca del profeta Noè, La terra dove l’eleganza è la scala per il cielo, La terra dove si vive proprio come in un paradiso, Quella terra è la mia patria, è la mia propria patria. 43. UN NUOVO ALTARE Ti dirò il vero, o brahmano, se non ti adombri, Gli idoli del tuo tempio stanno invecchiando. L’odio verso gli amici dagli idoli hai appreso, Al predicatore il dio l’arte del litigio ha insegnato. Stanco, ho al fine lasciato il tempio e la moschea, Ho lasciato il sermone del predicatore e le tue storie. Tu pensavi che c’era un Dio negli idoli di pietra, Per me ogni singolo granello della mia patria è Dio. Leviamo ancora una volta i veli spessi del sospetto, Uniamo ancora una volta i separati, non più divisioni. Da lungo tempo è rimasta deserta la dimora del cuore. Vieni, costruiamo un nuovo altare in questo paese, Un luogo più sacro di tutti quelli sacri nel mondo Con pinnacoli che giungano a toccare l’orlo del cielo. Innalziamo all’alba i nostri canti sacri ogni mattina, Siano in estasi i fedeli versando il vino dell’amore. E forza e tranquillità si infonda negli inni dei devoti Ché nell’amore è la salvezza degli abitanti del mondo. 44. DAGH Da lungo tempo è sepolta la grandezza di Ghalib, Da tempo Mahdi Majruh è sepolto nel cimitero. La morte colse la vita di Amir in terra straniera, L’occhio della riunione ha ancora l’estasi di Amir. Oggi, o amico, tutto il giardino è ancora in lutto! Spenta è la candela, la riunione di poesia è in lutto! L’usignuolo di Delhi ha il nido in questo giardino, Dove cantano in coro gli usignuoli di tutto il mondo. Ah, Dagh se n’è andato! Sulle nostre spalle è la bara! Silente è alla fine anche l’ultimo poeta di Jahanabad. Dov’è ora quell’intelligenza? dove quella sottile ironia? Il fuoco giovanile s’è celato nella canfora della maturità. In ogni cuore c’è il desiderio del linguaggio di Dagh, Lailah era senza velo laggiù, ella è ora dietro il velo qui. Chi chiederà allo zefiro il segreto del silenzio della rosa? Chi nel giardino capirà il segreto del lamento dell’usignuolo? Nella sua bella immaginazione era consapevole della realtà, L’occhio dell’uccello persino nel volo era rivolto al nido. Altri ci mostreranno le sottigliezze del pensiero della lingua, Altri ci mostreranno l’eleganza della sagacità del pensiero. Ci faranno piangere descrivendo le vicissitudini del tempo, O ci mostreranno il mondo nuovo della loro immaginazione. Gli usignuoli di Shiraz anche nasceranno in questo giardino, Ci saranno anche centinaia di maghi e maestri di miracoli. Migliaia di Azar risorgeranno dal tempio della poesia, I nuovi coppieri serviranno nuovo vino dalle coppe nuove. Si scriveranno anche molti commentari del libro dell’amore, Ci saranno infinite interpretazioni dei sogni dei giovani. Ad ogni modo, chi disegnerà l’esatta immagine dell’amore? Ad ogni modo, chi incanterà il cuore partito il maestro? Nella terra del verso io vado seminando i semi delle lacrime, Anche tu piangi, o terra di Delhi! Io piango ora per Dagh! Ah, o Jahanabad della religione dei letterati e dei poeti! Il tuo giardino è stato oggi spogliato tutto dall’autunno! Questa tua rosa colorata se n’è andata come la sua fragranza, A dire il vero, la dimora dell’urdu è rimasta priva di Dagh. Forse non c’era una grande attrattiva nella terra patria, Tanto che la luna piena s’è trasferita nel suolo del Deccan. I coppieri se ne sono andati, deserta è diventata la taverna. Solo, nella riunione di Delhi, è rimasta l’autorità di Hali. La tirannia della morte fa versare copiose lacrime di sangue, L’arciere della morte scocca le sue frecce nella buia oscurità. A ogni modo, la lingua non può aprirsi alla lamentazione, Lo stile dell’autunno prelude anche all’esistenza del giardino. Questi sono i risultati che l’unica legge universale produce, Esce il profumo dal giardino, quello del giardiniere dal mondo. 45. LA NUVOLA Nere nuvole sono oggi ricomparse da oriente,` Il monte Sarban si è ricoperto di oscurità. Nascosto sotto le nuvole è il volto del sole, A cavallo delle nuvole è giunta la fresca brezza. Nessun rumore di tuoni, silenti sono le nuvole, Strana è in questa calma la riunione delle nuvole. Nel giardino ha portato un messaggio di gioia, Nella corolla della rosa ha portato un filo di perle. Ha rinfrescato i fiori languenti per il calore del sole, Ha risvegliato i fiori dormienti nel seno della terra. Sospinta dalla forza del vento è avanzata la nuvola, Qualche nuvola nera è scoppiata in pioggia dirotta. Meravigliosa è la distesa degli alberi sui monti, Tra gli alberi i viandanti in cammino tra le valli. 46. L’UCCELLO E LA LUCCIOLA Nella prima sera un uccello canoro, Appollaiato su di un ramo cantava. Vide sulla terra un qualcosa luccicare, Pensò ad una lucciola e volò giù. All’uccello canterino disse la lucciola: “O uccello, non uccidere un inerme. Chi ha dato a te il canto, alla rosa l’odore, Quello stesso Dio ha dato a me la luce. Sono rivestita tutta di un abito di luce, Sono il Sinai del mondo degli insetti. Il tuo canto è il piacere dell’orecchio, La mia luce è il piacere dell’occhio. La natura ha dato la luce alle mie ali, Ha dato a te una voce affascinante. Ha insegnato il canto al tuo becco, Ha fatto di me la torcia del giardino. Ha dato a me la luce, a te la voce, Ha dato a me il calore, a te la musica. Il calore non è l’opposto della musica, Ovunque il calore è unito alla musica. Solo questi sono la base dell’esistenza, Solo questi sono gli spettacoli del mondo. Solo l’armonia è alla base del mondo, Solo questa è lo sbocciare del giardino”. 47. IL BIMBO E LA CANDELA Che strano è ciò, o bimbo dalla natura di falena! Tu che osservi per ore la fiamma della candela. Che moto è questo quando sei nel mio grembo? Hai forse l’intenzione di abbracciare la luce? Se il tuo cuoricino si sorprende a questa vista, È questo il riconoscimento di qualcosa già visto? La candela è una fiamma, e tu ne sei la luce, Ah! in questa riunione ove si vede che ti celi, Chi sa perché la mano della natura lo manifesti! E nasconda te nel mantello della terra oscura. La tua luce si cela sotto il velo dell’intelletto, Il velo del sapere è pura nebbia all’occhio savio! Ciò che si chiama vita è invero un miraggio, Un sogno, un deliquio, un’estasi, un oblio è. La riunione della natura è un mare di bellezza, Per l’occhio ogni goccia è tempesta di bellezza. La bellezza è nel silenzio terribile del monte, Nella luce del sole, nell’oscurità della notte. Nello specchio del cielo che riluce al mattino, Nel buio della notte, nei colori del crepuscolo, Nei resti che svaniscono dell’antico fulgore, Nello sforzo del bimbo che impara a parlare, Nell’armonia di coloro che abitano il roseto, Negli sforzi degli uccellini che creano il nido, Nel torrente montano, nella libertà dell’oceano, Nella città, nella foresta, nel deserto, nella casa. È l’anima che anela a un qualcosa di perduto, O perché si lamenta come campana nel deserto? È inquieta in questo splendore generale del bello, La sua vita è quella di un pesce fuori dell’acqua. 48. LUNGO LA RIVA DEL RAVI Rapito dal canto, nel silenzio della notte, è il Ravi; Non chiedermi quale sia ora lo stato del mio cuore. Sono gli alti e bassi del richiamo dalla moschea, Per me il mondo intero è un santuario di Dio. In piedi, io, lungo le rive dell’acqua che fluisce, In piedi, io, non capisco più dove io sia adesso. Di rosso vino si è colorato il vestito della sera, La mano tremula del cielo venerando reca la coppa. S’avvia verso la mèta la veloce carovana del giorno, Il crepuscolo serale appare come il fiore del sole. Solinghe di lontano si ergono quelle stupende torri, Sono minareti addormentati nelle tombe dei moghul. Quel palazzo è il racconto di una storia di tirannie, Quel palazzo è un qualche libro dei tempi passati. Non è una dimora ma una orchestra di silenzio; No, non sono alberi ma un parlamento silente! Sulla superficie del fiume scorre veloce una barca, Con l’onda si sforza e lotta a lungo il barcaiolo. La barca va avanti veloce simile a uno sguardo, Lontano dal ricurvo confine dello sguardo va. Una nave della vita è l’uomo allo stesso modo, Nel mare dell’eternità è venuto così, svanito così. Con la morte e la sconfitta non si è mai adattato, Alla vista si è nascosto, ma non si è mai eclissato. 49. LA PETIZIONE DEL VIAGGIATORE (presso il santuario di Hazrat Mahbub Ilahi di Delhi) Il tuo lodato nome recitano gli angeli, La tua esaltata soglia, la tua munificenza. Attratte dal tuo amore si fermano le stelle, Il tuo sistema è simile a quello del sole. Il pellegrinaggio alla tua tomba è vita, Il tuo stato è più alto di Gesù e di Khizr. La natura dell’amato si cela nel tuo amore, Alto è il tuo stato, grande la tua venerazione. Se il cuore ha una macchia, lo è per amor tuo, Ma lieto io sono, la rosa della tua primavera. Lasciando il giardino, esco come rosa odorosa, Deciso a superare la prova della perseveranza. Con zelo lascio la taverna della madrepatria, Il piacere del vino della conoscenza urge in me. Guardo la nuvola misericorde, sono l’albero solo, Per grazia divina non ho bisogno del giardiniere. Possa io vivere onesto come sole nel mondo, Possa io avere dalla tua benedizione quella scala. Possa io sopravanzare i miei compagni viandanti, Possa io diventare la tappa finale della carovana. Possa la mia penna non ferire nessun sentimento, Possa io non dolermi di nessuno sotto il sole. I loro effetti non entrino nei cuori come pettine, Possa io non avere questa doglianza dalla tua soglia. Il nido che ho creato con pagliuzze a poco a poco, Possa io rivedere lo stesso nido in quel giardino. Possa io rideporre la fronte ai piedi dei genitori, I cui sforzi mi hanno fatto confidare nell’amore. Quella candela alla riunione del santo discendente, La cui soglia io considererò sempre come haram, Il cui respiro ha aperto il bocciolo del mio desiderio, Per la cui benevolenza io sono diventato sagace. Prego il Signore del mondo terrestre e celeste Di poter tornare di nuovo felice e fargli omaggio, Quel secondo Yusuf per me, la candela dell’unione, Il cui amore fraterno mi ha dato la pace dell’anima, Che nel suo amore, distruggendo il libro di “te ed io”, Mi ha portato alla giovinezza nei dintorni della felicità. Possa egli rimanere felice nel mondo come una rosa, Lui che per me è più prezioso della mia vita stessa. Possa il bocciuolo del mio cuore diventare un fiore! Possa essere accolta la richiesta di questo viandante! 50.1. GHAZAL Non guardare al giardino della vita come un estraneo, È cosa degna di essere guardato sempre e sempre più. Sei venuto in questo mondo come una scintilla, sappilo. La tua effimera vita può finire all’improvviso, sappilo. Dato per scontato che non son degno della tua Vista, Dovresti guardare al mio zelo e alla mia perseveranza. Se il desiderio della sua Vista ha aperto i tuoi occhi, Cerca le impronte dell’Amato in ogni strada e vicolo. 50.2. GHAZAL Se tu non fossi venuto, non avrei motivo di contesa, Ma quale riluttanza c’è stata nel fare la promessa. Il tuo messaggero ha svelato ogni intimo segreto, Quale fu la colpa dell’uomo in tutto ciò, o Signore. Nell’assemblea tu hai riconosciuto il Tuo amante, Nel mezzo dell’estasi come fu vigile il Tuo occhio. Riluttante fu a giungere, o Messaggero, è vero, Ma, dimmi, in che modo si espresse quel diniego? Mosè fu attratto dal Sinai senza sforzo alcuno, Quanto forte si rivelò, o zelo, la tua attrazione! In qualche dove continua la tua fama, o Iqbal, Qualche magia ci fu, non furono le tue parole. 50.3. GHAZAL O Signore, strana è la pietà del predicatore! È piena di animosità verso l’intero mondo. Nessuno ha fino ad ora capito quell’uomo, Dove se ne sta andando, e da dove è venuto? Dalla stessa fonte la notte ha ricevuto il buio, Da dove ha questa ricevuto la sua lucentezza? Il racconto della nostra propria compassione Viene sempre narrato dal nostro sostenitore. Davvero sottili sono i modi del predicatore, Egli trema all’udire il richiamo dell’azan! 50.4. GHAZAL Per il nido ho bisogno di paglia da qualche dove, Di bruciare questo nido i fulmini sono impazienti. Ahimè! disperazione, il cielo ha voluto rovinarlo, Qualunque ramo abbia io scelto per il mio nido. Tu sei in guerra contro le settantadue nazioni, Una tua coppa metterebbe d’accordo il mondo. Dovrei albergare nel mio cuore un tale desiderio Da far mettere sottosopra il cielo per annientarmi. Fa’ il tuo raccolto prendendo chicco per chicco, Un qualche fulmine potrebbe venire a distruggerlo. O amico di pena, mi son preso cura del tuo dolore, Come avrei potuto altrimenti beccare un chicco? In questo giardino il cuore non canterebbe la libertà. Ah! questo giardino non è adatto ad un simile canto. 50.5. GHAZAL Come dire come fui separato dal mio giardino E come fui imprigionato nella rete del desiderio. È strano che tutto il mondo mi si rivolga contro. perché sono stato dotato di onore e di rispetto. Qualcuno chiede di sapere che cosa c’era sul Sinai; Che ne sai tu, o cuore! Che cosa e come fu deciso? Il desiderio di non desiderare è anch’esso desiderio, Come fu liberato l’uccello dalla rete del desiderio? Chi ha il desiderio di vederTi, Ti vede anche qui, Come la promessa finale fu una prova di pazienza? La stessa Perfetta Bellezza può esserne la causa, Come si rivelò ciò che era nascosto sotto il velo? La ricetta della morte resta, o dolore della separazione! Il medico è pazzo, come dire che ero un incurabile? O occhio ammonitore, hai mai visto come la rosa, Nata dalla polvere, sia diventata piena di colori? La richiesta delle mie azioni era per svergognarmi, Altrimenti era ovvio come e perché fosse accaduto. La mia distruzione era qualcosa che andava vista, In che modo dire come mi trovassi di fronte a Lui. 50.6. GHAZAL Insoliti per condizione, distinti dal mondo sono essi, Oh Signore, abitanti di quali case sono questi amanti? Persino nella cura del dolore ho il desiderio del dolore, Le spine nelle piaghe sono state rimosse con un ago. Oh Signore, sia prospero il giardino delle mie speranze, Con il mio sangue ho irrorato e cresciuto queste piante. Durante la notte il silenzio delle stelle mi fa piangere, Strano è il mio amore, strane sono le mie lamentazioni. Non chiedermi del piacere di rimanerne spogliato, Ho creato e distrutto centinaia e centinaia di nidi. Non è bello essere estraneo al compagno del viaggio, O scintilla, aspetta, anche noi siamo destinati a sparire. La speranza delle huri ha insegnato tutto al predicatore, Solo nell’aspetto questa gente sembra semplice e chiara. Perché non dovrebbero i miei versi essermi cari, o Iqbal, Questi sono le dolorose lamentazioni del mio cuore. 50.7. GHAZAL Non si deve vedere lo spettacolo con la pupilla dell’occhio, Se si vuole vedere Lui, è necessario usare l’occhio interiore. Il suo labbro che parla era messaggio di morte per Mansur, Come si può ora osare richiedere l’amore di un Qualcuno? Chiudi i tuoi occhi se vuoi avere il gusto di quella Vista, La vera Vista è di colui che non cerca di vedere Lui. Io sono l’Amore estremo, Tu sei la Bellezza estrema, Si dovrebbe vedere me o testimoniare il Tuo spettacolo. La sua Bellezza è una scusa per il crimine dell’Amore, Non c’è bisogno di un’altra scusa per il Giorno Ultimo. O Compagno, non si può chiudere quest’occhio zelante, In quale altro modo si potrebbe dunque testimoniarLo? Con quale pensiero insisté Kalim sul monte del Sinai? Si deve chiedere la Vista se si ha la forza di sostenerla. Persino il moto di un ciglio non è gradito alla Vista, Si dovrebbe vedere Te usando l’occhio del narciso. Si manifesteranno i piaceri del desiderio di Amore, Se si ha quel desiderio come l’ho io da alcuni giorni? 50.8. GHAZAL Che dire se ho un diniego in cambio di tanto Desiderio, La bellezza del mio bazar è pari al desiderio di perderlo. Sono il beone che diventa giardino per la luce del vino, L’amore della rosa è pari solo alla partenza del coppiere. La bellezza del giardino è nell’inizio delle mie melodie, Come l’irrequietezza dei tuoni giunge sino al mio nido. Sono quella manciata di polvere che muta per il dolore, Non chiedermi la quantità, va dalla terra fino al cielo. Sono il campanello, il lamento dorme nella mia natura, Il mio silenzio dura solo sino alla partenza della carovana. Con cuore tranquillo si creano i mezzi atti allo scopo, Perché il nodo del vortice è solo sino al flusso dell’acqua. Il silenzio è morte nel giardino dell’Amore, o usignuolo, Questa vita è solo sino al rispetto dell’abito del lamento. Nei giovani c’è lo zelo della Vista e il piacere del Desiderio, La felicità della casa dura solo sino alla presenza dell’ospite. Pur disgraziato come sono in tutto il mondo, o Ignoranza, Comprendo che il mio Amore è noto solo al mio confidente. 50.9. GHAZAL Colui che andavo cercando sulla terra e nel cielo, Sembrava abitare nei recessi del mio proprio cuore. Quando la realtà dell’io si manifestò ai miei occhi, La casa apparve tra gli inquilini del mio proprio cuore. Se fosse familiare con il gusto di strofinare le fronti, La pietra della Ka’ba si sarebbe unita alle loro fronti. O Majnun, ti sei mai guardato dentro te stesso, Che simile a Laila sei anche tu seduto sulla sella? I mesi dell’unione vanno volando via come momenti, Ma i momenti della separazione indugiano per mesi! O marinaio, come mi proteggerai dal cadere annegato Se i destinati a morire annegati annegano nelle barche? Chi ha nascosto la propria Bellezza a Kalim Allah L’amato stesso si manifesta tra quelli che sono amati. Il respiro dgli Amanti può accendere la candela spenta, O Dio! Che cosa si nasconde nel petto degli Amanti? Servi i faqir se tu hai il forte desiderio dell’Amore, Questa perla non si riesce a trovare nei tesori dei re. Non chiedere di questi Devoti se hai fede, guardali, Le loro palme sono illuminate fino alle maniche. L’occhio invisibile è allettato dal suo spettacolo, La bellezza della riunione è proprio in questi reclusi. Brucia quanto è nel tuo cuore con una scintilla sì che Il sole del Giorno Finale possa essere tra i tuoi coglitori. La ricerca dell’Amore per un cuore che può mortificarsi, Questo è il vino che non c’è nei delicati bicchieri di vino. La Bellezza stessa diviene l’Amante di quella Bellezza, O Cuore, chi tra i belli è in possesso di quella bellezza? Qualcuno si esalta tanto alla tua grazia di Ma’arafna, Il tuo rango è ora tra i più eleganti di tutti gli Amanti. ManifestaTi e mostra loro la Tua Bellezza talvolta, Se ne parla tra gli uomini sapienti da lungo tempo. Silente, o Cuore! non è bello gridare in un’assemblea, Il decoro è l’etichetta più grande tra i modi dell’Amore. Non è possibile per me considerare cattivi i miei critici, Perché, o Iqbal, io stesso faccio parte dei miei critici. 50.10. GHAZAL Il completamento del tuo Amore è ciò che desidero, Guarda alla mia sincerità, quanto poco io desidero. Che sia un’oppressione o una promessa di svelare, Qualcosa che provi la mia perseveranza, io desidero. Che gli uomini pii possano essere felici del Paradiso, Vedere il tuo proprio Aspetto, questo io desidero. Pur se sono un piccolo cuore, io sono coraggioso, Ascoltare lo stesso versetto lan tarani io desidero. O compagni di riunione, esisto per alcuni istanti, Sono la candela dell’alba, io sto per estinguermi. In tutta l’assemblea ho divulgato questo segreto, Molto insolente io sono, la punizione io desidero. 50.11. GHAZAL Quando il non-bisognoso apre la Sua Graziosa Mano, Non dovrebbe il bisognoso inorgoglirsi della sua umiltà? O predicatore, tu hai confinato Lui in un trono celeste, Quale specie di Dio si separerebbe dai suoi propri fedeli? O coppiere, secondo me egli non è affatto un intossicato, Chi potrebbe mai distinguere tra l’estasi e il non-estasi? Sempre molto attenta al cuore, questa orchestra è tale Che, se è interrotta, produrrebbe la musica del Segreto. Qualcuno si chiederebbe perché dia fastidio al predicatore, Se Iddio mostra la sua propria Grazia anche al peccatore. O Dio, da dove la poesia attinge il suo proprio calore? È una cosa con cui persino una pietra si ammorbidirebbe. I lai dell’usignuolo vengono dalla lotta tra tulipano e rosa, Nessuno al mondo dovrebbe aprire l’occhio del contrasto. Al predicatore l’arroganza della pietà ha proprio insegnato Ad usare un linguaggio non consono con il popolo di Dio. Un simile vento dovrebbe spirare dall’India, o Iqbal, In grado di soffiarmi via come polvere verso il Hijaz. 50.12. GHAZAL Mi preoccupo delle mie difficoltà, non di quelle altrui. Ahimè, che strano, sono l’oppressore, sono l’ignorante. Esistevo solo finché non apparve il Tuo splendore, Sono la falsità che è stata annientata dalla Verità. Dal mare della conoscenza alcuni uscirono con perle, Ahimè, o privazione, sono solo un coglitore di ciottoli. La mia disgrazia è una dimostrazione della mia nobiltà, Sono la negligenza che gli angeli desiderano con ardore. O riunione dell’esistenza, non inorgoglirti della bellezza, Sei solo un quadro della riunione, io sono la riunione. O Iqbal, io sono alla costante ricerca di me stesso, Io sono il viaggiatore e la destinazione al tempo stesso. 50.13. GHAZAL Majnun ha lasciato il villaggio, tu dovresti lasciare la selva, Se ambisci a vedere la Vista, dovresti lasciare anche Laila. O predicatore, la perfezione dell’abbandono riguarda l’oggetto, Come hai lasciato questo mondo, lascia anche il mondo di là. Il suicidio è meglio della via che viene falsamente seguita, Segui il tuo sentiero e abbandona anche l’amore di Khizr. Come la penna, sulla lingua c’è un messaggio non- islamico. Lascia anche l’orgoglio ingiustificato per cose non- islamiche. La teologia non è un piacere se il cuore non ha pathos d’amore, Se non sei il Ferito, dovresti anche lasciare la tua palpitazione. Piangi come la rugiada sui fiori e abbandona questo giardino, Abbandona anche il desiderio di rimanere in questo giardino. L’abitudine dell’amore è l’abbandono di una qualunque cosa, Abbandona anche il tempio, e la moschea, e la chiesa anche. Questo non è un commercio, si tratta di obbedienza a Dio! O ignorante, abbandona anche il desiderio di una ricompensa. È cosa bella e buona custodire l’Intuizione con l’Intelletto, Ma qualche volta tu dovresti anche abbandonarli per sempre. Che vita è mai quella che vive nella dipendenza degli altri? Abbandona anche la dipendenza dalla vita della gloria. La richiesta che è ripetuta è una sorta di audacia, o Kalim, La condizione per l’approvazione è abbandonare l’insistenza. Poiché il predicatore ha dato prova di essere a favore del vino, Iqbal insiste affinché quegli abbandoni anche l’uso del bere. SECONDA PARTE (dal 1905 al 1908) 51. AMORE I riccioli della sposa della notte erano ancora spettinati, Le stelle nel cielo non conoscevano ancora il movimento. La luna nel suo nuovo abbigliamento appariva strana, Non conosceva ancora le leggi stabilite della rotazione. La terra era appena appena uscita dagli oscuri recessi, Il gusto della vita era ancora celato nell’immenso spazio. La perfezione dell’ordine dell’esistenza era agli inizi, Il desiderio per la perla traspariva dall’occhio dell’anello. Si dice vi fosse un qualche alchimista nel mondo spirituale, La polvere dei suoi piedi era più chiara della coppa di Jam. L’elisir della filosofia era scritto sulla gamba del trono, Nascosto gelosamente agli occhi di Adamo dagli angeli. Ma l’attenzione dell’alchimista era sempre ad essa rivolta, La considerava più grande di uno degli attributi di Allah. Si avvicinò sino al trono con il pretesto di prostrarsi a lui, Alfine l’intimo desiderio fu raggiunto con costante sforzo. Vagava l’uomo nel mondo alla ricerca dei suoi componenti, Nulla poteva esser nascosto al conoscitore dell’universo. Prese la lucentezza dalla stella, la macchia dalla luna, Rubò un po’ di oscurità dai capelli spettinati della notte. Ottenne l’irrequietezza dal tuono, la castità dalle huri, Ottenne il calore dal respiro di Gesù, figlio di Maria. Prese un po’ di grandezza dalla potenza e volere di Dio, L’umiltà dall’angelo, l’umiltà dal destino della rugiada. Sciolse questi componenti in acqua della fonte della vita, L’empireo diede a questo composto il nome di Amore. L’alchimista spruzzò quest’acqua sulla vita da poco creata, Con la sua abilità sciolse il nodo dei segreti del mondo. Apparve il movimento, tutti gli elementi si ridestarono, Ognuno risvegliandosi abbracciò il proprio compagno. I soli e le stelle impararono a muoversi con eleganza, I bocciuoli impararono a fiorire, i papaveri a sbocciare. 52. L’ESSENZA DELLA BELLEZZA La Bellezza pose un giorno a Dio questa domanda: “Perché non mi hai fatto eterna in questo mondo?” La risposta fu: “Questo mondo è una galleria di quadri, Questo mondo è un racconto della lunga notte del nulla. Il colore della mutevolezza è la sua propria prerogativa, Solo ciò che è bello e vero è destinato a corrompersi”. La luna, che era lì vicino, aveva udito questo discorso; Diventato noto nel cielo, l’udì anche la stella del mattino. Il mattino l’udì dalla stella e lo raccontò alla rugiada, Questa riferì al confidente della terra le parole del cielo. Al messaggio della rugiada si riempì di lacrime il fiore, E di sangue, per il dolore, il tenero cuore del bocciuolo. Dal giardino, piangendo lacrime, se ne andò la primavera, Era giunta la giovinezza, anch’ella se ne andò in lacrime. 53. IL MESSAGGIO L’amore ti ha fatto conoscere il gusto dell’afflizione Come la candela dà il dono dell’afflizione alla riunione. L’amore che illumina dipende dalla benevolenza di Dio, Che lo dà a chiunque senza legame di tempio o moschea. Come la candela egli non possiede il mantello della luce, Al quale Dio non dà nel mondo una vera lamentazione. È nella stella, nella luna, nella mostra del teatro dell’alba, Non c’è bisogno di dare all’occhio il collirio discriminante. L’amore si alza sugli usi e abitudini di coloro che pregano, Se la Bellezza ha eleganza, da’ anche tu una bella risposta. O taverniere, il piacere è il solo effetto del vino dell’ovest, Non ha il piacere dell’afflizione, dammi il vino fatto qui. Non lo sai? La vecchia congregazione è cambiata tutta, Per amor di Dio, non dar loro il vino del materialismo. 54. SWAM RAM TIRATH O goccia impaziente, tu sei nel grembo del mare, Eri prima una perla, ed ora sei una perla preziosa. Oh, come aprivi tu con grazia i segreti della vita, Io sono prigioniero delle discriminazioni della vita. Il clamore della vita in rovina è quello del dì finale, La scintilla spentasi è il tempio del fuoco di Azar. La negazione dell’esistenza è amore d’un cuore vero, Nel fiume del La si nasconde la perla dell’Illa’llah. Il significato della fine si cela all’occhio che non vede. Il mercurio è solo argento grezzo quando cessa il moto. L’amore di Abramo distrugge l’idolo dell’esistenza, L’estasi del Tasnim dell’amore è la cura consapevole. 55. AGLI STUDENTI DEL “COLLEGE” DI ‘ALIGARH Differente è il messaggio altrui, differente è il mio messaggio, Diverso è lo stile del messaggio di colui che è preso d’amore. Avete udito i lamenti dell’uccello sul tetto preso nella rete, Ascoltate anche i lamenti differenti dell’uccello sul tetto. Il richiamo veniva dal monte: “Il segreto della vita è la pace”. La debole formica diceva:”Differente è il piacere della lotta”. La gloria della riunione del Hijaz è nell’amore dell’haram, Differente è la stazione di questa, diverso è il sistema di quello. L’eterno lusso è morte se non esiste il desiderio della ricerca, Differente è il moto dell’uomo, differente è il moto della coppa. La candela dell’alba annuncia che il segreto della vita è ardore, Diversa è nella casa dolente della vita la condizione all’eterno. Il vino è ancora immaturo, l’amore è senza successo ancora, Lasciate il mattone della chiesa sull’orlo della brocca ancora. 56. LA STELLA DEL MATTINO La stella del mattino piangendo andava dicendo: “Possiedo l’occhio ma non il piacere della vista. Ogni cosa è nata alla vita dall’energia del sole, Solo io non ho protezione nella veste del mattino. Dopo tutto, qual è l’abilità della stella del mattino? È come il respiro di una bolla, la luce d’una scintilla”. Io dissi: “O prezioso gioiello della fronte dell’alba, Hai forse paura della morte? Scendi allora dal cielo. Vieni giù con la rugiada dalle sommità del cielo, Il giardino della mia poesia ti darà nuovo vigore. Io sono il giardiniere, l’amore ne è il bocciuolo, Le sue basi sono solide proprio come l’eternità”. 57. BELLEZZA E AMORE Proprio come la barca argentea affonda Nella tempesta della luce solare all’alba. Proprio come il loto lunare scompare, Dietro il velo della luce nella notte lunare. Come la mano di Kalim nella luce del Sinai, Come il bocciuolo nell’onda della brezza. Simile è il mio cuore nel flusso del Tuo amore. Se Tu sei l’assemblea, io ne sono la luce. Se Tu sei il tuono, io ne sono l’amore. Se sei l’alba, le mie lacrime ne sono la rugiada, Se io sono la notte, Tu sei il mio crepuscolo. Il mio cuore custodisce i Tuoi riccioli spettinati, La mia stupefazione viene creata dal Tuo quadro. La Tua Bellezza è perfetta, il mio Amore perfetto. Sei brezza primaverile per il giardino della poesia, Tu dai serenità alla mia immaginazione inquieta. Da quando il Tuo Amore abita dentro il mio petto, Nuove luci si sono anche aggiunte al mio specchio. La Bellezza rende perfetta la natura dell’amore, Gli alberi della mia speranza fioriscono per Te, La mia carovana ha raggiunto la sua destinazione. 58. GUARDANDO UN GATTINO IN GREMBO A ... Chi ti ha insegnato a guardare con ritrosia? Chi ti ha insegnato l’indovinello dell’Amore? L’amore proviene da ogni tua grazia, La vivacità nasce dai tuoi sguardi blu. Tu lo vedi talvolta, tu fai la ritrosa talvolta, Sorgi, ti distendi e ti addormenti talvolta. È il tuo occhio stupefatto come lo specchio? Ti si riconosce dal fulgore della conoscenza? Lo colpisci con i polsi, è uno strano giocare! È odio o ira? o è una maniera dell’Amore? Sarai cacciato dal grembo se farai i capricci, Sarai picchiato se farai cadere il fiore dal petto. Che cosa desideri? Di che cosa vai in cerca? Ah! Sei anche innamorato della stessa cosa? Il sentimento del Bello non è solo dell’uomo, Simile al cuore è questo presente in ogni cosa. Nel fiasco del tempo l’Amore è come vino puro, L’Amore è spirito del sole e sangue nella luna. Il suo dolore si cela nel nucleo di ogni particella, È questa la luce che si riflette in tutte le cose. Causa felicità qui, e dolore lì in qualche dove, È perla qui, e lacrima e rugiada in qualche dove. 59. IL BOCCIUOLO Quando l’alba discopre la sua bella guancia, Il bocciuolo discopre il suo petto d’oro. Si fa manifesto nella taverna dell’alba, La sua vita è racchiusa nella coppa del sole. Disvela il suo cuore d’innanzi al sole, Gode immensamente dell’angoscia d’amore. Mio sole! Dovresti talvolta svelarti anche tu, Il mio occhio è impaziente di vedere la tua vista. Possa essere nel mio cuore la casa della tua vista, Possa fiorire il tuo riflesso nello specchio del petto. Possa la tua vista diventare vita per il mio cuore, Possa la tua luce essere la culla del mio cuore. Possa ogni mia particella essere piena di piacere, Possa il calore della vita apparire nei miei pensieri. Possa io vedere la vista del mio sole da lontano, Possa io abbracciare la sua luce come un bocciuolo. Possa io lumeggiare la realtà della vita senza riposo, Possa io aprire il segreto dei pensieri del mio cuore. 60. LA LUNA E LE STELLE Spaventate dall’avvicinarsi dell’alba, Le stelle si rivolsero alla luna dicendo: ”Sopra di noi c’è quella scena del cielo, Siamo stanche di continuare a brillare, Il nostro compito è andare mattina e sera, Muoversi, muoversi, sempre muoversi. Ogni cosa in questo mondo è impaziente, Ciò che è noto come riposo non esiste. Tutti noi siamo costretti a muoverci, Stelle, uomini, alberi, pietre, e tutto. Finirà mai un giorno questo viaggio? Arriverà un giorno una destinazione?” La luna prese a dire: ”O mie compagne, o voi simili a spighe nel campo della notte! La vita del mondo è tutta nel movimento, Questo è il vecchio ordine di questo luogo. Scorre veloce il grigio destriero del tempo, Divorato dalla frusta del desiderio di ricerca. Su quel sentiero non è possibile fare sosta, Nascosta nel mantello del riposo è la morte. Coloro che andavano, se ne sono andati via! Coloro che indugiavano furono calpestati! La ricompensa di questo andare è la bellezza, L’origine è l’amore, la fine è la bellezza. 61 L’UNIONE O usignuolo! la rosa per la quale mi sono agitato, Con buona fortuna quella rosa ho alla fine trovato. Mi sono agitato io stesso, ho messo altri in ansia, Mi son sentito timido quando ho udito il tuo canto. Nel mio petto non c’era un cuore, c’era mercurio. Impaziente ero di esaudire il mio desiderio di Amore. Famosa era la mia disgrazia nell’assemblea della rosa, Il mio mattino era il riflesso della mia notte oscura. Nel mio petto con il respiro ho un coltello insanguinato, Sotto il mantello del silenzio ho il grido del Dì ultimo. Ora che angoscia non c’è nel mondo dei miei pensieri, Il recitare i miei ghazal non irrita l’assemblea del roseto. Con il calore dell’Amore le mie piaghe sono ora fiamme Le mie lamentazioni sono tutto un giocare con i tuoni. Il rossetto dell’Amore ha mutato questa polvere in specchio. E nello specchio vedo il riflesso del mio antico compagno. Diventando un prigioniero ho ottenuta invero la mia libertà, Impegnando il cuore ho ottenuto prosperità per la mia casa. La mia stella continua a brillare con la luce di questo sole, La cui luce lunare arrossisce per la polvere del sentiero. Con uno sguardo mi hai insegnato i modi dell’annullamento, Com’è freddo il giorno che ne ha portato via da me i granelli. 62. SULAIMA Colui che si manifesta nell’occhio dell’astronomo, Nel sole, nella luna, nell’assemblea delle stelle. Che il sufi trovò negli oscuri recessi del suo cuore, Che il poeta vide nel mezzo dell’eleganza della natura. Il cui splendore esiste, la cui fragranza persiste, Nella perla della rugiada, nelle camicie dei fiori. Che ha abitato nella selva rendendola tranquilla, La cui presenza crea rumore nel mezzo del giardino. Sebbene la Sua bellezza si manifesti in ogni cosa, Nel tuo occhio raggiunge l’apice, o Sulaima! 63. L’AMANTE INCOSTANTE 1 O Iqbal! sei una strana mescolanza di opposti elementi, Sei l’eleganza della folla dell’assemblea e sei anche solo. O lunatico dal canto colorito! Le tue lotte e i tuoi sforzi Sono la bellezza del giardino e il gioiello della solitudine. Sei il compagno delle stelle per la tua eleganza del volo, O viaggiatore, i tuoi passi attraversano anche il cielo. La tua fronte si prostra nel mezzo dell’affanno per il vino, Nel tuo sistema ci sono anche i colori delle coppe per bere. Simile alla fragranza del fiore sei privo dell’abito del colore; Sebbene tu sia il creatore della saggezza, sei anche lunatico. Come le onde corri verso la destinazione senza lasciare orme, E poi vieni anche lasciato indietro come la spiaggia del mare. La bellezza femminile ha sulla tua natura un effetto elettrico, E cosa molto strana anche i tuoi amori non sono convenzionali. La tua esistenza dipende molto dalla legge del divertimento, Ti vai prostrando solo sul gradino di una sola singola porta? Tra quelli considerati belli tu sei famoso per essere infedele, O dalla mente volubile, sei noto anche per essere malfamato. Sei arrivato in questo mondo con la natura del mercurio, Amabile è la tua irrequietezza, tu sei invero molto irrequieto. 2 Ciò che il disturbo dell’amore ha tramutato in solitudine, Io ho nascosto quella manciata di polvere sotto il mantello. Ha migliaia di sfaccettature, ognuna di un diverso colore, Serbo nel mio petto un diamante dalle molte sfaccettature. Il cuore del poeta non è che pesante fatica e intossicante, Che ne sai di tutto quanto io nascondo nel mio petto? In ogni intossicazione d’amore c’è fulgore di desiderio, Sono irrequieto, ho un cuore non abituato alla pace. Ogni momento una nuova bellezza è l’oggetto della vista, Pure sono legato da un patto di fedeltà con la bellezza. Iddio ha creato in me una natura di “bisognoso”; Come lo zefiro vado lottando per il desiderio di Lui. Lo spettacolo della scintilla in cerca della propria causa Non può essere lenito ché ho in me un cuore in tumulto. Possa ogni richiesta di natura d’amore essere esaudita, Ah! il raggiungimento di quel fulgore è il mio scopo. Vado alla ricerca del Tutto ma mi svio verso le Sue parti, Senza confini è la Bellezza, ho un pathos incurabile. La mia vita dipende dall’estrema compassione dell’Amore, Ma mantengo il mio Amore libero dall’abito della fedeltà. La verità è che la mancanza d’immaginazione causa fedeltà, Nel mio cuore ho sempre fresco il giorno della resurrezione. La generosità del coppiere è rugiada, il cuore chiede oceani, Io sono assetato, ho il fuoco che brucia sotto i miei piedi. Nel creare me, il Creatore ha creato il Suo proprio critico, Come un quadro io lancio lamentazioni contro il mio Pittore. Se la Bellezza è così breve nell’assemblea dell’esistenza, Perché sono dotato di un’immaginazione senza confini? Sono in continua perenne lotta nella vastità del Desiderio, Sono l’onda dell’oceano, porto sulle spalle la mia distruzione. 64. UN TENTATIVO FALLITO L’alba è rimasta addolorata per la separazione dal sole, L’occhio del crepuscolo sanguina per la stella della sera. L’amante del giorno si strugge per l’amata della notte, La stella del mattino è senza pace per il perpetuo fulgore. La stella polare andava dicendo alla carovana delle stelle “Compagne, io mi delizio per il piacere di camminare”. Le primavere desiderano i fiumi, i fiumi amano l’oceano, L’onda dell’oceano si è innamorata della luna piena. L’eterna bellezza che si nasconde nei tulipani e nelle rose È vista come irrequietudine nel manifestarsi generale. Chiedi a Khizr dei passi benedetti per il segreto della vita Qualunque cosa vive per un tentativo che non ha successo. 65. CANTO DI DOLORE La mia vita somiglia a quella di un violino silente, Che ha nel suo grembo qualunque genere di melodie. L’arpa dell’universo si sacrifica nel suo silenzio, Ogni sua corda è la tomba di centinaia di melodie. Il suo silenzio è custode della perfezione della musica, Ma quel silenzio non è debitore di alcun rumore. Ah! non è mai stata esaudita la mia speranza d’Amore, Questo strumento non è mai stato toccato da un plettro. Spira talvolta il vento dello zefiro dal giardino del Sinai, Spira di quando in quando dal cielo la brezza dell’Huri. Tutti pizzicano con leggerezza la corda della mia vita E liberano tutta l’anima imprigionata della mia vita. Si innalza il lieve suono della musica della disperazione, Si innalza il richiamo tinnulo per la carovana di lacrime. Come l’eleganza della rugiada dipende dal gusto di correre, La bellezza della mia natura dipende dai canti del dolore! 66. GIOIA DI BREVE DURATA Non dirmi: “La morte è un messaggio di gioia e piacere”. Non dipingermi il quadro dell’estasi del vino di Tuhur. Non essere addolorato per la separazione dalle Huri, Non presentare le Huri nello specchio delle parole. Non far sì ch’io sia affascinato dal bellissimo coppiere, Non descrivermi le Huri, non dirmi la storia di Salsabil. Non dubito che il Paradiso sia davvero un luogo di pace, Il tuo messaggio non è adatto per la giovinezza della vita. Per quanto a lungo indugierà la gioventù nella speranza! La gioia non è gioia se tu devi restartene in sua attesa. A che vale la bellezza che ha bisogno di un occhio sagace, Che è obbligata al domani per poter manifestare sé stessa? Strano è questo sentimento e questa senzazione della vita, La gioia dell’oggi è il credo e il simbolo della gioventù. 67. L’UOMO Che meravigliosa tirannia della natura è! L’uomo è stato fatto per cercare il Segreto, Ai suoi occhi è stato nascosto il Segreto. Senza pace è il gusto della consapevolezza, Non svelato è per lui il segreto della vita. Stupefacente è l’inizio e la fine della vita! Che altro c’è nella casa dello specchio? Veloce si muove la corrente del fiume, Verso l’oceano si muove veloce il fiume. Il vento va sospingendo la nuvola, Sulle sue spalle va portando la nuvola. Le stelle s’intossicano con il vino del destino, Nella prigione del cielo sono incatenate. Il sole, quel fedele che si alza così presto, Quel messaggero del nascere del giorno, Nascosto sotto le colline dell’occidente, Beve vino nella coppa del crepuscolo. Ogni cosa gode della propria esistenza, È intossicata dal vino del manifestarsi. Nessuno mostra comprensione per l’uomo! Com’è amara l’esistenza dell’uomo! 68. LA MANIFESTAZIONE DELLA BELLEZZA La manifestazione della bellezza agita il Desiderio, Che la gioventù nutre nel grembo della sua fantasia. Che fa diventare eterno quest’effimero universo, Che fa diventare la gioventù un colorito racconto. Che ci spinge di continuo a questa meditazione, Che ci fa sfuggire alla scena dello stato presente. Che elimina qualunque immaturità delle sensazioni, Che fa dell’intelletto uno schiavo delle impressioni. Ah! esiste o no quella Bellezza in qualche dove? O Dio! esiste quel gioiello nell’anello dell’universo? 69. UNA SERA (Lungo la riva del Neckar ad Heidelberg) Silente davvero è la luce lunare, Silenti sono i rami degli alberi, Silenti i musicanti della valle, Silenti le verdi creature dei monti. La natura tutta tutta inebriata Riposa nel grembo della notte. Tale è l’incanto di questo silenzio Che persino il Neckar s’è fermato. Silente è la carovana delle stelle, Una carovana senza le campanelle. Silenti le colline, il fiume e la valle: La natura s’è persa in contemplazione. Oh, mio cuore! anche tu troppo silente, Soffoca il dolore nel tuo seno e dormi. 70. SOLITUDINE Che dolore hai nella solitudine della notte? Non sono le stelle le tue strette compagne? Quest’elegante dignità del cielo silente, Questa terra silente, questo mondo silente. Questa luna, questa vastità, questa collina. La natura è un giardino pieno di rose bianche. Perle colorate, belle e dai colori variegati Sembra che siano le stelle delle tue lacrime. Che agogni con desiderio, o mio cuore! La natura è concorde con te, o mio cuore! 71. MESSAGGIO D’AMORE Ascolta, tu che cerchi il dolore! Sono l’amante, tu sei l’amata Io sono il Ghaznevide di Somnath, tu dovresti essere un Ayyaz. Nel mondo la grandezza non è legata allo splendore di Alessandro, Nel tuo petto c’è tutto, tu pure dovresti essere il creatore di specchi. Scopo della lotta nella vita è perfezionare la grandezza dell’Islam, Tu sei il vecchio divino dovere del mondo da compiere pregando. Non essere soddisfatto, o giardiniere, solo così esiste la tua dignità, Se tanti sono i fiori nel giardino, dovresti divenire un mendicante. Passati sono quei giorni, non sono questi i tempi per andar vagando, Simile alla candela nella riunione tu dovresti avvolgerti nel mondo. L’esistenza dell’individuo è irreale, quella della nazione è reale, Sii devoto alla nazione, diventa il distruttore del magico irreale. Iqbal, questi settari dell’India lavorano proprio come un Azar, Salvandoti dall’idolatria, diventa polvere sulla strada del Hijaz. 72. SEPARAZIONE Vado invero alla ricerca di un angolo solitario, Ho trovato un rifugio a fianco di una montagna. Bello è il richiamo delle sorgenti nel loro canto, Come la supplica del bimbo che impara a parlare. Le stelle serali sono assise sui rubini del crepuscolo, Lo spettacolo della bellezza è paradiso per l’occhio. Per me era una scusa il silenzio della separazione, A me un ricordo ha insegnato a cantare quest’ode. Questa è la condizione della mia anima impaziente, Sono come quel bimbo che è stato lasciato solo. Nell’oscurità della notte egli dà inizio alla musica, Considera la propria voce come quella di un altro. Così do al mio cuore un messaggio di pazienza, In altre parole inganno la notte della separazione. 73. AD ‘ABD AL-QADIR Sorgi, ché l’oscurità è apparsa all’orizzonte dell’Oriente, Con canti che infiammano va illuminata quest’assemblea. Noi non sappiamo che lamentarci come fa la ruta selvatica, Dovremmo capovolgere l’assemblea con lo stesso tumulto. All’assemblea dovremmo mostrare l’effetto dell’amore, La pietra d’oggi dovremmo mutare in specchio del domani. Mostrando ai giovani il fulgore del perduto Giuseppe, Convertiamoli in agitatori più del sangue di Zuleikha. Diamo al giardino la lezione della legge della crescita E trasformiamo l’umile goccia di rugiada in un oceano. Solleviamo i nostri cari averi dal tempio della Cina Affasciniamo tutti con il volto di Sa’di e di Sulaima. Guarda! A Yathrib la cammella di Laila non fu utile, Facciamo conoscere a Qais questo nuovo desiderio. Il vino dovrebbe essere maturo e caldo al punto da Lenire il cuore del vetro, della coppa, e del coppiere. Il dolore che ci tenne caldi nel freddo dell’occidente Squarciandoci il petto dovremmo rendere pubblico. Viviamo nell’assemblea del mondo come la candela, Riscaldiamoci e apriamo gli occhi degli antagonisti. “La candela rivela tutto ciò che passa per il cuore, Non brucia quel pensiero che la candela nasconde”. 74. SICILIA Piangi, o cuore, o occhio bagnato di sangue! Di lontano t’appare la tomba della civiltà araba! Qui un tempo una folla di abitatori del deserto, Qui solcavano un tempo le loro imbarcazioni. Terremoti nei troni di imperatori hanno portato, Nelle loro spade si nascondevano nidi di lampi. Messaggio d’un nuovo mondo fu il loro apparire, I tempi vecchi le loro spade distrussero impazienti. Al grido “risorgi” di nuovo vivo fu un mondo morto, Dalle catene della superstizione l’uomo fu liberato. C’è ancora un orecchio che apprezzi il loro grido? Tacerà ora per sempre il grido di ”Iddio è grande” ? Ah! O Sicilia! tu che sei l’onore e il vanto del mare, Come una guida e custode tu rimani nel vasto pelago. Possa la guancia dell’acqua essere per sempre riparo, Possa la tua immagine essere di conforto al viandante. Possa la tua vista rimanere nell’occhio del viaggiatore E l’onda danzare per sempre sulle rocce delle tue coste. Tu fosti un tempo la culla della civiltà di quel popolo, Di spettacolo fu un tempo la tua universale bellezza. Gemiti versò l’usignuolo di Shiraz su Baghdad che fu, Quante lacrime di sangue versò Dagh su Jahanabad. E al tempo in cui il cielo distrusse la potenza di Granada Il cuore infelice di un Ibn Badrun scoppiò in singhiozzi. L’addolorato Iqbal porta ora con sé tutto il tuo lutto, Quel cuore che fu tuo compagno ha scelto il destino. Nelle tue rovine di chi è rimasta nascosta la storia? Nel silenzio delle tue coste c’è una storia senza eco. Dimmi tutto il tuo dolore, io pure sono tutto dolore, Di quelli cui tu desti asilo io sono polvere d’anima. Nell’antico quadro nuovo colore, mostrati com’eri. Di antichi tempi dimmi le storie e fammi tremare. Come dono le porterò con me verso la terra d’India. Io qui sono in pianto, ma altri laggiù farò piangere. 75.1. GHAZAL Nulla più che un respiro è la vita dell’uomo. Il respiro un’onda d’aria, non più che un flusso. Il fiore descrive la vita come un sorriso, ma Per la candela non è più che un grido di dolore. Il segreto della vita è un segreto finché lo si scopre, Una volta aperto, non c’è altro che chi vi confidava. O Iqbal, ai pellegrini della Ka’ba dovresti chiedere Se il dono dell’Haram sia null’altro che Zamzam. 75.2. GHAZAL O Dio! insegna un po’ di amore al mio intelletto, Che ama il bel cucito ma la camicia non ha colletto. Preso d’ardore d’amore, gli angeli dissero nell’azal: “Sei come la candela della tomba, non hai riunione.” Non hai amici qui, questa terra non ti è amica, o cuore! Tu vuoi da me ciò che non esiste sotto la volta celeste. L’architetto arabo l’ha costruito separato dal mondo, Le basi della nostra nazione non sono unità geografiche. Perché questo andare? quest’idea di futuro è orgoglio, Noi ci manifestiamo in ogni cosa, non abbiamo patria. Qualcuno porti il messaggio al direttore di “Makhzan” Le nazioni attive non hanno predilezione per la poesia! 75.3. GHAZAL Il mondo saprà quando la conversazione verrà fuori dal cuore, Non è il mio silenzio, ma l’altare della parola del mio desiderio. L’onda dell’oceano disse: ”La mia dignità sta nello scorrere”. La perla disse:”Stare nella conchiglia è sicurezza del mio brillio”. Il temperamento di chi non merita non migliora con la pratica. Il riflesso del cipresso lungo la riva non migliora stando in acqua. Non ho mai visto un cuore nel quale non sia racchiuso il desiderio, O Dio! Che cos’è il Tuo universo! È una pinacoteca del desiderio. Fu manifesto dopo la morte che la vita era un periodo di brama, Ciò che chiamavamo corpo non era che la polvere del desiderio. Perché sono io l’incarnazione della ricerca se nulla è nascosto? La vista è desiderio di spettacolo, il cuore va pazzo per la ricerca. Il bocciuolo chiese al giardiniere:”Perché l’uomo è senza cuore?” La coppa di vino che si rompe è causa di sorriso nei tuoi occhi. La luce dell’amore esce da ogni atomo del giardino dell’esistenza. Se conosci la realtà della rosa, è un insieme di colore e fragranza. I miei scritti sono anacronistici, la mia poesia è così imperfetta. Se qualcuno vede in me delle abilità, è solo colpa del mio critico. Il decoro chiede silenzio, ché la Tua pietà è peggio della tirannia, Tu mi hai dato un piccolo cuore, che si travia per il desiderio. La perfezione dell’unità è tale che se la tagliassi con un coltello Vedresti di sicuro il sangue umano uscire dalla vena della rosa. Passata è l’età dell’imitazione, l’allegorismo dovrebbe finire! Quando la Verità si manifesta chiara, chi è autorizzato a parlare? Se sono lontano da casa, i miei parenti non dovrebbero esser tristi, Come perla separata dalla patria io vado perfezionando me stesso. 75.4. GHAZAL Il Tuo splendore si manifesta nel tuono, nel fuoco, nella scintilla. Il Tuo fulgore si manifesta chiaro nella luna, nel sole, nella stella. La Tua eleganza è nelle altezze dei cieli e negli abissi della terra, È nel flusso dell’oceano e nella sua ricaduta dietro la spiaggia. Perché dovrebbe la shari’ah accusare il piacere dell’eloquenza? Io nascondo il significato del mio cuore solo nelle metafore. La vera vita dell’uomo si diffonde ovunque e in tutte le cose, È nell’albero, nel fiore, nell’animale, nella pietra, nella stella. Il calore della goccia della lacrima d’amore mi ha consunto, In questa piccola goccia d’acqua c’era un fuoco sconfinato. Non c’è in me desiderio di ricompensa nel giorno del giudizio, Io sono il mercante che vede un suo guadagno nella perdita. La vera esistenza è non essere consapevoli della tranquillità, Oh Dio! L’irrequietezza del cuore ha residenza nel mercurio. O Iqbal, io sono silente dopo aver udito il grido lan tarani. Afflitto dalla separazione non ho forza alcuna per insistere. 75.5. GHAZAL O riunione del mondo! Se le tue riunioni attirano Nei tuoi spettacoli c’è un qualcosa di malinconico. Infine quella polvere ha trovato conforto nell’amore Che andava vagando nelle plaghe dell’intelletto. O vino! ti piaceva invero l’abitudine alla segretezza. Uscendo dal velo dell’uva ti nascondevi nella caraffa. La ragione non comprendeva l’effetto della bellezza, Quanta ignoranza c’era in tutti i saggi del mondo! O Iqbal, ho cercato dappertutto in Europa, in vano, La caratteristica che era tipica delle bellezze d’India. 75.6. GHAZAL Circola la coppa del vino come il riflesso del vino, Da mattina a sera andiamo recitando le preghiere. Non sei in questo un individuo speciale, o Kalim. Anche gli alberi e le pietre dialogano con Dio. O candela! cercati un nuovo mondo perché qui Soffriamo le tante tirannie di un amore incompleto. O compagni! Soave è il silenzio in questo giardino, Poiché le melodie sono qui tarpate nelle gabbie. Quelli la cui intenzione finale è il piacere del vino Tramutano ciò che è permesso in ciò che è illecito. O predicatore! come possiamo tu e noi riconciliarci? Se consideriamo universale il costume dell’amore. O Dio! quale magia si cela nei santi vestiti di stracci Se riescono a sottomettere i giovani con uno sguardo! Io rabbrividisco al piacere delle loro assemblee Che diventano famose distruggendo le loro case. Possano fiorire per sempre i prati della madrepatria! Vi mandiamo un saluto dalla nave che salpa via. O Iqbal, quelli non usi alla preghiera congregazionale Mi richiamano dal tempio e mi fanno loro imam. 75.7. GHAZAL. MARZO 1907 È il tempo della chiarezza, comune sarà la vista dell’amato, Svelato è ora quel segreto che è stato nascosto nel silenzio. O coppiere! passato è il tempo del vino bevuto nel segreto, Il mondo intero diverrà una taverna, ognuno vi potrà bere. Coloro che vagavano come pazzi, torneranno alle loro case, Gli amanti vagheranno ancora ma i deserti saranno nuovi. All’orecchio in attesa è giunto alfine il silenzio del Hijaz, Riconfermati saranno i patti con gli abitanti del deserto, Usciti dal deserto distrussero un tempo l’impero romano. Dagli angeli ho udito dire che il leone stesso si risveglierà. Che ha detto di me il coppiere nella riunione dei bevitori? Il saggio taverniere ha detto: “È un insolente, soffrirà”. O abitanti dell’ovest! La terra di Dio non è un negozio, L’oro che considerate puro non è che un vile metallo. La vostra civiltà si suiciderà con la sua stessa spada, Il nido costruito su di un ramo fragile non potrà durare. La carovana delle formiche farà una barca di petali di rosa. Nel tumulto delle alte onde riuscirà a traversare l’oceano. Vagando nel giardino il fiore mostra al bocciuolo il posto, Sapendo di essere annoverato tra gli amanti con il gesto. O vista! Egli era Colui che tu ci mostrasti come i tanti, Se questa è la tua condizione, quale sarà la tua credibilità? Un giorno dissi alla tortora che i liberi vivono di polvere! Il bocciuolo disse che devo conoscere i segreti del giardino! Ci sono migliaia di amanti di Dio che vagano nei deserti, Io adorerò colui che diventerà l’amante del popolo di Dio. Questo è l’uso del mondo. O cuore! ammiccare è peccato. Quale sarà il nostro rispetto se rimarrai qui senza pace? Nel buio della notte condurrò la mia carovana affaticata, Scintille spargerà il mio sospiro, fiamme il mio respiro. Se nello scopo della tua vita non c’è altro che ostentazione, Il mondo ti distruggerà in un attimo come una scintilla. Non chiedere a Iqbal come egli si senta, è nel solito stato, Seduto in qualche dove lungo la via attende l’oppressione! PARTE TERZA (dal 1908 ... ) 76. CITTÀ DELL’ISLAM Il mio cuore afflitto adora la regione di Delhi, In ogni granello riposa il sangue degli antenati. Non dovrebbe essere sacra la terra abbandonata? Questa regione è l’ara della grandezza dell’Islam. Laggiù dormono i re della nazione musulmana, Sotto il cui dominio rimase l’ordine del mondo. Il ricordo del calore della riunione non dà pace, Svanito lo splendore, resta il ricordo dello splendore. Se Jahanabad è per i musulmani anche un santuario, A Baghdad pure il merito di questo riconoscimento. Era questo il giardino, che diventava pieno di orgoglio Per il tulipano del deserto nomato la cultura del Hijaz. Simile al paradiso dovrebbe essere la sua polvere, Testimone delle impronte dei successori del Profeta. I bocciuoli dei fiori che erano la ricchezza del giardino Sono la tomba di coloro che hanno fatto tremare Roma. La terra di Spagna è la luce dell’occhio dei musulmani Che illuminò il buio dell’Europa come candela del Sinai. Spenta questa lampada, dispersa l’assemblea dell’Islam, Si è accesa la lampada della civiltà materialistica di oggi. Questa regione sacra è anche la tomba di quella civiltà Che ha infuso il sangue della vita nelle vene dell’Europa. La terra di Costantinopoli, vale a dire la città di Cesare, Stendardo eterno della grandezza della nazione del Mahdi. Come la polvere dell’haram anche questa regione è sacra, Costituisce questa l’altare dei discendenti del Profeta. La sua brezza è sacra simile alla fragranza della rosa, Una voce ci richiama dalla tomba di Ayyub Ansari. O musulmano, questa città è il cuore della tua nazione! Questa città è la ricompensa per anni di sacrifici di sangue! Ma tu sei quella terra, o luogo di riposo di Mustafa. La visione della Ka’ba è migliore dei tuoi pellegrinaggi. Nell’anello del mondo tu scintilli come una gemma, La tua terra è stata il luogo natale della nostra grandezza. Quel Magnificente Signore del mondo vi ha trovato riposo, Sotto la sua protezione han trovato sicurtà tutte le nazioni. I suoi successori sono divenuti signori di tutti gli imperi, Sono divenuti successori di Cesare, eredi del trono di Jam. Se il nazionalismo musulmano si limita a luoghi geografici, Né l’India né la Persia, né la Siria sono i luoghi prescelti. Ah Yathrib! Tu sei la patria e il rifugio dei musulmani, Tu sei il punto focale dei raggi dei suoi intimi sentimenti. Sino a quando esisterai, noi pure prospereremo nel mondo, Tu sei il mattino di questo giardino e noi perle di rugiada. 77. LA STELLA Hai paura della luna o hai paura dell’alba? O sei consapevole della fine della bellezza? Temi che la ricchezza della luce si perda? Temi che la morte sia simile alla scintilla? Il cielo ti ha dato una casa lontana dalla terra Ti ha rivestita di un manto d’oro come la luna. Anche così nel tuo piccolo cuore c’è paura! Tutta la notte la trascorri intera in tremore. O viandante lucente, questa è una terra molto strana, Ciò che per uno è sorgere, per un altro è tramonto. Il sorgere del sole causa la morte di miriadi di stelle, Il sonno della morte discende dal tossico della vita. Nell’addio del bocciolo è il segreto del nascere del fiore, La non-esistenza è la causa equivalente dell’esistenza. Nei disegni della natura il riposo è cosa impossibile, Solo il mutamento è una cosa permanente nel mondo. 78. DUE PIANETI Congiungendosi due pianeti in unione Uno così incominciò a parlare all’altro: ”Che bello se quest’unione fosse eterna, Che bello se quest’abbraccio fosse eterno. Se il cielo fosse un poco più benevolo Delle nostre luci ne faremmo una sola”. Ma il desiderio di quest’abbraccio Ebbe un messaggio di separazione. Prefissato è invero il corso delle stelle, Prefissata è invero l’orbita di ognuna. L’unione eterna è solo una chimera, La separazione è la legge del mondo. 79. CIMITERO REGALE Il cielo si riveste dei vecchi stracci della nuvola, Lo specchio della fronte della luna è un po’triste. Pallida è la luce lunare in questo silente panorama, L’alba si è addormentata nel grembo della notte. Che cosa meravigliosa è questo silenzio degli alberi, Questo silenzio è il soave tono dell’arpa della natura. Il cuore di ogni atomo dell’universo è tutto un dolore, Il silenzio è un sospiro dolente sulle labbra della vita. Ah! quel castello, quel luogo di riunione del mondo, Va recando sulle proprie spalle un peso di millenni. Era pieno di vita un tempo, ora è deserto e desolato, Questo silenzio è il cimitero dell’eleganza passata. È l’amante di ciò che resta dei suoi antichi abitatori, Si erge come sentinella sulla cima della montagna. Lì dalla finestra della nuvola, sopra il tetto del cielo, Quella giovane stella verde osserva l’universo. La vastità della terra è per lei solo un giocattolo, Sa a memoria la storia degli insuccessi dell’uomo. Sin dall’eternità viaggia verso la propria mèta, Osservando rivoluzioni dalla clausura del cielo. Non è possibile per una stella sostare nell’universo, Pure s’è fermata un attimo per pregare per i morti. Questa terra è piena dei fiori variegati della vita, Questa terra è il cimitero di molte civiltà distrutte. Questo posto di dolore è il luogo di riposo di re. O occhio ammonitore! paga il tributo di lacrime. Anche se solo un cimitero, questa polvere è il cielo. Ah! è questa la ricchezza di una sfortunata nazione! Così stupefacente è la grandezza dei suoi mausolei Che l’occhio dell’astante non sostiene lo sguardo. Tale è l’espressione di fallimento in questa visione Che è impossibile farla riflettere nel suo specchio. Lontano dalle folle delle abitazioni dormono ora Quelli che furono senza pace nei desideri inappagati. Nell’oscurità della tomba si cela il brillio di quei soli Alle cui soglie il cielo era solito rimanere prostrato. È questa la fine della magnificenza di quei sovrani Che non conoscevano declino alcuno nella politica? Sia la grandezza di un Cesare o la dignità del Khan Non si può respingere l’assalto di chi reca la morte. Il risultato degli sforzi vitali dei sovrani è la tomba, L’ultimo stadio sul sentiero della gloria è la tomba. Né il pathos della lieta riunione né le parole del genio Né la compassione dell’intera notte per i lamentevoli. Né il tumulto delle spade sguainate nella battaglia, Né il grido del sangue che riscalda l’Allah o akbar. Nessun richiamo può risvegliare coloro che dormono, Nessuna vita può più ritornare nei petti abbandonati. L’anima in un pugno di polvere sopporta l’ingiustizia Quando il respiro entra nel flauto della non-vita è dolore. La vita umana rassomiglia a quel dolce uccello cantore Che appollaiato per un po’ su un ramo cinguetta e va via. Ah, perché siamo venuti al mondo, perché ce ne andiamo! Germogliati dal ramo della vita, siamo fioriti e appassiti! La morte interpreta similmente i sogni dei re e dei poveri. Quest’atroce terrore della gente è il quadro della giustizia.375 La corrente della vita è un oceano sconfinato senza limiti, La tomba non è che un’onda di quest’oceano senza limiti. O desiderio! versa lacrime di sangue su questa vita futile, Che è simile al sorriso della scintilla, alla paglia che arde. Questa luna, che è un miracolo del Signore dell’universo, Avvolta in una veste d’oro cammina lenta e con orgoglio. Ma in quella vastità, che atterrisce del cielo senza stelle, È bello osservare nel tempo dell’alba la sua debolezza. Ciò che era la luna non è che un semplice pezzo di nuvola? Nell’ultima stilla di lacrima si nasconde la sua distruzione. Allo stesso modo si può prevedere la vita delle nazioni, La loro gloria è un quadro dei tempi felici passati via. In questo mondo nessuna nazione per quanto grande sia Può continuare la propria esistenza sino alla fine del tempo. L’universo è così abituato alla distruzione delle nazioni Che guarda a tutto questo scenario con indifferenza. Nulla rimane sempre lo stesso senza alcun mutamento, La natura propria dell’universo è soggetta al mutamento. La bellezza del gioiello del mondo muta sempre di nome, La madre terra è rimasta in sempre attesa di nuove nazioni. Questa strada maestra conosce mille e mille carovane, L’occhio del Koh-i nur ha familiarità con centinaia di re. Egitto e Babilonia furono distrutti, non un segno rimane, Il rotolo dell’esistenza non contiene neppure i loro nomi. La sera della morte ha oscurato il grande sole dell’Iran, Il tempo ha portato via la grandezza di Grecia e Roma. Ah! Anche i musulmani hanno lasciato questo mondo, La nuvola di azar sorse nel cielo, piovve e andò via. La vena della rosa è un filo di perle di lacrime dell’alba, Qualche raggio di sole si è avviluppato nella rugiada. L’insenatura del fiume è una culla per i raggi del sole, Com’è bella la vista del sole lungo la riva del fiume! Il ginepro si fa bello, il fiume diventa il suo specchio, La brezza primaverile è uno specchio per il bocciuolo. Il cuculo manda il suo richiamo dal nido del giardino, Nascosto all’occhio umano nell’intimità delle foglie. E l’usignuolo, il bel cantore del giardino in fiore, Rende viva con la sua presenza la gloria del giardino. È un quadro vivente della commozione dell’amore, Bello è questo quadro dipinto dal pennello della natura! Nel giardino le rose silenziose sono sedute in riunione, I richiami dei pastorelli vanno echeggiando nella valle. Questo vecchio mondo è così pieno di vita e di fervore Che anche nella morte si nasconde il piacere della vita. In autunno i petali dei fiori cadono proprio simili ai Giocattoli dalla mano del bimbo che si addormenta. In questo allegro mondo, anche se il lusso non ha limiti, È sempre recente il dolore che è il dolore della nazione. Nel nostro cuore sono ancora recenti i ricordi passati, Questa patria non può togliersi dal cuore i ricordi dei re. Queste dimore deserte sono pretesti per versare lacrime, L’intuito ha alimentato nell’occhio lacrime continue. Noi diamo al mondo le perle dell’occhio che piange, Noi siamo i resti delle nuvole di una tempesta passata. Nel seno di questa nuvola ci sono centinaia di perle, Il tuono nasconde ancora il seno silente della nuvola. Può mutare la vastità del deserto in una valle in fiore, Può mutare la speranza del contadino in un risveglio. Passata è la gloria della maestà di questa nazione, Ma la gloria della sua bellezza379 non è ancora passata. 80. L’APPARIZIONE DEL MATTINO Da sotto la linea dell’orizzonte sta apparendo L’alba, figlia vergine della notte e del giorno. Il cielo ha benedetto il raccolto della stella, Il sole ha ornato di specchi l’orizzonte orientale. Alla notizia del sopraggiungere del sole il cielo Ha chiuso il letto della notte in nuvola di polvere. La vampa del sole ha fatto germogliare il campo, Seminato dal contadino del cielo, come scintille. La stella mattutina è per la via nel cielo che si ritira, L’ultimo fedele della notte rientra dalla moschea. Bella è quella vista come se qualcuno lentamente Sguainasse la spada lucente dall’oscurità del fodero. Il significato dell’alba si cela nell’orizzonte orientale, Come il vino inebriante si nasconde dentro la coppa. L’alba giunge sotto la gonna della piacevole brezza, Il suono della campana si mescola al richiamo di azan. Gli uccelli canori si svegliano al richiamo del cuculo, Ogni corda dello strumento dell’alba è divenuta musica. 81. VERSI RIPRESI DA ANISI SHAMLU Vado girovagando di continuo come la brezza mattutina, In amore il girovagare è più piacevole della destinazione. Il cuore senza pace è giunto nella terra del santo di Sanjar, Dove si può trovare la cura per la malattia dell’impazienza. Il desiderio del mio cuore non è ancora giunto alle labbra, La lingua si sentiva quasi vincolata al potere della parola. Una voce è giunta dalla tomba: “Gli abitanti dell’haram Si lamentano di te, o rinunciatore delle abitudini avite”. O Qais!3 Come mai si è raffreddato il tuo calore interiore? Lailah si comporta allo stesso modo del suo vecchio ego. Il seme del La Ilaha non è fiorito nella tua terra sterile, La sterilità della tua natura è in tutto il mondo un’onta. O imprudente! Sai mai che cosa sia la tua esistenza? È costruttore di sinagoghe, piene di musiche di chiesa. Sebbene tu sia stato allevato nella casa del Signore, Il tuo cuore indocile continua ad amare il tempio. “Da noi hai appreso la fedeltà ma l’hai usata con altri, Da noi hai afferrato una perla ma l’hai usata per altri”. 82. LA FILOSOFIA DEL DOLORE (Dedicata a Mian Fazl-i Hussein , Barrister at Law, Lahore) Sebbene il vino della vita sia l’emblema del piacere, La nuvola della vita porta con sé lacrime nella veste. La bolla della vita va danzando sulle onde del dolore, La surah di apertura fa anche parte del libro della vita. Se perdesse anche un solo petalo la rosa non è più rosa, Se l’usignuolo non vedesse l’autunno, non sarebbe tale. La storia del cuore si colora del sangue del desiderio, La musica umana è incompleta senza il grido del lamento. Per l’occhio che discerne il segno del dolore è perspicacia, Per l’anima lo specchio del sospiro fa parte della bellezza. Gli episodi del dolore danno perfezione alla natura umana, La polvere dell’angoscia è rossa per lo specchio del cuore. Il dolore risveglia la gioventù dal piacere del dormire, Questa orchestra opera il risveglio solo con il suo plettro. Per l’uccello del cuore il dolore è la sua piuma più forte, Il cuore umano è un segreto la chiave del quale è il dolore. Il dolore non è sconforto, ma è il canto silente dell’anima, Che è racchiuso nell’abbraccio dell’arpa dell’esistenza. Quale è la notte che non conosce il lamento “Oh Iddio”! Quale è la notte che non manifesta le stelle delle lacrime! Quale coppa del cuore non conosce la pena del dolore! Chi può rimanere sempre in estasi per il piacere e la gioia! Il giardiniere la cui mano è sicura dalla punta della spina, Il cui amore è inconsapevole del pathos della separazione, Sebbene l’afflizione del dolore sia lontano dalla sua vita, Pure il segreto della vita rimane nascosto ai suoi occhi. Oh colui che riesce a comprendere tutti gli affari della vita, Perché non dovrebbero dolori e affanni essere facili per te? L’amore è l’introduzione al vecchio trattato dell’eternità, L’intelletto umano è mortale ma l’amore vive in eterno. La sera della morte non è simile al sole dell’amore, L’amore è il calore della vita e dura fino all’eternità. Se l’annullamento fosse creato solo per il caro dipartito, Lo zelo dell’amore avrebbe lasciato il cuore dell’amante. L’amore non svanisce per la dipartita del caro amato, Rimane sempre nell’anima come dolore ma non muore. L’immortalità dell’amante è l’immortalità dell’amato, L’esistenza del caro amato non conosce la mortalità. La primavera giunge cantando dalla cima del monte, Insegnando agli uccelli del cielo l’arte del cantare. Il suo specchio luccica come la guancia di una huri, Ma si rompe in pezzi cadendo sulle rocce della vallata. Le perle del fiume diventano sempre più belle ancora, Ed è proprio cadendo che diventano le stelle dell’acqua. Il fiume del fluente mercurio si diffonde e si sparge, Un intero mondo di gocce irrequiete diventa manifesto. Ma la separazione è preparazione per la loro riunione, Dopo un po’ il fiume stesso scorre come filo d’argento. Anche il fiume fluente della vita ha una stessa origine, Cadendo dall’alto crea l’assembramento dell’umanità. Nei recessi del mondo noi ci separiamo per poi riunirci, Ma piangiamo considerando permanente la partenza. Anche se i morti muoiono, essi non periscono invero, In verità, essi non si separano né si allontanano da noi. Quando la nostra mente è presa dalle calamità mondane, Quando è afflitta nella notte desolata della gioventù, Quando l’orlo del cuore è una battaglia tra bene e male, Quando difficile è il viaggio alla mèta nella strada buia, Quando il desiderio abbandona il mistero del coraggio, Quando la mente è inerme e la coscienza una voce silente, Quando non un viandante si trova nella valle della vita, Quando non una sola scintilla ci mostra una sola via, Le fronti dei morti illuminano per noi quest’oscurità Come le stelle che rilucono nell’oscurità della notte. 83. IN OCCASIONE DEL DONO DI UN FIORE. Quando quella bellezza passeggia nel giardino Ogni bocciuolo di fiore recita la sua supplica. O Dio! Tra tutti i fiori può darsi che scelga me! Può darsi che ella mi tramuti da bocciuolo a fiore! Può darsi che ti colga dal ramo! Come sei fortunato, Può darsi che i tuoi rivali nel giardino ti assaltino. Dal dolore della separazione tu raggiungi l’unione, L’essenza della tua vita raggiunge la perfezione. Il mio loto, venerato dagli adoratori della bellezza, Sempre venerato nella mia rigogliosa giovinezza, Questo fiore non ha mai raggiunto il suo scopo, Non ha mai conosciuto l’orlo colorato di qualcuno. La primavera non sarà mai in grado di farlo fiorire, L’attesa del giardiniere lo rende sempre più triste. 84. INNO NAZIONALE La Cina e l’Arabia sono nostre, l’India è nostra, Siamo musulmani, tutto il mondo è la nostra patria. Nei nostri petti risiede lo scrigno del monoteismo. Non è facile cancellare il nostro nome e il marchio, Fra i templi del mondo quella prima casa di Dio. Noi ne siamo i custodi ed Egli è il nostro custode. All’ombra delle spade siamo stati allevati noi tutti, La spada della mezzaluna è il marchio della nazione. Nelle valli d’Occidente ha risuonato il nostro azan. Nessuno poteva frenare la natura del nostro flusso. O cielo, non possiamo essere sopraffatti dalla falsità, Centinaia di volte hai messo alla prova la nostra fede. O giardino di Andalusia! Ti rammenti di quei giorni Quando tra i tuoi rami davi ricetto al nostro nido? O onda del Tigri! anche tu ci conosci e riconosci. Il tuo fiume continua a mormorare la nostra storia. O terra sacra, per il tuo onore ci facemmo uccidere Il nostro sangue continua a scorrere nelle tue vene, Il nostro capocarovana è il principe del Hijaz. Il suo nome è perenne consolazione della nostra vita. Il canto di Iqbal è come il segnale della carovana, La nostra carovana riprende il suo proprio cammino. 85. NAZIONALISMO (ossia la nazione come concetto politico) Differenti sono in quest’epoca vino, coppa e anche Jam, Differenti modi di grazia e tirannia il coppiere ha creato. I Musulmani hanno anche costruito un differente haram, Lo scultore della civiltà ha creato i suoi differenti idoli. Tra queste nuove divinità la più grande è la nazione! Quella che è la sua veste è il sudario della religione. Quest’idolo, che è il prodotto di una nuova civiltà, È il predatore della casa della religione del Profeta. Il tuo braccio è forte della potenza dell’Unità Divina, L’Islam è il tuo paese, voi siete i seguaci di Mustafa. Al mondo dovresti mostrare il vecchio panorama ! Riduci in polvere, o seguace di Mustafa, quest’idolo! La limitazione alla nazione ne produce la rovina. Vivi nell’oceano, libero dalla nazione come un pesce. La rinuncia alla nazione è la sunnah del Profeta. Sii testimone perciò della verità della Profezia. Nel linguaggio politico la patria ha un significato, Nel linguaggio del Profeta ha un altro significato. A ciò si deve nel mondo la rivalità fra le nazioni, A ciò si deve la soggezione, scopo del commercio. A ciò solo si deve se la politica non ha sincerità, A ciò solo si deve se la casa del debole è spoglia. A ciò si deve se il creato di Dio si divide in nazioni, A ciò si deve se la comunità dell’Islam è sradicata. 86. UN PELLEGRINO SULLA VIA PER MEDINA La carovana è stata derubata e la destinazione è lontana, La costa di questa desolazione, arido oceano, è lontana. I compagni di viaggio sono stati vittime dei predoni, Gli altri sono ritornati indietro, frustrati, alla Mecca. Come ha dato la sua vita questo giovane di Bukhara! Nel veleno della morte ha trovato il gusto della vita! Per lui la spada del ladro è stata la mezzaluna di ‘Id. “Ah Yathrib” aveva nel cuore, il Tohid sulle labbra. La paura dice:“Non viaggiare da solo sino a Yathrib.” Il desiderio dice:“Sei musulmano, viaggia senza paura”. “Dovrei tornare a Mecca senza prestare il mio omaggio? Non dovrei confidare negli amanti nel giorno finale?” Il pellegrino nel deserto del Hijaz non teme per la vita, Questo segreto si nasconde nell’emigrazione del Profeta. La sicurtà assicurata è la compagna nel cammino siriano, Il piacere dell’amore è nel dolore scorante della spada. Ah! com’è bravo e intelligente questo timido intelletto! E com’è coraggioso il sentimento dell’uomo indomito! 87. FRAMMENTO Ieri un amante disperato si lamentava sulla tomba del Profeta: “Egiziani e indo-musulmani minano le basi della nazione! Questi pellegrini al santuario dell’ovest minano la nostra guida, Che legami abbiamo noi con quelli che non ti riconoscono? Chi sono queste cosiddette guide? Dio protegga la nazione! Distruggendo l’Islam si preparano la loro gloria personale”. O Iqbal, chi pensi ti ascolterebbe? Cambiata è l’assemblea, Nella nuova epoca tu ci racconti storie di un tempo passato. 88. PROTESTA Perché dovrei nuocere a me stesso, obliando il mio profitto? Perché non pensare al poi, rimestando nel dolore e nella pena? Perché ascoltare il lamento dell’usignuolo, fattomi tutt’orecchi? O cantore! sono forse una rosa che debbo mantenere il silenzio? L’ardore e la forza del mio verso mi infondono nuovo coraggio E a Dio, che Allah mi possa perdonare, innalzo una protesta. È vero, siamo famosi noi per la nostra abitudine all’obbedienza Ma, costretti, andiamo raccontando le nostre storie di dolore. Sebbene siamo strumenti di silenzio, noi siamo pieni di lamenti. Se ci esce un gemito dalle nostre labbra, ce ne scusiamo, noi. Oh Signore! ascolta le proteste e le rimostranze del Tuo fedele, Ascolta la voce lamentevole di coloro che sono abituati a lodarti. La Tua essenza eterna esisteva in eterno sin da tempi immemori, Il fiore era la bellezza del giardino, ma non spargeva il profumo. O Signore universale di benevolenza , è davvero giusto, dimmi: Può espandersi il profumo del fiore se la brezza non esistesse? La soluzione del problema era per noi fonte di soddisfazione, Altrimenti il Tuo popolo non sarebbe stato altro che burocrazia. Veramente strano era prima di noi lo scenario del Tuo mondo, In qualche dove s’adoravano pietre, laggiù si veneravano alberi. Gli sguardi degli uomini si erano abituati alle forme tangibili, Come potevano essi allora prestar fede ad un Dio non veduto? Ti è noto che qualcuno recitasse il Tuo nome e il Tuo rosario? Fu la forza del braccio dei musulmani che completò l’opera Tua. Un tempo qui vivevano i selgiuchidi e avevano dimora i turani, In Cina ci vivevano i cinesi e in Iran avevano dimora i sassanidi. Nelle loro abitazioni c’erano, dimoravano e vivevano i greci, In questo stesso mondo c’erano gli ebrei e ci vivevano i cristiani, Ma chi mai pensò e sguainò dal fodero la spada nel Tuo nome? Chi reclamò il mondo e rimise a posto le cose nel Tuo nome? Noi qui da soli conducemmo in campo le truppe nel Tuo nome! Ora sulla terra noi combattemmo, ora sugli oceani noi lottammo. Ora nelle chiese dell’Europa lanciammo il richiamo dell’azan, Ora nei deserti dell’Africa bruciati e arsi dal sole infuocato. Non ci curammo affatto né della pompa né della grandezza, All’ombra delle spade continuammo a recitare la kalima, noi. Se vivevamo, vivevamo solo per superare le calamità nella lotta. Se morivamo, morivamo per fare ancor più grande il Tuo nome. Non demmo un solo colpo di scimitarra per il potere, mai mai. Esiste qualcuno nel mondo che darebbe la vita per la ricchezza? Se i nostri compagni fossero morti per l’oro e i beni del mondo, Perché avrebbero distrutto gli idoli invece di metterli in vendita? Una volta entrati in guerra, non ci ritiravamo mai dalla battaglia, Se i leoni ci avessero attaccato, li avremmo di certo messi in fuga. Se qualcuno si fosse ribellato a Te, saremmo stati presi dall’ira, Con le spade e i pugnali andavamo all’attacco dei cannoni, Il marchio del monoteismo imprimemmo noi in ogni cuore, Quel messaggio diffondemmo noi anche con spade e pugnali. Raccontalo Tu: chi sradicò dai cardini il portale di Khaibar? Chi espugnò e conquistò la capitale che apparteneva a Cesare? Chi spezzò e distrusse le immagini di divinità create ad arte? Chi fece a pezzi e massacrò gli eserciti dei soldati infedeli? Chi distrusse i templi del fuoco in tutta la Persia e li estinse? Chi fece rivivere la memoria del Dio della Virtù e della Bontà? Qual popolo e quale nazione si dedicò solo alla ricerca di Te? E chi sopportò in Tuo nome i dolori e i pericoli delle battaglie? E chi sottomise con la spada e diventò il padrone del mondo? E chi illuminò e risvegliò il Tuo mondo recitandone le lodi? E chi rese tremanti di perpetuo terrore gli idoli atterriti? Cadevano per terra, ripetendo: “Non c’è che un solo Dio”. Se proprio durante la battaglia cadeva il tempo della preghiera, Il popolo del Hijaz, chino, baciava la terra, volto alla qibla. In piedi, nella stessa fila, nobili e plebei, Mahmud e Ayaz Tutti, fianco a fianco, nessuno era signore, nessuno era schiavo. Il servo e il padrone, il povero e il ricco erano una cosa sola, Giunti di fronte alla Tua presenza, tutti erano un’unica cosa. Albe e tramonti sorgevano e finivano nella casa del deserto, Vagavamo con il vino dell’unità di Dio nelle nostre coppe, Vagavamo per i monti, nei deserti diffondendo il Tuo credo, E Ti è noto mai che siamo ritornati a casa con un insuccesso? Non solo i deserti, ma neppure i mari noi tralasciammo, noi! Nel mare di tenebre dell’oceano lanciammo i cavalli, noi! Dalla superficie del mondo noi cancellammo il vano, noi. L’umanità noi liberammo dalle catene della schiavitù, noi. La Tua Ka’ba popolammo noi con le fronti prostrate, noi. Il Tuo Corano nel cuore chiudemmo e custodimmo, noi. Eppure ora ti lamenti di noi perché non siamo fedeli, noi. Se manchiamo di fedeltà noi, Tu non sei però generoso. Altre nazioni ci sono, e tra loro ci sono anche i peccatori, Ci sono deboli, ci sono arroganti e intossicati di visioni. Tra loro ci sono anche indolenti, negligenti e intelligenti. Ci sono pure milioni di uomini che disprezzano il Tuo nome. Sulle dimore degli altri popoli cadono i Tuoi favori e grazie, Sulle dimore dei poveri musulmani cadono i Tuoi fulmini! Nei templi gli idoli dicono: “I musulmani sono andati via”. Sono lieti che i custodi della Mecca se ne siano andati via. Dalla scena del mondo i cammellieri se ne sono andati via. Con il Corano sotto il braccio i fedeli se ne sono andati via. Se la ridono gli infedeli, non ne hai coscienza Tu o no? Non hai più alcun interesse per la Tua propria unità o no? Non siamo dolenti del fatto che i loro scrigni sono pieni, Noi che non possediamo neppure il minimo necessario. È triste vedere che gli infedeli abbiano huri e castelli. E a noi poveri musulmani è data solo la promessa di huri. Ora per noi non ci sono più la Tua grazia e il Tuo favore. Perché? non ci sono più per noi la Tue primitive liberalità? Perché tra i musulmani c’è scarsità di ricchezze terrene? Eppure la Tua onnipotenza è illimitata ed è senza confini. Se lo vuoi, puoi far sorgere dal cuore del deserto tante polle Sì che ogni viandante rimanga annegato nel miraggio di onde. L’ironia degli altri, disgrazia e povertà sono il nostro destino, Povertà e derisione sono la ricompensa di chi muore per Te. Oggigiorno questo mondo preferisce e ama gli estranei a noi, Per noi è diventato soltanto un mondo immaginario e irreale! Ne siamo stati allontanati, altri si sono presa cura del mondo. Non lamentarti se il mondo è rimasto privo dell’Unità di Dio! Noi viviamo perché nel mondo si diffonda e resti il Tuo nome, Come può esistere la coppa di vino se il coppiere non esiste? La Tua assemblea è fallita, anche i Tuoi fedeli sono andati via, Scomparsi sono i sospiri della notte, scomparsi i gemiti dell’alba. Ti avevano amato, se ne sono andati via con le loro ricompense. Si erano appena accomodati, che subito sono stati mandati via. Gli amanti giunsero ma sono andati con la promessa del domani. Va’ in cerca di loro con la lampada del Tuo bel volto, se puoi! La pena di Lailah è la stessa, la passione di Qais è la stessa, Nei monti e nei deserti del Nejd la timida gazzella è la stessa, Il cuore dell’amore è lo stesso, la magia della bellezza è la stessa, La nazione del sacro Profeta è la stessa, anche Tu sei lo stesso. Che significa dunque questo tormento senza ragione alcuna? Che significa dunque quest’occhio adirato con i Tuoi fedeli? Abbiamo abbandonato Te, o disertato il Messaggero Arabo? Abbiamo fatto professione di idolatria? o lasciato gli idoli? Abbiamo abbandonato l’amore, la folle passione d’amore? Abbiamo abbandonato le abitudini di Salman e Uwais? Abbiamo soppresso nei nostri cuori il fuoco del takbir! Noi stiamo vivendo proprio la vita di Bilal, l’Abissino! Ammesso che l’amore abbia perduto la primitiva grazia Non possiamo più neppure seguire il sentiero dell’amore. Il cuore sconvolto come ago di bussola non fu sufficiente? E l’osservanza delle regole della fede non fu sufficiente? Ora verso di noi, ora verso gli estranei dimostri amicizia. Non è facile dirlo ma anche Tu sei diventato un infedele! Sulla cima del Faran Tu hai reso perfetta la religione, Con un gesto hai preso il cuore di migliaia di persone. Hai consumato con il fuoco anche il prodotto dell’amore, Hai bruciato l’assemblea con il fuoco del Tuo volto. Perché i nostri petti non sono colmi di scintille di fuoco? Noi siamo quegli stessi presi dal fuoco, non Te lo ricordi? Nella valle del Nejd non c’è più quel rumore di catene, Non c’è più il pazzo Qais con l’occhio rivolto alla sella. Non c’è più ambizione, non ci siamo noi, non c’è un cuore, Questa casa è in rovina perché non c’è più la Tua presenza. O felice quel giorno quando Tu ritornerai a noi benevolo, Tornerai nuovamente senza veli alla nostra assemblea! Sulla riva del fiume altri siedono a bere vino nel roseto, E ascoltano, la coppa di vino in mano, il canto del cuculo. Nel roseto, lontano dalla ressa della folla, siedono assieme I Tuoi pazzi che attendono con pazienza di vedere Te. Da’ nuovamente alle Tue falene il desiderio di bruciarsi, Da’ all’antico fulmine l’ordine di bruciare d’amore i cuori. Il popolo viandante volge ancora le briglie verso il Hijaz, L’usignuolo impotente ha ripreso ancora il gusto del volo, In ogni bocciuolo di fiore si agita il profumo dell’umiltà, Da’ inizio alla musica, la corda del liuto cerca il plettro. Le melodie sono impazienti di venir fuori dalle loro corde, Il Sinai si agita impaziente per bruciare all’antico fuoco! Rendi facili le difficoltà attuali che ha il popolo benedetto, Deponi la povera formica fianco a fianco a Salomone, Rendi di nuovo accessibili i preziosi prodotti dell’amore, Rendi di nuovo musulmani i musulmani idolatri dell’India! Dalla mia antica frustrazione scorra un fiume di sangue, Nel mio petto ferito dal bisturi palpitino le lamentazioni! Il profumo del fiore ha portato via il segreto del giardino. Che sconvolgimento è questo! i fiori sono contro l’aiuola! La stagione del fiore è finita, il liuto dell’aiuola s’è rotto, Dai rami sono volati via gli uccelli cantori del giardino. È rimasto solo un usignuolo che è ancora preso dal canto, Nel suo petto corrono ancora traboccanti le sue melodie. Dai rami del ginepro sono andate via anche le colombe, I petali cadendo ad uno ad uno dal fiore sono appassiti. Anche gli antichi sentieri del bel giardino sono in rovina, Anche i rami si sono privati della copertura delle foglie. Dalle catene del tempo s’è liberata la natura del cantore, Voglia Iddio che nel roseto qualcuno senta quel lamento! Nella morte non c’è gioia alcuna, nella vita non c’è piacere. Se qualche piacere c’è, è nel sopportare quest’afflizione! Quante gemme si agitano impazienti nel mio specchio, Quante immagini lucenti scuotono ancora tutto il mio petto! Ma in questo giardino non c’è nessuno che le possa mirare, Non vi sono tulipani che chiudano macchie d’amore in petto. Possano i cuori aprirsi al canto di questo usignuolo solingo, Possano i cuori sopiti svegliarsi al canto di questa carovana. Possano i cuori vivere alla vita di nuove promesse di fede, Possano i cuori avere ancora sete di quello stesso antico vino! Se persiano è l’alambicco, dal Hijaz proviene il mio vino, Se indiano può sembrare il canto, dal Hijaz è il mio tono. 89. LA LUNA O luna! La tua bellezza è la dignità della creazione, È tua abitudine girare attorno al santuario della terra. Sul tuo seno appare qualcosa simile ad una macchia. Sei tu l’amante di qualcuno? È un graffio del desiderio? Io sono senza pace sulla terra, tu sei senza pace nel cielo. Anche tu sei in cerca di qualcuno, anch’io sono in cerca. L’uomo è la candela della riunione che è anche la tua. La direzione in cui io vado è anche la tua destinazione. Colui di cui tu vai alla ricerca nel silenzio delle stelle, Forse si nasconde proprio nella convulsione della vita. Si trova nell’albero di cipresso, dorme nella vegetazione, Canta nell’usignuolo, è silente nel bocciuolo del fiore. Vieni, io ti farò vedere la Sua guancia piena di luce, Nello specchio dei fiumi, nella lente della rugiada. Egli esiste nella foresta, nelle montagne, in ogni cosa, Nel cuore dell’uomo, nella tua guancia solo Egli è. 90. LA NOTTE E IL POETA I – La notte Perché vai vagando nella mia luce così turbato? Silente come la rosa, turbato come la fragranza. Forse tu sei il gioielliere delle perle della stella, Forse tu sei un pesce del fiume della mia luce, O sei forse una stella caduta dalla mia fronte, Che, lasciate le altezze, ha preso casa quaggiù. Quieta è diventata la corda dell’arpa della vita, Nel mio specchio è il quadro del sogno della vita. Al fondo del fiume dorme l’occhio del vortice, Lungo la riva s’è addormentata l’onda irrequieta. Com’è agitata e inquieta la dimora della terra, Si è addormentata come se nessuno ci abitasse. Ma il cuore del poeta non è abituato alla pace, Com’è che non sei stata presa dalla mia magia? II – Il poeta Io vado seminando perle nei campi della tua luna, Nascondendomi dalla gente piango come l’alba. Intimidito dall’uscire nella convulsione del giorno, Le mie lacrime scendono nel segreto della notte. A chi dovrei raccontare il lamento che si cela in me? A chi dovrei mostrare la scena del calore d’amore? Il lampo dell’Aiman giace sul mio petto e piange. Dov’è l’occhio che ha la vista interiore? a dormire? La mia assemblea è morta come candela sulla tomba, Ah, O notte, il luogo della mia destinazione è lontano. Le condizioni di oggi non sono davvero favorevoli, Non hanno percezione alcuna della propria perdita. Quando mi stanco dei limiti del messaggio d’amore, Vengo qui e li racconto alle tue stelle che brillano! 91. L’ASSEMBLEA DELLE STELLE Calando, il sole getta nelle braccia della sera oscura I fiori di tulipano raccolti dal bacile dell’orizzonte. Il crepuscolo della sera si è adornato di monili d’oro, La natura ha indossato tutti i suoi preziosi argenti. La Laila della notte è giunta sulla sella del silenzio, Rilucono le gemmate perle della sposa della sera, Che abitano lontano dalla convulsione del mondo, Che gli uomini nel loro linguaggio chiamano stelle. La riunione del cielo è alle prese con i lumi nel cielo, Dall’empireo è arrivato il richiamo di un angelo: “O sentinelle della notte! O stelle di questo cielo! L’intera vostra nazione lucente abita questo cielo. Suonate una musica tale da risvegliare i dormienti, La luce della vostra fronte sia guida alle carovane. I terrestri pensano che voi siate specchi del destino, Può darsi forse che essi ascoltino il vostro richiamo. Il silenzio che giunge da questa vastità delle stelle, L’immensità del cielo si riempie di questa musica, La bellezza delle stelle produce l’eterna bellezza, L’immagine della rosa è nello specchio della rugiada. Il timore di nuove strade, il persistere nelle antiche, È questa l’unica difficoltà nella vita delle nazioni. Questa carovana della vita si muove così veloce che Molte nazioni sono preda del problema della razza. Migliaia di stelle si nascondono ai nostri occhi, Ma la loro esistenza fa parte della nostra comunità. Gli abitanti della terra non hanno capito in una vita Quanto noi abbiamo compreso in una breve vita. Tutti i sistemi si stabiliscono per mutua attrazione, Questo segreto si nasconde nella vita delle stelle. 92. A ZONZO NELL’EMPIREO L’immaginazione era la compagna di viaggio, Il mio sentiero passava attraverso il cielo. Volavo costantemente e non c’era nessuno Che avesse una cognizione di me nel cielo. Le stelle mi osservavano con sorpresa, Il mio viaggio era un segreto ben custodito. Sfuggivo all’alternanza del giorno e della notte, Sfuggivo a quest’ordine naturale delle cose. Che dirti di come fosse questo paradiso, È il culmine di tutti i desideri materiali. Gli uccelli cantavano tra i rami di tuba, La bellezza sfrontata delle huri era ovunque. Graziosi coppieri con in mano tazze di vino, L’uditorio gridava “bevi e bevi sempre più”. Lontano dal paradiso l’occhio osservava, C’era una casa oscura, fredda e silente. I visi di Qais e Lailah nelle loro forme Erano spalla a spalla con la loro oscurità. Faceva un tale freddo che imbarazzato Il circolo artico nascondeva il suo volto. Quando chiesi notizie del suo stato, Strana fu la risposta che diede l’angelo. “Questo luogo gelido è nomato inferno, Il suo seno è privo di fuoco e di luce. Il calore delle fiamme che l’avvolgono Spaventa gli uomini in cerca di un monito. Quando la gente della terra arriva qui, Si porta appresso l’ultima scintilla”. 93. CONSIGLIO Un giorno a guisa di consiglio dissi a Iqbal: Tu non digiuni né sei abituale nelle preghiere. Sei anche perfetto nei modi degli ipocriti, Ti struggi per Londra ma parli di Hijaz. Le tue bugie si basano su vari espedienti, Mirabile è anche il tuo modo di adulare. Le tue parole sono in lode del governo, Il tuo pensiero inventa modi di supplica. Le porte ufficiali sono maqam-i Mahmud, I piani si intrecciano con le chiome di Ayaz. Come tanti altri sei anche in grado di celare I segreti nel manto al servizio della religione. Ti si vede nella moschea nel giorno di ‘Id, Il tuo cuore è preso dall’effetto del sermone. Tu leggi anche i giornali del tuo paese Che pubblicano anche i tuoi versi famosi. Oltre a tutto ciò puoi anche scrivere liriche, Le coppe della poesia son piene di vino di Shiraz. Qualunque attributo di guida, tu lo possiedi, Per te è necessario agire e unirti alla lotta. Non hai paura dei cacciatori ché tu hai ali, Perché allora non sei tu incline al volo? “La fine della nostra vita è il cimitero, Ora fa’ un tumulto sotto la volta del cielo”. 94. RAMA Traboccante del vino della verità è la coppa dell’India. Lo hanno affermato tutti i filosofi del mondo occidentale. È il risultato dell’elegante pensiero di tutti gli indiani, Ché la posizione dell’India è più alta di quella del cielo. Questo paese ha prodotto molti santoni e dervisci Che hanno dato fama all’India con il loro modo di vita. L’India è orgogliosa dell’esistenza e dell’opera di Rama, Gli uomini di fede lo considerano il sacerdote dell’India. Solo questo è il miracolo della luce della rettitudine, Ché più brillante del mattino del mondo è la sera dell’India. Era abile nel maneggiare la spada, era unico per coraggio, Era senza pari nella devozione e nell’entusiasmo d’amore. 95. L’AUTOMOBILE Esattamente proprio questo disse ieri Jogendar: “Com’è silenziosa l’auto di Zulfiqar ‘Ali Khan; Ha un ritmo elegante, non fa molto rumore, Veloce come il lampo, è calma come brezza”. Io risposi:”Tutto questo non è solo dell’auto; Nel corso della vita un piede veloce è silente. Anche il campanello uso al lamento è silente, La carovana della fragranza come zefiro tace. La caraffa per il gorgoglio cammina sui tizzoni, Ma la natura della coppa del vino è silente. Nell’idea del poeta le ali per volare sono silenti, La ricchezza del calore della voce è nel silenzio. 96. GLI UOMINI La vista di un giardino può essere più o meno bella, Il narciso, incapace di azione, è costretto a guardare! Non può apprezzare il piacere del movimento, La vera natura del ginepro è priva di desiderio! Ciò che esiste nel mondo è uso alla sottomissione, Ogni atto dell’uomo è indirizzato al suo desiderio! Questo granello ambisce ad espandersi di continuo, Non è un granello ma è forse il deserto in catene. Se lo vuole, può mutare invero il volto del giardino. Lungimirante e possente è questo saggio granello! 97. ALLA GIOVENTÙ DELL’ISLAM O giovani musulmani! Siete sempre stati prudenti? Che era quel cielo di cui voi siete una stella caduta? Quella nazione vi ha allevato nel suo grembo d’amore, I piedi hanno calpestato la corona sulla testa di Dario. Plasmatore di civiltà, creatore di regole di governo, Quel deserto di Arabia, culla di conduttori di cammelli. La povertà orgogliosa era nella gloria del comando, “Ha forse bisogno un bel volto di rimmel e cosmetici?” Anche nella povertà gli uomini di Dio erano grandi, I ricchi facevano loro la carità per timore del povero. Che dirti come fossero quegli erranti nel deserto! Del mondo conquistatori, sovrani, amministratori. Se volessi descrivere a parole il loro volto, potrei, Ma la scena è al di là della comprensione umana. Voi non avete relazione alcuna con gli antenati, Voi parlate, essi agirono, voi stelle, essi pianeti. Abbiamo sprecato l’eredità avuta dagli antenati, Il cielo ci ha gettato giù dalle Pleiadi alla terra. Perché chiedere la sovranità che è temporanea? Non c’è scampo ai principi del mondo regolato. Ma le perle di saggezza, i libri degli antenati Vederli in Europa ci lacera il cuore in pezzi. “O Ghani! testimone del giorno buio di Giuseppe Ché la luce dei suoi occhi illumina Zuleikha. 98. L’INIZIO DI SHAVVAL (o La luna crescente di ‘Id) O orgoglio di shavval! cara al digiuno del pio! Vieni! i musulmani ti attendevano con ansia. Sulle vostre fronti era scritto il messaggio di ‘Id, La vostra sera è l’inizio dell’alba del piacere. Sei lo specchio del passato della nazione solare, O luna nuova! Da lungo tempo siamo i tuoi amanti. Lo stendardo alla cui ombra mettemmo le spade, Alla cui ombra spargemmo il sangue dei nemici, Il compagno di questo stendardo è il vostro destino, L’onore della nazione è la tua crescente bellezza. La nostra nazione ama gli amici, la fedeltà è la tua via, Questa tua camicia d’argento è diffusore di amore. Osserva le case della terra dalle absidi del cielo! Osserva i recessi della dimora dalla tua altezza! Osserva le carovane e anche il loro veloce andare, Osserva anche la destinazione del povero viandante, Osservando te elargivamo la carità a piene mani, O coppa vuota! Guarda oggi alla nostra povertà. I musulmani sono legati nelle catene della faziosità. Osserva la nostra libertà ed anche i nostri legacci, Osserva nella moschea l’amore che viene meno. Osserva nel tempio l’adorazione del Brahmano. Osserva le nostre abitudini nella vita degli infedeli, E i musulmani che pure opprimono altri musulmani. Sii tu spettatrice dell’acquazzone di tante sfortune. Osserva la fragilità delle dimore della tua nazione. Sì, osserva l’adulazione delle persone “onorabili”, E il rispetto di sé della gente un tempo orgogliosa. Osserva chi un tempo aveva il gusto della parola E il dire sprezzante di chi un tempo era senza parola. Ascolta il suono della musica nelle case dell’ovest, E osserva anche i preparativi del lutto in Iran. Il turco imprudente ha lacerato il manto califfale, Osserva i semplici musulmani e l’altrui astuzia. Osserva ogni cosa, e rimani calmo come specchio, Nel tumulto di oggi occupati della musica della sera. 99. LA CANDELA E IL POETA (febbraio 1912) I- Il poeta L’altra notte dissi alla candela della mia casa triste: “I tuoi capelli si pettinano con le ali della falena. Nel mondo sono simile alla lampada del tulipano, Non sono né nella riunione né nella fortuna della casa. Da lungo tempo brucio il mio respiro al pari di te, Giro attorno alla fiamma, la falena non è sfiorata. Nella mia vita di desideri si accalcano molti fulgori, In quest’assemblea non si alza un solo cuore amante. Da dove viene questo fuoco che illumina il mondo? Nel povero insetto tu hai infuso l’amore di Kalim!” II- La candela “Il soffio del respiro mi ha dato il messaggio di morte, Con quello stesso soffio le tue labbra sono melodiose. Io sono viva perché bruciare fa parte della mia natura, Tu sei vivo ché le falene possano avere il tuo amore. Io piango perché un fiotto fuoriesce dal mio cuore, Tu versi rugiada sì ché il giardino canti le tue lodi. Il mio mattino si orna di rose dalla fatica della notte, Il tuo domani non è consapevole dei tuoi giorni. Sebbene tu riluca, tu sei privo del calore interiore, Simile alla lampada del tulipano è la tua fiamma. Immagina, se ti si può adattare il titolo di coppiere, La riunione ha sete e la misura del vino è di te vuota. I tuoi modi sono diversi come la legge della nazione, Il tuo specchio è in rovina per il tuo brutto aspetto. Hai la Ka’ba al tuo fianco eppure tu ami il tempio, Com’è ribelle questo tuo amore irresponsabile! Non è possibile che Qais nasca nella tua riunione. Misero è il tuo deserto, senza Lailah è la tua sella. O perla lucente! O retroguardia nel grembo dell’onda, Inconsapevole del gusto degli uragani è il tuo oceano. Perché vai cantando ora? il tuo giardino è in disordine! Il tuo cantare è fuori luogo, la tua musica fuori tempo. Quelli che aspettavano lo spettacolo sono andati via, Non serve che tu venga con la promessa dello spettacolo. I vecchi ardenti amanti del vino hanno lasciato la riunione. O coppiere! non serve che tu venga con la coppa del vino. Ah! quando il giardino della rosa è oramai in disordine, Non serve al fiore il messaggio della brezza primaverile. Non serve all’amante il giungere alla fine della notte, Non serve all’amata giungere presto al primo mattino. Spenta è la fiamma che era l’oggetto di ogni falena, Non serve a chi cerca l’amore perfetto giungere ora. Ai fiori non interessa affatto che tu canti o non canti, La carovana è insensibile, suoni o meno la campana. Senza calore d’amore, resti come candela nella riunione, Anche le tue falene rimangono private di questo gusto. Se potessi stringerle assieme con un nodo d’amore, Perché allora i grani del tuo rosario rimangono sparsi? Sparito è l’amore coraggioso, sparito il sublime pensiero, Nella tua assemblea non rimangono né pazzi, né saggi. Sparito è quell’amore che brucia, quel pathos del cuore, Che bene c’è se le falene girano attorno alla candela? Molto bene, puoi fare il coppiere, a chi servirai il vino? Non esistono più né quei bevitori, né quelle taverne. Oggi una caraffa in frantumi piange per il coppiere, Le sue coppe fino a ieri erano ancora in circolazione. Silenti sono oggi quelle distese che cercavano l’amore, Là dove Lailah e gli amanti se ne stavano danzando. Delusione! Scomparsa è la ricchezza della carovana, Dal cuore della carovana è sparito il senso della perdita. Delle loro attività un tempo il deserto era florido, Spazzate via le città, deserte sono le loro abitazioni. Le preghiere che hanno fatto la grandezza dell’Unità, Quelle preghiere vengono ora fatte in India ai brahmani. In questo mondo l’osservanza della legge genera gli agi. All’onda dell’oceano la libertà è un preludio al lamento. La Manifestazione stessa era un anelito per quegli occhi Occhi che non speravano di ottenere la luce di Aiman. Migliaia di usignuoli svolazzavano nel giardino della rosa, Che è accaduto loro ché sono stati confinati nei propri nidi? Nello spazio celeste era vastissima la potenza del lampo, Quei lampi sono stati ora soddisfatti con parti del fienile. Perché dovrebbe l’occhio che sanguina ingraziarsi la rosa? Di lacrime continue gli occhi si sono saziati con i tizzoni. La notte di dolore ha portato il messaggio del mattino di ‘Id, Nell’oscurità della notte è apparso il raggio della speranza! Buone novelle giungono, o coppiere della taverna del Hijaz, Dopo tanti secoli i tuoi ubriaconi hanno ripreso coscienza. La ricchezza del rispetto di sé fu il prezzo del vino altrui, Ora il tuo negozio pullula di nuovo di richiami e bevute. Sul punto di crollare è la magia dei bianchi dell’India, L’occhio di Sulaima è foriero del messaggio di clamore. C’è clamore a ché il coppiere porti il vino fatto in casa, Che il vino dell’occidente ha zittito le rivolte del cuore. Canta perché questo non è il tempo per stare in silenzio, Il cielo dell’alba si porta sulle spalle il sole come caraffa. Brucia in sintonia con gli altri e falli anche bruciare, Ascolta se puoi, ti è stato portato un brillante hadith. Secondo gli avi la poesia fa parte dello status di profeta, Porta alla nazione la buona nuova dell’angelo messaggero! Risveglia l’occhio con la promessa della vista dell’Amato, Riporta in vita il cuore con il calore dell’abilità della parola. Il tuo amore per l’indulgenza ci ha derubato del coraggio, Nel deserto eri un oceano, nel giardino sei divenuto ruscello. Quando eri saldo nella tua purità, avevi con te la nazione, Partita la carovana della fragranza, la rosa è ora avvizzita. La vita della goccia contiene tutti i segreti dell’esistenza, È diventata ora perla, ora anche rugiada, ora anche lacrima. Ottenerla da un qualche dove è invero una grande ricchezza, Che cos’è la vita se il cuore è ora inconsapevole del petto? Il tuo onore dipende dall’organizzazione della nazione, Quando questa è crollata, tu sei diventato un mondo inutile. L’individuo è forte se la nazione è unita, altrimenti è nulla, L’onda conta solo nell’oceano, fuori dell’oceano è nulla. Serba ancora l’amore nascosto nel velo del tuo cuore, Non disonorare il tuo vino proprio come fa la caraffa. Innalza la tua tenda nella valle del Sinai come Kalim, Che la fiamma della verità distrugga gli agi della casa. La candela dovrebbe conoscere il risultato delle atrocità, Che le ceneri della falena possano ripristinare il mattino. Se hai rispetto di te non sentirti in obbligo con il coppiere, Nel mezzo dell’oceano capovolgi la coppa come bolla. Nessuna gioia resta nelle vecchie montagne e nei deserti, Il tuo amore è nuovo, tu dovresti ricreare nuovi deserti. Se il destino ti ha distrutto del tutto e completamente, Tramuta la caduta in una nuova verga come fa il seme. Sì, costruisci di nuovo il nido sullo stesso vecchio ramo, Rendi gli abitanti del roseto martiri del canto che attossica. In questo giardino sii allievo dell’usignuolo e della rosa, Diventa tutto un lamento o non produrre musica alcuna. Perché taci nel giardino come il riparo della rugiada, tu? Apri le tue labbra, sei la musica dell’arpa del mondo, tu! O contadino, renditi proprio conto della tua propria realtà! Tu sei grano, coltivazione, pioggia, tutta la produzione. Ah! di che cosa vai in cerca vagando senza scopo alcuno? Tu sei sentiero, viandante, guida, e destinazione anche. Perché trema il tuo cuore per il timore della tempesta? Tu sei marinaio, oceano, barca, e spiaggia del mare anche. Vieni e osserva qualche volta nel vicolo i collari spezzati, Tu sei Qais, Laila, il deserto, e lettiga del cammello anche. Guai alla stupidità, hai bisogno della presenza del coppiere, Tu sei il vino, la caraffa, il coppiere, e sei assemblea anche. Diventato una fiamma, brucia il ciarpame del senza Dio, Perché hai paura del falso? tu ne sei il distruttore anche. O insensato! Renditi conto invero della tua propria realtà, Sei goccia, ma la tua realtà è oceano immenso anche. Perché sei prigioniero dell’incantesimo delle inezie? Guarda, nascosta è in te la potenza della tempesta anche! Il tuo petto custodisce il messaggio d’amore di quell’Uno Che è Evidente e Occulto nel sistema di tutto l’universo. Che conquista il mondo tutto senza spada alcuna o fucile, Se comprendi, la materia tutta è nel tuo coraggio anche. O indolente! non ti rammenti più di quel patto di cui La collina di Faran è ancora oggi un testimone silente? O ignorante! Solo tu ti sei accontentato di un bocciuolo, Nel giardino c’è anche il rimedio alle tue piccole capacità! Lo stato del cuore si produce sotto il velo della parola, Nel velo della caraffa il vino è evidente e occulto anche. La mia emanazione musicale mi ha distrutto in cenere, Ed è proprio questo il vero materiale della mia vita! Osserva nel mio petto il segreto di questa musica forte, Osserva nello specchio del cuore la vista del destino! Il cielo brillerà come specchio nella luce del mattino, E scomparirà in breve tempo l’oscurità della notte! La brezza primaverile ispirerà così tante melodie che La fragranza silente dell’aiuola diverrà melodiosa! Gli afflitti nel giardino si uniranno ad altri afflitti, Lo zefiro diverrà compagno della riunione della rosa. Calore e musica produrrà il mio spruzzo di rugiada, Ogni bocciuolo del giardino apprezzerà il dolore! Vedrai il risultato della gloria del fluire del fiume, L’onda irrequieta diverrà catena alla sua caviglia! I cuori ascolteranno il messaggio della prostrazione, Le fronti ritorneranno a battere la polvere dell’Haram. Il lamento del cacciatore sarà nuovo per gli uccelli, Il bocciuolo si colorerà del sangue del coglitore. Le labbra non possono dire ciò che il cuore vede, Sono perso nello stupore di ciò che sarà il mondo! La notte forse scomparirà all’apparire del sole, Questo giardino si riempirà della luce del tohid. 100. IL MUSULMANO (giugno 1912) O Iqbal! Ogni tuo respiro è velato di sospiri, Il tuo petto che brucia è pieno di lamentazioni. Nell’arpa del cuore non c’è canto di speranza, Questa Laila non c’è sulla sella del cammello. Il tuo orecchio cerca il suono della lira passata, E il tuo cuore non ha mente per le cose d’oggi. I compagni nel roseto non odono il racconto, La gente nella riunione non ascolta il messaggio. Sta’ calma, campana della carovana dormiente! Sta’ calma, il tuo richiamo è davvero frustrante! L’antica assemlea non può più ritornare in vita, La candela non può più illuminare la notte di ieri. O compagno! Sono musulmano, araldo del tohid, Sin dall’eternità sono testimone di questa Verità. Da questa viene il calore del polso dell’universo, Da questa viene il coraggio del nostro pensiero. Per questa Verità Iddio ha creato l’universo, E ha creato me per esserne la sua sentinella. Sono stato il distruttore della falsa fede nel mondo, Sono diventato il protettore dell’onore della Vita. La mia vita è la coperta della nudità del mondo, La mia distruzione è la disgrazia della razza umana. Il musulmano è la stella del destino dell’universo, L’incanto del mattino, timido del proprio brillare. I segreti della vita si sono disvelati ai miei occhi, Non posso pensare di perdere la speranza della vita. Come mi fa paura la scena transitoria del dolore, La fiducia nel destino della mia nazione mi rafforza. Nel mio mondo non c’è posto per la disperazione, Lo zelo della lotta mi dà la nuova della piena vittoria. Sì, è vero, volgo gli occhi indietro ai tempi passati, Racconto la vecchia storia all’uditorio della riunione, La memoria del passato è l’elisir della mia vita. Il mio passato è l’intepretazione del mio futuro. Ho sempre dinanzi a me quel periodo piacevole, Io vedo il mio domani nello specchio dell’oggi. 101. DINANZI AL TRONO DEL PROFETA Quando io udii questa guerra infame del mondo in pena Feci fagotto di tutte le mie cose e me ne andai dal mondo. Pur passando la mia vita entro gli spazi del mattino e sera, Non mi riuscì di adattarmi al vecchio sistema del mondo. Gli angeli mi portarono dinanzi al trono del santo Profeta, Mi portarono in udienza dal simbolo della misericordia. Mi disse il Profeta:”O usignuolo del giardino del Hijaz! Ogni tuo bocciuolo è preso dal calore della tua musica. Il tuo cuore è in estasi per la coppa dell’unione con Dio, La tua supplica invidia le prostrazioni nell’amore di Dio. Nel tuo volo dal mondo terreno al mondo celestiale Gli angeli ti hanno insegnato l’eleganza del volare. Dal giardino del mondo sei giunto simile a fragranza, Con quale regalo sei tu venuto alla mia presenza?” “Signore, non si trova soddisfazione alcuna sulla terra, La vita di cui vado in cerca non è disponibile sulla terra. Nel giardino dell’essere ci sono migliaia di tulipani e rose, Ma il fiore profumato della fedeltà non esiste sulla terra. Ti ho portato come offerta la coppa del vino del fedele, Qualunque cosa contenga non esiste neppure nel paradiso. In questa coppa scintilla e splende l’onore della tua gente, In questa coppa c’è tutto il sangue dei martiri di Tripoli.” 102. UN OSPEDALE NEL HIJAZ Un esponente politico disse un giorno a Iqbal: “Un ospedale verrà aperto a Gedda nel Hijaz. Ogni granello della tua polvere non avrà pace, Quando qualcuno ti narrerà la storia del Hijaz. Muovi la mano dell’amore verso la tua tasca, Tu sei noto nel mondo come amante del Hijaz. L’ospedale verrà aperto nei sobborghi di Batha, Alle mani di Gesù è affidato il polso del malato”. Io risposi:”La vita giace nel velame della morte, Proprio come la verità nel velame della metafora. Ciò che l’amante ha avuto nello spazio della vita, Khizr non ha ottenuto nel vino della vita eterna. Signore, porta questo messaggio di vita agli altri, Io vado cercando la morte nella terra del Hijaz. Perché hai portato questo messaggio della sanità? Che interesse hanno gli amanti alla cura di Gesù?” 103. RISPOSTA ALLA PROTESTA Le parole che vengono dal cuore lasciano un segno, Non hanno le ali ma hanno tutta la forza di volare. Hanno origini pure e vere, poggiano su alte cime, Uscite dalla polvere, si fanno strada verso il cielo. Il mio amore fu così tentatore, ribelle e astuto, Il mio lamentarsi così silente da lacerare il cielo. Udendo, il cielo disse:”Qualcuno è in qualche dove!” I pianeti dissero:”C’è qualcuno in queste alte sfere!” La luna rispose:”No, è qualcuno dalla terra laggiù!” La via lattea disse:”È qualcuno che è qui nascosto!”. Solo Rizvan capì ciò che voleva dire la mia protesta E capì che io ero l’uomo cacciato via dal paradiso! Agli angeli questa voce arrivò come una sorpresa E il mistero non fu svelato agli abitanti dell’empireo. Potevano le altezze superne essere lo sforzo dell’uomo? Poteva il granello di polvere apprendere l’arte del volo? Quanto poco sanno delle forme gli abitanti della terra! Quanto sono insolenti e presuntuosi gli esseri umani! La sua insolenza è tale da imprecare contro Allah, È quell’Adamo al quale s’inchinarono gli angeli? Conosce invero i segreti della qualità e quantità Ma a lui sono sconosciuti i segreti dell’umiltà. Gli uomini sono orgogliosi della forza della parola, Questi ignoranti non sanno le modalità del parlare. Giunse una voce:”La tua storia è davvero patetica, La tua coppa di vino è colma di lacrime impazienti. Il clamore del tuo lamento ha raggiunto il cielo, Che audacia ha nel parlare la pazzia del tuo cuore! Hai reso dolce la protesta con la grazia della parola, Parlando alla pari con Dio gli uomini si sono elevati. Siamo inclini alla liberalità, ma nessuno la implora. A chi mostriamo la via? a chi indichiamo la strada? Il mio rimedio è per tutti, ma nessuno ne è degno, Non è rimasta più argilla per creare un altro Adamo. Se ce ne fosse uno degno, lo eleveremmo alla gloria. A coloro che cercano daremmo pure un mondo nuovo! Deboli sono le tue mani, l’eresia alberga nel tuo cuore, I “credenti” sono una fonte di disonore per il Profeta. I distruttori d’idoli sono andati via, restano gli idolatri, I figli di Abramo sono partiti, rimane la stirpe di Azar. Nuovi sono i bevitori di vino, il vino e le caraffe pure, Nuova è la Ka’ba, nuovi gli idoli, voi stessi pure nuovi. C’era un tempo in cui solo Questi era fonte sublime, Il tulipano era l’orgoglio del deserto nel tempo dei fiori! C’erano giorni in cui i musulmani erano pazzi per Allah; Un tempo Questi che era il vostro amore, è ora negletto. Andate ad offrire la vostra fede a un qualche dio locale E confinate la fede di Ahmed in un qualche dio locale. Pesa il risvegliarsi al mattino, quanto siete riluttanti voi! Ci amate veramente? amate invero il vostro sonno, voi. Pesa la restrizione di ramazan sulla vostra natura libera; Chiedetevi:”È proprio questa la maniera della fedeltà”? Una comunità è legata dalla fede, senza fede non esiste; Se non c’è attrazione, non c’è una unità ma dissoluzione. L’unico popolo al mondo senza arte né parte siete voi, L’unica comunità che trascura il proprio nido siete voi. Il raccolto, che custodisce il fuoco del lampo, siete voi. I venditori delle tombe dei propri antenati, siete solo voi. Trafficando in tombe avete ottenuto questa nomea, voi. A nulla serve impedirvi di vendere gli idoli di pietra. Chi ha cancellato la falsa fede dalle pagine del tempo? Chi ha salvato la razza umana dal diventare schiavi? Chi ha ripulito la mia Ka’ba con la propria fronte? Chi ha racchiuso nei petti reverenti il mio Corano? Sono stati i vostri antenati invero, e voi che cosa siete? Ve ne state con le mani in mano in attesa del domani. Che avete detto? ai seguaci abbiamo promesso le huri! La protesta dev’essere misurata anche se si ha ragione! Dall’inizio dei tempi la giustizia è stata la nostra regola, Gli infedeli che agivano da musulmani ebbero i doni. Non c’è proprio uno solo tra di voi che desideri le huri, Non c’è nessun Mosè che miri lo splendore del Sinai. Il vantaggio di questa comunità è uno, una è la perdita. Uno solo è il Profeta, una è la religione, uno è l’Iman. Il recinto sacro è uno, Iddio è uno, il Corano è uno. Era davvero una cosa difficile unire tutti i musulmani? Ovunque abbondano le sette ed esistono così tante caste! Sono queste oggigiorno le vie del progresso nel mondo? Chi ha abbandonato le leggi del Messaggero prescelto? Chi ha adattato ai tempi la misura delle proprie azioni? Quali occhi sono stati presi dalle abitudini straniere? Chi ha allontanato lo sguardo dalle abitudini degli avi? Nei cuori non c’è passione, negli animi non c’è grazia, Del messaggio di Muhammad nulla è rimasto in voi. Sono solo i poveri coloro che frequentano le moschee, Sono i poveri coloro che sopportano digiuni e dolori. Se qualcuno loda il nostro nome, questi sono i poveri, Se qualcuno nasconde i vostri misfatti, sono i poveri. I nobili vivono nel tossico degli agi, immemori di Noi, La comunità illuminata vive per il respiro dei poveri. I predicatori della comunità sono immaturi e vuoti, Non c’è in loro luce naturale, né fuoco nelle parole. L’azan è solo un rito, lo spirito di Bilal se n’è andato. La filosofia è monca, la parola di Ghazzali è sparita. Le moschee si lamentano ché i devoti non pregano più, Non più gli uomini con le qualità del popolo del Hijaz. Si dice che i musulmani siano scomparsi dal mondo. Ci chiediamo:”Esistono i musulmani in qualche dove?”. Il vostro modo è cristiano, la vostra cultura è hindu. Sono questi i musulmani? un ebreo si vergognerebbe. Voi siete tutti nobili di Arabia, persiani e afghani; Voi siete tutto questo; diteci, siete anche musulmani? Nella parola del musulmano c’era il coraggio del vero, In lui il senso di giustizia era saldo, sincero, e meditato. Un albero di saggezza era il musulmano, e modesto; Per coraggio era un mondo, il suo valore era superiore. Il calore interiore era l’essenza della qualità del vino, Il versare era l’essenza e l’abitudine della sua caraffa. Ogni musulmano era un coltello per la vena del falso, Nello specchio della sua vita il gioiello era l’azione. Alla forza del suo braccio si poteva fare affidamento, In voi c’è il timore della morte, in lui il timore di Dio. Se il sapere e l’arte del padre non passano al figlio, Come può un figlio essere degno dell’eredità paterna? Ognuno di voi è attossicato dal vino dell’indulgenza. Siete voi musulmani? È questo lo stile dei musulmani? Dov’è la povertà di Haidar, la ricchezza di ‘Othman. Che relazione spirituale esiste tra voi e i vostri antenati? Essi come musulmani furono in quel tempo rispettati, Voi, abbandonando il Corano, siete diventati dei reietti. Tra voi ci sono sempre litigi, tra loro sempre misericordia, Voi fate errori su errori, essi generosi coprono gli errori. Voi desiderate stare alle altezze superne delle Pleiadi, Perché il sogno si avveri bisogna avere un cuore sincero. Loro era il trono di Persia, loro anche il regno del Cathai. Rispondetemi: “C’è in voi ancora un senso dell’onore?”. Il vostro modo è il suicidio, il loro l’onore e l’autocontrollo. Voi evitate la fratellanza, essi s’immolavano per i fratelli. Voi parlate e parlate soltanto, essi agivano da capo a piedi. Voi spasimate per i bocciuoli, essi erano in cerca del roseto. Ancor oggi in tutte le nazioni c’è il ricordo della loro storia, Nel libro dell’esistenza sono inscritte tutte le loro azioni. Oh se come stelle riluceste sull’orizzonte della nazione! Siete innamorati delle statue indiane e divenuti brahmani. Nel desiderio di volare avete abbandonato anche il nido, I giovani impigritisi hanno abbandonato la propria fede. La civiltà li ha liberati da qualunque vincolo o legaccio, Allontanati dalla Ka’ba per portarli nelle case degli idoli. Dov’è un Qais che sopporti il tormento della solitudine? Hanno respirato l’aria di città, questo è il vino della coppa. Quegli è pazzo d’amore, può o non può rimanere in città, Ma non c’è ragione perché Lailah non sollevi il suo velo. Basta lamentarsi sempre contro la tirannia e l’ingiustizia! Se l’amore è libero, perché non è libera anche la bellezza? La nuova epoca è un lampo, ogni granaio si consuma pure, Né il deserto né il giardino di rose sono immuni da attacchi. Per questa fiamma le vecchie nazioni sono il combustibile. I seguaci dell’ultimo Profeta si consumano nel suo fuoco. Se oggi la religione di Abramo tornasse a nascere di nuovo, Dal fuoco che infuria rinascerebbe di sicuro un giardino. Guardando lo stato del giardino non si affanni il giardiniere, Bocciuoli come stelle germoglieranno in quantità sui rami. Molto presto con una ramazza il giardino verrà ripulito tutto, E dal sangue rosso dei martiri fioriranno i bocciuoli di rose: Guarda come è diventato rosso il colore del firmamento! La luce dell’orizzonte annuncia la nascita di un nuovo sole. Nel giardino dell’esistenza ci sono nazioni che colgono frutti, Altre ne sono prive o distrutte a causa di una cattiva stagione. Centinaia di palme avvizziscono, centinaia diventano verdi, Innumerevoli se ne restano nascoste nel grembo del giardino. La pianta dell’Islam è per tutti un esempio di prosperità, Questo fiore è il frutto degli sforzi di tanti secoli nel giardino. I tuoi abiti sono puri della polvere della patria e incontaminati, Tu sei quel Giuseppe che in Egitto va in cerca della sua Cana. La tua carovana non sarà mai depredata né andrà mai distrutta, Non trasporta alcun bagaglio tranne il richiamo della tromba. Sei come una candela, le tue radici sono lo stoppino del fuoco, I tuoi pensieri non conoscono gli affanni degli ultimi giorni. Per te non ci sarà morte alcuna anche se l’intero Iran morisse, Il tossico del vino non ha rapporto con la coppa che lo contiene. Dai racconti e dalle narrazioni delle invasioni tartare balza chiaro Che la Ka’ba ha avuto proprio dai templi pagani i suoi custodi. La barca della verità scivola nel mondo, e tu ne sei il timoniere; È la notte della nuova età, tu sei la stella che perfora la foschia. Il tumulto causato dall’aggressione bulgara che è agli inizi Per i tiepidi e i negligenti è diventato un messaggio di risveglio. Tu comprendi che questi sono preparativi che attristano i cuori. È questa anche una prova del tuo altruismo e autocontrollo. Perché hai paura e tremi per le cariche dei cavalli dei nemici? La luce della Verità non può esser spenta dal respiro dei nemici. Segreta e nascosta è ancora la tua verità alle nazioni del mondo, L’assemblea del mondo ha ancora bisogno e necessità di te. Il mondo intero continua a vivere per il tuo respiro e il calore, Tu sei la stella del destino dell’esistenza, tu ne sei anche la guida. Dov’è il tempo per riposarsi ora ? c’è ancora tanto da lavorare. C’è ancora da diffondere e spargere la luce dell’Unico Vero Dio. Nel bocciuolo è il profumo che attira, si sparga il turbamento, Il fardello del viandante sulle ali della brezza del giardino di rose. Tu sei una particella, possa essa estendersi tutta ad una vastità. Il mormorio dell’onda possa mutarsi in un tumulto di uragano. Con il potere dell’amore si sollevino gli umili alle alte sfere, Il nome di Muhammad ritorni ad illuminare il mondo intero. Se non ci fosse il fiore, non ci sarebbe il canto dell’usignuolo, Nei giardini del mondo non ci sarebbe il sorriso dei bocciuoli. Se non ci fosse il coppiere, non ci sarebbe né vino né caraffa, Non ci sarebbe nel mondo il banchetto dell’Unico Dio, né tu. Il Suo nome è la tenda che sostiene il canopo dell’universo, Il Suo nome è il polso dell’esistenza che palpita nelle vene. Egli è nei deserti, nei declivi dei monti, nelle pianure, ovunque. Egli è nei mari, nel grembo delle onde, nelle tempeste, ovunque. Egli è nelle città della Cina e nei deserti del Marocco, ovunque. E si nasconde anche nella fede e nel credo di ogni musulmano. Possa l’occhio del mondo osservare questa scena sino alla fine, E vedere l’esaltazione della grandezza del Tuo nome sublime. Quella pupilla nell’occhio della terra, nel mondo dei non- bianchi, Quel mondo che ha generato e allevato e nutrito i tuoi martiri. Il mondo della Luna Crescente reso fertile dalla vampa del sole, Il mondo che i fedeli d’amore chiamano tutta la terra di Bilal. Quel mondo simile al mercurio palpita al suono del Suo nome, Quel mondo simile alla pupilla dell’occhio sprofondata nella luce. L’intelletto ne sia il tuo scudo, l’amore ne sia anche la tua spada. O mio derviscio! la tua vicereggenza sia la conquista del mondo. Il tuo Allah-o akbar è il fuoco che va oltre e al di là di Dio. Se siete musulmani, il vostro destino è la prudenza e l’azione, Se terrete fede a Muhammad, noi saremo di voi, con voi e per voi. Che cos’è quest’universo se non la tavola e la penna del destino. 104. IL COPPIERE Ognuno sa come si distrugge un individuo con i tossici, Il bello è riportare l’intossicato alla sanità, o coppiere! A poco a poco scompaiono i vecchi bevitori di vino, Coppiere, porta da qualche dove l’acqua dell’immortalità. Tutta la tua notte è trascorsa nel tumulto e nel clamore, O coppiere l’alba ci fa rammentare che Iddio è vicino! 105. L’ISTRUZIONE E I SUOI EFFETTI (su un verso di Mullah ‘Arshi) Anche se siamo lieti per il progresso della gioventù, Pure dalle labbra liete giunge un qualche lamento. Pensavamo che l’istruzione avrebbe portato felicità, Nessuno sapeva che avrebbe portato con sé l’ateismo. Shirin ha portato splendore nella casa di Parviz, Ma ella ha anche portato con sé l’ascia di Farhad. “Prendiamo un nuovo seme in mano e seminiamolo, Ci vergogniamo di prendere ciò che abbiamo seminato”. 106. AL SERVIZIO DEI POTENTI Non può sparire la distinzione tra potente e suddito, Il mendicante non può pensare di essere uguale al re. Nel mondo adorare il potente è l’apice della devozione, Compiaci il potente e riceverai una bella veste di gala. Ma se il tuo scopo è quello di compiacere il potente, Riceverai il titolo di alto funzionario e antinazionalista. La vecchia usanza porta con sé innumerevoli difficoltà, Nel nuovo ordine delle cose tu sei libero dagli affanni. La vera gioia è nel trascorrere la propria vita così, “Avere in bocca innumerevoli parole e labbra silenti”. Quest’unico principio è il supporto di una vita pacifica, “Tu sei il mendicante prigioniero, o Hafiz, fa’ silenzio”. Ma se tu sei incline al clamore allora incominciamo! “Afferra il vino sacro, e bevilo al suono dell’arpa”. Unisciti all’assemblea dei ricchi, al ministro e al re, Fa’ a pezzi la tua coscienza con la pietra dell’avidità. Ascolta ad ogni modo il messaggio dell’uomo di Shiraz, Che è pure il secrétaire del venditore della coscienza. “La luce del fulgore è l’opinione brillante del sovrano. Se vuoi stare al suo servizio, abbi un’intenzione pura”. 107. IL POETA Scende giù dal monte il ruscello melodioso, Ha bevuto il vino rosso dalla fonte della taverna. Ascolta ora il messaggio del girovago in estasi, È vivo solo colui che non si preoccupa del riposo. Nelle valli passeggia l’elegante figlia della nuvola, Ella fa mostra del suo amore per il verde del prato. Rubando alla taverna del monte la coppa di vino, Abbeverando i campi cammina tra gli alti e bassi. Se anche l’affezionato poeta mostra la verità, I campi coltivati verdeggiano per i suoi doni. I suoi versi mettono in mostra la gloria di Kalim Quando la nazione mette in mostra i modi di Azar. Per i popoli della terra è la ricetta della vita eterna, La letteratura nutrita nei modi più veri e sinceri. Se nel giardino il vino della letteratura non esiste, Fiore, bocciuolo, pianta, giardino non esisteranno. 108. LA BUONA NOVELLA DEL MATTINO (1912) Quando da oriente giunge l’alba piena di azione, Il silenzio se ne va via dallo scenario della vita. Finisce la calma dell’assemblea della natura, Ogni cosa dà una dimostrazione della sua vita. Gli uccelli cinguettano al messaggio della vita, I fiori nel giardino indossano le vesti della vita. O musulmano, destati! Impegnati nell’azione! L’orizzonte si illumina, impegnati nell’azione! Nell’universo tu sia un viandante come il sole, Sì che il cielo non diventi macchie nubilose. Sguainando la spada del sole gettati nella lotta, Insegna le regole all’oscurità della falsità. Sei tutto luce, manifestarla ti rende felice, E manifestatala è un tuo dovere diffonderla. Sì! manifestatala, diventa luce per la talpa, Svela il mistero celato del cuore del mondo! 109. PREGHIERA O Dio! Da’ al cuore del musulmano il desiderio Che riscaldi il cuore e dia un ardore all’anima. Brilli ogni grano di polvere della valle di Faran, Aspiri allo spettacolo, gusti la supplica richiesta. Da’ a chi è privo dello spettacolo l’occhio vigile, Ciò che ho veduto, da’ anche agli altri la vista. Guida anche il daino fuorviato verso l’haram, Da’ a chi è uso alla città la vastità del deserto. Da’ al cuore sperduto il tumulto del dì finale, Da’ anche alla vuota sella l’amante di Lailah. Nel buio di questa epoca ad ogni cuore turbato Da’ quel segno d’amore che imbarazza la luna. Dirigi gli scopi dei musulmani verso le Pleiadi, Da’ all’oceano il rispetto di sé, la libertà al mare. Puro dovrebbe essere l’amore, indomito il candore, Da’ ai cuori la luce, falli diventare come cristallo. Da’ loro il sentimento dei segnali delle calamità, Da’ nel tumulto d’oggi l’interesse per il domani. Sono l’usignuolo che piange nel giardino in rovina, Sono il supplice, o benevolente, dacci l’elemosina. 110. IN RISPOSTA AD UNA RICHIESTA DI SCRIVERE VERSI PER ‘ID Nel giardino di Shalamar una foglia ingiallita diceva: “Se n’è andata quella primavera che mi era amica. I visitatori del giardino non dovrebbero calpestarmi, Io sono il ricordo del ramo del loro proprio nido”. Questa piccola foglia ha messo in subbuglio il cuore, Io sono il lamento della primavera in questo giardino. In autunno vado piangendo al ricordo della primavera. Come posso essere felice a ‘Id addolorato come sono! Deserte sono divenute le taverne dei vecchi giorni, Io sono un ricordo dei bevitori dei vecchi giorni. Ci porta il messaggio del piacere e della felicità! La luna crescente di ‘Id si sta facendo beffa di noi! 111. FATIMAH BINT-I ‘ABD ALLAH (Ragazza araba, portatrice d’acqua ai combattenti, che morì durante la battaglia di Tripoli nel 1912) Fatimah, tu sei l’onore della nazione benedetta, I granelli della tua manciata di polvere sono puri. O ninfa del deserto, nel tuo destino era la felicità, Portare acqua ai combattenti era il tuo destino. Questa guerra santa per Dio era per te senz’armi! Coraggio ti ispirava questo desiderio di martirio! Questo bocciuolo esisteva nel giardino autunnale! O Dio, questa scintilla si celava nelle tue ceneri! Nel nostro deserto si celano ancora molti daini, Molti lampi dormienti nella nuvola che è pioggia! Fatimah, se nel tuo dolore l’occhio versa rugiada, Nel nostro dolore si cela la melodia del piacere. Che piacere c’è nella danza della tua polvere! Ogni particella è piena del calore della tua vita! Nella tua tomba silente c’è tutto un movimento, Una nazione si innalza in questo tuo grembo. Inconsapevole della vastità degli scopi io sono, Da questa tomba percepisco la loro rinascita. Nuove stelle sorgono nello spazio del cielo celeste, Le loro onde di luce sono strane all’occhio umano. Sono da poco sorte dalla casa oscura del tempo, Le loro luci sono inconscie del giorno e della notte. Nel loro brillare ci sono le vecchie e nuove maniere, E ci sono anche le ombre delle stelle del tuo destino. 112. LA RUGIADA E LE STELLE Una notte le stelle presero a dire alla rugiada: “Ogni mattina tu puoi vedere nuove visioni. Chi sa quanti altri nuovi mondi tu hai visto! Rovine di quelli che sorsero e decaddero poi. Da un angelo Venere ha avuto questa notizia, Quella casa umana è molto lontana dal cielo. Raccontaci la storia di questo bel reame, La canzone dell’amore che la luna canta”. “O stelle, non chiedetemi del giardino terreno, Luogo di dolori e lamenti è, non è un giardino. Lo zefiro giunge da lì solo per ritornare qui, Il povero bocciuolo si apre solo per avvizzire. Che dirvi come il bocciuolo illumini il giardino, Il bocciuolo del fiore è una fiamma senza calore. La rosa non può udire il richiamo dell’usignuolo, Non può cogliere le perle chiuse nella mia veste. Gli uccelli canori sono prigionieri, che vergogna! Le spine crescono sotto la rosa, che vergogna! Bagnato resta sempre l’occhio del narciso pallido, Il cuore desidera la vista, ma l’occhio non ha vista. L’olmo è tormentato dal calore della lamentazione, L’olmo è libero di nome, ma prigioniero in realtà. Le stelle sono faville di sospiri all’occhio umano, Nel linguaggio della rosa sono un grido di lamento. La rotazione della luna con la terra è ignoranza, Pensa che sia lì la cura della propria ferita d’amore. Le fondamenta della casa del mondo sono nell’aria! Sono la scena del lamento nelle pagine dello spazio! 113. L’ASSEDIO DI ADRIANOPOLI Quando scoppiò la guerra tra il vero e il falso, La verità fu costretta a snudare la sua spada. La polvere della Croce assediò la Mezzaluna, Shakri fu assediato nel forte di Adrianopoli. I soldati musulmani esaurirono le vettovaglie, Ai loro occhi scomparve il volto della speranza Infine risuonarono gli ordini del comandante, La legge marziale diventò la legge della città. Si trasferì tutto al deposito dell’accampamento, L’aquila prese a mendicare il miglio del passero. Ma non appena il faqih della città sentì questo, La sua ira esplose come un fulmine del Sinai. All’esercito sono vietati i beni del dhimmi, Quest’editto fu pubblicato per tutta la città. L’esercito non poteva prendere i loro averi, Ai musulmani era vietato per comando divino! 114. GHULAM QADIR RUHILAH Che crudele, tiranno, e vendicativo fu il Ruhilah, Accecò l’imperatore moghul con la punta della spada. Il tiranno ordinò ai membri della corte di danzare, Il tiranno non fu che il segnale del giorno del giudizio. Per le delicate signore della casata reale fu un ordine, Un ordine vergognoso invero impossibile da eseguire. Ah! Il senza pietà fece di tutte loro oggetti di piacere, La loro bellezza velata dal sole, dalla luna e stelle. Singhiozzavano i cuori, si muovevano a forza i piedi, Un fiume di sangue scendeva dai loro occhi regali. Per un tempo gli occhi di lui furono assorti a vedere, Confuso, si liberò poi la testa dal peso dell’elmetto. Snudò dalla vita la spada mortale, vomitante fuoco, affilata come fosse una fonte di luce per le stelle. Mise la spada dinanzi a sé e ristette nei suoi pensieri, Il sonno chiedeva un riposo agli occhi arrossati. L’acqua del sonno spense le faville degli occhi, La vista del tiranno si vergognò dello spettacolo. Si alzò e così prese a dire alla casata dei Timuridi: “Non dovreste lamentarvi contro il vostro destino. Il mio dormire era solo mostra, un’ostentazione, Ché lo stupore è estraneo alla dignità della lotta. Temevo che una qualche figlia del Timuride Mi uccidesse, inconscio, con la mia propria spada. Ma questo segreto si è rivelato a tutto il mondo, L’onore ha abbandonato la casata dei Timuridi”. 115. UN CONVERSAZIONE L’uccello domestico disse un giorno al selvatico: “Tu possiedi le ali, non possiedo anch’io le ali? Tu sei nato per l’aria, anch’io sono nato per l’aria, Tu sei libero, anch’io non sono un prigioniero. Caratteristica di tutte le creature umane è il volo. Perché allora gli uccelli selvatici sono arroganti?” Ferito nell’amor proprio, l’uccello selvatico All’udire queste parole laceranti così rispose: “Nessun dubbio che anche tu sia libero di volare, Ma il tuo volo si limita al muro del giardino. Conosci tu il coraggio degli uccelli selvatici? Tu vivi di polvere, essi vivono del cielo. Tu sei domestico, cerchi il cibo nella polvere, Noi colpiamo le stelle in cerca dei granelli. 116. IO E TU Il mio occhio non conosce il gusto della vista, Il tuo occhio conosce il segreto della natura, eh? La mia lingua esprime lamenti contro il tempo, Dal tuo volere dipende il moto della terra, eh? Il cielo mi fa vagare nel giardino come brezza, Il cielo ti ha dato una dimora sopra di te, e che? La tua vita è esente dal desiderio del guadagno, Nel mio cuore c’è l’ansia della perdita, e che? I tuoi aeroplani si librano su in alto nell’aria, La mia nave non ha cordami e vele, e che? Ero diventato forte, sono ora debole, e che? Questo era accaduto, questo è accaduto, e che? Non esiste tranquillità alcuna in questo roseto! Tu sei divenuta primavera, io autunno, e che? 117. VERSI RIPRESI DA ABU TALIM KALIM Strano è il tuo comportamento per il Profeta, La tua vita dimostra che non sei musulmano Il gioiello che il cielo ha messo nel tuo anello O Salomone, l’hai perso per la tua negligenza! Il segno della prostrazione brillante come stella, Quel segno ora la tua fronte non conosce più! Osserva le tue azioni, prevedevi tutto questo? Quel candore sempre bello per il senza timore? L’occhio dei tuoi avi era fulmine per il falso, Quella stessa falsità alberga ora nel tuo cuore. O negligente, torna ad abitare la tua dimora, Il perspicace Kalim canta sul Sinai dello spirito. “Devi sottometterti a colui al quale ti ribellasti, Ovunque tu andasti via come fiamma, ritorna.” 118. SHIBLI E HALI Un giorno Iqbal si rivolse a un musulmano: “La tua esistenza è davvero unica nell’universo. I suoni del vecchio canto sono il nuovo sapere, La civiltà è la polvere delle vecchie carovane. Ogni soffio di zefiro è come una pietra per lei, Delicato è lo specchio dell’onore dell’uomo. Scoprendo le cause dei fenomeni gli uomini Trovano la cura delle crudeltà del cielo blu. Chiedi loro chi siano i custodi del giardino, Come l’autunno sia in lotta con il giardino”. Al mio dire il musulmano restò senza parola, Un triste sospiro rivelò il suo interno dolore. “Osserva lo stato dell’autunno – egli rispose Secche sono le foglie dell’albero della vita. Silenti sono i custodi del segreto del giardino, La loro dolente melodia ne era la fertilità. Gli abitanti del giardino piangevano per Shibli Quando anche Hali se ne partì per il paradiso. “Davvero uno sciocco è chi chiede al giardiniere Che cosa ha detto l’usignuolo, la rosa, lo zefiro?” 119. L’EVOLUZIONE Dall’eternità ai nostri giorni è andata avanti la lotta Tra il lampo di Mustafa e la scintilla di Abu Lahab. La vita è fatta di fiamma, mente aperta e fervore, Per sua natura risolve difficoltà, sopporta crudeltà. Dalla calma della sera sino al canto del mattino Ci sono tante fermate nel lamento della mezzanotte! C’è lotta tra caldo e freddo, tra palpiti e creazioni, Dalla polvere oscura al vetro lavorato ad Aleppo! Fare e distruggere, spremere, scaldare e distillare, Tra la goccia di pioggia primaverile e il vino caldo! Solo per questa lotta incessante vivono le nazioni, Solo questo è il segreto della lotta della nazione araba! “I custodi della taverna distillano il vino dall’uva, Fanno a pezzi le stelle e costruiscono il loro sole”. 120. SIDDIQ Un giorno il santo Profeta si rivolse ai suoi fedeli: “Chi ha ricchezze deve darle per la causa di Dio”. Udendo quel comando ‘Omar fu preso da felicità, Quel giorno aveva avuto molte migliaia di dirham. Quel giorno egli disse a sé stesso che sicuramente Quel giorno avrebbe potuto anche superare Siddiq. Poi portò le sue ricchezze di fronte al santo Profeta, Quell’azione era l’inizio del sacrificio necessario. Il santo Profeta gli si rivolse dicendo: “O ‘Omar! Il tuo amore per Dio è la consolazione del cuore! Hai tenuto in serbo qualcosa per la tua famiglia? Il musulmano è responsabile dei diritti familiari”. E quegli esclamò:”Metà è del figlio e della moglie, Il resto è una donazione alla comunità in sacrificio”. Poco dopo giunse anche quell’amico del Profeta che era le fondamenta e le basi di quell’amore. Quell’uomo che era di provata fede portò con sé Tutto quanto era onorevole nell’occhio del mondo. Quanto la mano destra aveva, in denaro e averi, Cavalcature, bei cavalli, cammelli, muli e asinelli. E il Profeta “Anche tu devi curarti della famiglia”; Rispose quel custode del segreto d’amore e fedeltà: “O tu che dai luce agli occhi della luna e delle stelle, Che sei divenuto ragione del creato e dell’universo. Lampada per la falena, fiore per l’usignuolo, basta a Siddiq, a lui è sufficiente solo il Profeta di Allah!” 121. LA CIVILTÀ PRESENTE (Versi ripresi da Faizi ) Forte è il calore del vino della civiltà presente, In fiamme è il corpo di creta del musulmano. La particella è fuoco fatto di luce in prestito, Guarda com’è l’inganno dello splendido sole. Nuovi modi ha trovato la natura dei giovani, La bellezza, la vivacità, la libertà, il coraggio. Nel fare e pensare è venuto un cambiamento, Banale è il fiore del giardino che dà amore. I nuovi uccelli hanno perduto il loro nido, ma L’astuzia del mago ha dato loro nuova vista. La nuova vita ha recato loro piaceri mutevoli, Rivalità, coscienza venduta, impazienza, avidità. Nella seduta del musulmano brilla la nuova luce, Ma la mia saggezza di un tempo dice alle falene “O falena! La candela ti ha dato questo calore, Brucia nel tuo fuoco se il tuo cuore è caldo”. 122. NEL RICORDO DELLA MADRE MORTA Ogni particella dell’universo è prigioniera del destino, La prudenza è una coperta dell’impotenza e costrizione. Il cielo, il sole, la luna sono tutti avvolti nell’impotenza, Le stelle che si muovono veloci sono costrette a muoversi. La fine del vaso di fiori nel giardino è quella di rompersi, Le piante e i fiori nel giardino sono costretti a crescere. Il canto dell’usignuolo o il richiamo silente della coscienza, Ogni cosa è incatenata nella catena stessa dell’universo! Quando il segreto dell’impotenza è evidente all’occhio L’inondazione turbinosa delle lacrime nel cuore si secca. Nel cuore umano non resta né danza di piacere né dolore, Il canto rimane ma non il piacere dei toni acuti e bassi. Sapere e saggezza ti derubano di lacrime e tanti sospiri, Il cuore che sa discernere è solo un pezzo di diamante! La frescura della rugiada non esiste nel mio giardino, Il mio occhio non si arricchisce più di cocenti lacrime. Ah! Sono conscio del segreto delle afflizioni umane, Ma la mia orchestra non conosce il canto del lamento. Alle mie labbra non giungono le traversie del tempo, Il mio cuore non ne è attonito, non risa, non pianti. Ma, o messaggero, il tuo quadro è un costante lamento, Ah! questa è la contraddizione della mia ferma saggezza! Le basi della vita durano con il lamento che fuoriesce, L’intelletto dal cuore duro è imbarazzato dal dolore. Il mio specchio riluce per l’onda del fumo dei sospiri, La mia veste è colma del tesoro e ricchezza di lacrime. Il miracolo del tuo quadro ha non poco sorpreso me, Ché ha completamente tramutato il volo del tempo. Come se avesse portato con sé il passato e il presente, Mi ha riportato di nuovo indietro al tempo dell’infanzia. Quando quella debole anima era nutrita al tuo fianco, Quando la lingua non era ancora abituata al parlare. E ora le preziosità della lingua sono oggetto del parlare, E le perle versate dagli occhi preziosi sono senza prezzo. I discorsi seri del sapere, l’acutezza dei vecchi tempi, La dignità degli onori mondani, l’orgoglio giovanile. Discendiamo dalla posizione di alta dignità nella vita, Discendiamo come un fanciullo nel grembo della madre. Noi sorridiamo in maniera informale, liberi da cure, Viviamo ancora una volta nello stesso paradiso perduto. Ah! Chi sarà ancora in mia attesa nella casa materna? Chi non si darà pace quando non giunge la mia lettera? Verrò alla tua tomba portando con me questo lamento, Con quali pensieri verrò alle preghiere di mezzanotte? Fortunato come le stelle sono stato allevato da te, La casa dei miei antenati era divenuta fonte di orgoglio. La tua vita fu scritta a lettere d’oro nel libro della vita, La tua vita fu lezione di educazione secolare e religiosa. Il tuo amore rimase con me per tutta la tua intera vita, E quando ero in grado di servirti tu non sopravvivesti. Quel giovane che in statura eguaglia un cipresso snello, Molto più fortunato nel servire te di quanto lo fui io, Quel mio compagno a me vicino nelle cose della vita, Quel ritratto di te nell’affetto, fonte della mia forza. È in lacrime e pianti per te, come un bimbo inerme, È in lacrime senza tregua dalla mattina fino alla sera. Il seme dell’amore che tu seminasti nella nostra vita, Dal dolore della separazione quell’amore è più saldo. Ah! questo mondo, casa di dolore per giovani e vecchi! In che strana carcere mutevole è l’uomo imprigionato! Com’è difficile il vivere! E com’è facile il morire! Nel giardino della vita la morte non vale una brezza! Terremoti, fulmini, carestie, afflizioni si verificano, Quanto sono diverse le figlie della madre del tempo! Nell’abituro del povero, nella casa del ricco è morte, Nella foresta o casa, nel giardino o deserto, è morte. La morte imperversa implacabile nell’oceano silente, La morte fa naufragare nel suo seno le imbarcazioni. Non esistono né abilità di lamento, né potere di parola, La morte non è null’altro che un nodo stretto alla gola. Nella carovana non c’è che il lamento del sonaglio, Non esiste nulla se non l’occhio prezioso che lacrima! Ma questo periodo di dura prova giungerà ad una fine, Dietro le nove orbite del cielo ci sono altre orbite anche. E che se tulipani e rose in questo giardino sono tristi? E che se gli usignuoli devono lamentarsi e piangere? I cespugli, ora bruciati e arsi dai sospiri dell’autunno, Rinverdiranno alle brezze della rinascente primavera. E che se la scintilla dorme nella polvere dello scudo? E che se vive in questa manciata di polvere attuale? La fine della fiamma della vita non è nelle ceneri! Non è questo il gioiello che ha per scopo il rompersi! La vita è talmente cara e amata nell’occhio della natura, La preservazione della vita è nella natura di tutte le cose. Se la mano della morte cancellasse il quadro della vita, Il sistema dell’universo non l’avrebbe resa così comune. Se è a poco prezzo, pensa che la morte non è che nulla, Proprio come non c’è in vita una separazione dal sonno. O imprudente! Il profondo segreto della morte è diverso! L’incertezza del quadro dimostra che è qualcosa diverso! La raffigurazione del vento sull’acqua è vista paradisiaca, Rompendosi nell’onda irrequieta essa produce le bolle. Si nasconde di nuovo nella gonna della veste dell’onda! Come distrugge senza pietà la sua propria raffigurazione. Se il vento non potesse ricreare di nuovo le proprie bolle, Non le avrebbe distrutte in una maniera così sbadata! Qual è l’effetto di quest’uso sulla forma della creazione? Questa è la prova della potenza del vento sulla creazione. Se la natura dell’esistenza non fosse in cerca del desiderio, Non sarebbe mai alla ricerca di una forma migliore! Ah! Il mercurio irrequieto, le stelle luccicanti nel cielo, Il calore di tutte queste scintille è vincolato alla notte. Stupefacente è per l’intelletto la loro condizione antica, Per loro la storia della razza umana è un mero momento. Quest’uomo che rivolge la sua visione al mondo celeste, Che è più immacolato degli angeli nelle sue intenzioni, Che si accende come candela nella riunione della natura, Non è che un puntino nella vastità del mondo celestiale. Quest’uomo ignorante, irrequieto per conoscere la verità, Quest’uomo la cui unghia è il plettro dell’arpa della vita, È questa fiamma forse inferiore alle scintille del cielo? È il nostro sole forse meno prezioso delle stesse stelle? L’occhio del seme del fiore è vivo anche sotto la terra, Com’è irrequieto di crescere e svilupparsi questo seme. La fiamma della vita che si nasconde in questo granello Vive sotto la costrizione di autoaffermarsi e crescere. Persino nel freddo della bara non perde il suo spirito, Persino nella sepoltura sotto terra non diviene freddo! Diventando fiore, il seme fuoriesce dalla sua tomba, Dalla morte il seme riceve così il vestimento della vita. La tomba organizza e riunisce le forze sparse qua e là, Gettando la sua scala di corda attorno al collo del cielo. Morte è il nome del rinnovamento del gusto della vita, Dietro il velo del sonno c’è un messaggio di risveglio. Chi è abituato al volo non ha paura o timore del volo! In questo giardino la morte è solo preparazione al volo! Si dice che il dolore della morte non possa essere curato, Pure il balsamo del tempo cura la ferita della separazione. Ma il cuore dove vive il dolore per la persona scomparsa È libero dal laccio della catena della mattina e della sera. Il gemito del dolore non si ferma per la magia del tempo, Il tempo non è una cura per la ferita della spada che recide. Quando simili calamità si abbattono improvvise su di noi, Le lacrime fluiscono dagli occhi e scorrono senza tregua. Anche se l’uomo viene privato del potere della pazienza, Nella sua natura permane nel subconscio questo sentimento. L’essenza dell’uomo non viene annientata o distrutta, Scompare alla vista ma non viene annientata o distrutta. Il bagaglio della vita è polvere con la fiamma del dolore, Questo fuoco si raffredda con l’acqua del sentimento. Ah! il controllo del dolore non è silenzio di negligenza! Questa consolazione è consapevolezza, non dimenticanza! Quando l’alba appare manifestandosi dalle regioni orientali Spazza via la macchia della notte dai vestimenti del mondo. Ricopre la malinconia del tulipano in un vestimento rosso, Rende l’uccello silente intossicato e avvelenato di musica. Il canto esce fuori liberato dall’intimo petto dell’usignuolo, La brezza del mattino si riempie di centinaia di trilli e suoni. I dormienti nelle aiuole di rose, nelle montagne, nei ruscelli, Tutti alla fine abbracciano al mattino la sposa della vita. Se per la legge dell’esistenza ogni notte è seguita da un’alba, Perché la fine della tomba dell’uomo non è seguita da un’alba? La rete della mia immaginazione argentea è universale, In questa rete ho imprigionata la ricordanza di te madre! Il mio cuore straziato dal dolore è pieno della ricordanza, Come nella Ka’ba la vasta distesa è piena di suppliche! La sequenza dei comandamenti divini, che si chiama vita, Le sue manifestazioni coprono miriadi di mondi instabili. Differenti sono le modalità di ogni sosta dell’esistenza, Nell’aldilà vi è anche un posto di sosta dell’esistenza! Nessuna cosa è laggiù disponibile al campo della morte, Ma il clima è favorevole al seme perché esso fruttifichi. La luce della natura non è prigioniera nel buio del corpo, La vastità del pensiero umano non si restringe così. La tua vita fu più luminosa persino dell’astro lunare, Il tuo viaggio migliore persino della stella del mattino. Possa la tua tomba brillare come la dimora dell’alba, Possa questa tua polverosa camera essere luminosa! Possa il cielo cospargere di rugiada tutta la tua tomba! Possa l’erba di fresco cresciuta custodire questa casa! 123. UN RAGGIO DEL SOLE All’alba quando il mio occhio godeva del panorama Vidi che un raggio del sole vagabondava qua e là. Chiesi al raggio: ”Stordiscimi tutto di irrequietezza! Che genere di irrequietezza ha la tua vita impaziente! Sei tu un lampo piccolo piccolo che la volta celeste Alimenta per farlo cadere sui raccolti delle nazioni? È questo un lampo o è la tua natura eterna, che cos’è? È una danza? che va vagando, alla ricerca, che cos’è?” “Un mare di tumulti è addormentato nella vita silente, La mia esistenza è stata nutrita dalla brezza del mattino. Il mio destino mi mantiene in costante irrequietezza, Il gusto per l’illuminazione mi impegna nella ricerca. Io non sono un tizzone sebbene per natura io sia fuoco, Sono messaggio di squilla del sole che dà luce al mondo! Io divento collirio e penetro così nell’occhio dell’uomo, Qualunque cosa la notte ha nascosto la rivelo all’occhio. Tra i tuoi adoratori c’è chi va alla ricerca della prudenza? Tra i tuoi dormienti c’è chi ha pure il gusto della riscossa?” 124. ‘URFI L’immaginazione di ‘Urfi ha creato una dimora, Diventata l’invidia di Avicenna e di al-Farabi. Sull’argomento dell’amore ha scritto tale musica Che rosse lacrime sono ancora pronte agli occhi. Un giorno il mio cuore si lamentò alla sua tomba “Dalla riunione del mondo non più toni irrequieti, È sì mutata la disposizione della gente del mondo Che l’irrequietezza se ne è andata via dal mondo. Il lamento notturno del poeta offende l’orecchio Se la riunione non conosce il piacere dell’insonnia. Come può la fiamma del lamento rimuovere il buio Se agli adoranti il buio non piace la luce del mattino?” Dalla tomba: “Riduci le tue lagnanze contro il mondo. Suona più forte se il gusto per la musica è di tono basso. Suona la marcia più forte se la sella del cammello pesa”. 125. IN RISPOSTA AD UNA LETTERA Ho ambizioni, non ho la forza di esercitarle, Avere una posizione è consona alla ricerca. Mille grazie a Dio perché sono soddisfatto, Mille grazie a Dio perché non sono cattivo. Coltivare i cuori degli uomini è nei miei scritti, Nel mondo creo come l’oceano nutre la nuvola. Ti ringrazio per questi segreti della politica, La mia unghia con l’amore graffia il petto. Il desiderio per il trono è mancanza di vita, Hafiz ha già svelato questo segreto in poesia. “Se hai il desiderio di essere elevato a Khizr Cèlati all’occhio di Alessandro come l’acqua”. 126. NANAK La nazione non è stata attenta al messaggio di Gautama Non ha compreso il vero intimo valore della sua parola. Ah, è stata sfortunata, ignara della voce della giustizia, Invero l’albero non conosce la dolcezza dei suoi frutti. Nanak ha svelato al mondo i segreti più intimi della vita, Mentre l’India si dilettava orgogliosa della filosofia ideale. La verità che poteva illuminare la sua riunione non ci fu, C’era la pioggia della grazia, ma il suolo non fu capace! Ah, l’India è una dimora di dolore per genti di basso ceto, Alle pene dell’umanità il suo cuore è del tutto estraneo. Il brahmano è ancora intossicato dal vino dell’orgoglio, Nella riunione degli estranei brucia la candela di Gautama. Ma dopo lungo tempo la casa degli idoli si è illuminata! La casa di Azar si è illuminata della luce di Abramo! Dal Panjab s’è levata l’ultima voce dell’Unità di Dio, Un uomo perfetto ha risvegliato l’India dal suo torpore. 127. INFEDELTÀ E ISLAM (su un verso ripreso da Mir Razi Danish ) Un giorno Iqbal interrogò Kalim del Sinai: “O Tu che hai mutato il Sinai in un giardino! Il fuoco di Nimrod splende ancora nel mondo. Perché il vecchio fuoco si cela all’occhio?” Rispose il Signore del Sinai:”Sei musulmano, Lasciando l’invisibile tu non ottieni il visibile. Se vuoi il visibile ti abbisogna la fede di Khalil, O le ceneri saranno l’ornamento della tua vita. Se vuoi l’invisibile non devi preoccuparti affatto, Poni la tua lampada nella valle di Faran e aspetta. La gloria del visibile è di ora, dell’invisibile di sempre. Questa verità è l’unione di corpo e anima con l’amore. E che se la fiamma di Nimrod splende nel mondo? “La candela si scioglie nel mezzo dell’assemblea, Più bella è la mia luce, simile a scintilla, se celata”. 128. BILAL Ha detto un noto scrittore occidentale Che gode di grande stima tra i letterati: “L’Asia era la sentinella di Alessandro, Il suo stato era più alto anche del cielo. La storia dice che nella lotta con Roma Vane furono le pretese di Poro e Dario. A quest’imperatore dalle armate infinite Il cielo blu guardava con grande stupore. Oggi nessuno in Asia ne sente più parlare, Persino gli storici non lo riconoscono più. Ma Bilal, quella persona di oscure origini, Dalla natura illuminata dalla luce del Profeta, Custode in petto del richiamo sin dall’eternità, Al quale si sottomettono imperatori e poveri, Che porta con sé amicizia tra il nero e il rosso, Che mette il povero e il ricco fianco a fianco, Quel cantore è ancora presente in quest’epoca, Da secoli l’orecchio del cielo continua a udirlo”. O Iqbal, a quale amore si deve la benedizione? Il romano è scomparso, il nero è immortale. 129. I MUSULMANI E L’ISTRUZIONE MODERNA (versi ripresi da Malik Qumi) Il maestro diceva: “O sciocco musulmano, Devi fare i preparativi per il tuo viaggio. Il mondo muta e questi sono i mutamenti, Chi era un tempo prezioso, ora è un nulla. Il vostro fuoco lucente uscito dall’oscurità Si riduce ora ad una scintilla di poca luce. Non esser più l’Invisibile, sii il Visibile, Il Dio visibile trionfa ora sulle nazioni. In questo giardino i tuoi sforzi sono vani, La trappola è vecchia e astuto è l’uccello. In quest’età l’istruzione cura le malattie, L’istruzione è ago per il sangue malato. La guida mi ha dato amore per l’istruzione, Bisogna obbedire ora all’ordine di Khizr. Ma l’occhio che discerne vede la disgrazia. “Per togliere una spina la sella scomparve, Mi distolsi un attimo, soffrii un’eternità”. 130. LA PRINCIPESSA DEI FIORI Un giorno la rugiada nel giardino diceva al bocciuolo: “Ho vissuto a lungo tra i bocciuoli di fiore in paradiso. La condizione in cui versa il tuo giardino è elegante, La vista del paradiso si cela nel mio occhio stupefatto. Ho sentito dire che una principessa regna nel giardino, Le sue orme farebbero nascere i fiori dalla terra arida. Prendimi con te qualche volta e portami al suo palazzo, Tienimi celata nei tuoi vestimenti come la fragranza”. Il bocciuolo disse:”La nostra principessa è su un trono, Un solo suo moto fa risplendere le pietre come gioielli. Ma la tua natura è luminosa e il rango di lei è elevato, Non è possibile per te arrivare a lei in mia compagnia. Ma puoi ad ogni modo giungere alla nostra principessa Tramutandoti nella calda lacrima di una persona triste. La sua vista è il messaggio di ‘Id per i musulmani , Tramuta in perle le lacrime continue della gente afflitta. 131. VERSI PRESI DA SA’IB O Iqbal, in quale luogo hai tu costruito questo tuo nido, Nel giardino il canto è preludio di disgrazia all’usignuolo. Anche se tu vai seminando le faville della Valle di Aiman, In questo suolo non puoi far germogliare il seme del Sinai. Il bocciuolo non può divenire fiore con la forza del respiro, Là dove nessuna cosa ha la forza di svilupparsi da sé stessa. Che scandalo! addormentata è la natura dei suoi abitatori, Né il cuore dell’età passata è sveglio, né la gioventù è forte. Quando i cuori intelligenti se ne stanno a dormire nei petti, Nel cantore la melodia della musica si muta in un tossico. Fuggi da questo giardino se non è possibile imprigionarla, Migliore di questa assemblea è la solitudine di un deserto. “La manifestazione di Lailah è molto più bella nel deserto, La vita della città non può contenere la bellezza del deserto”. 132. UNA CONVERSAZIONE IN PARADISO Hatif mi raccontò che un giorno nel paradiso Sa’di di Shiraz parlò in questo modo ad Hali: “Con quale perla poetica che illumina il cielo È divenuto il falcone amico della luna e stelle? Narrami tutta la storia del musulmano indiano, Se ne sta in ozio o ha pure interesse all’azione? Gli è rimasto nelle vene il calore della religione? Il calore del richiamo che infiammava il cielo”? Hali si commosse a queste parole dello Shaikh, Prese a piangere e gli disse:”O uomo di miracoli! Quando il cielo capovolse il passaggio del tempo Fu chiaro che il rispetto di sé stava nell’istruzione. Questa ha però prodotto un vacillare nella fede, Si ebbero benefici mondani ma la religione vacillò. Gli scopi sono lodevoli solo se si serba la religione, Altrimenti si disorientano e si confondono i giovani. La concordia tra gli uomini si tiene con la religione, La religione è il plettro dello strumento nazionale. Se le fondamenta del muro del giardino vacillano È chiaro che ci troviamo dinanzi alla fine dell’inizio. Dato che l’acqua di Zamzam non innaffia il giardino Nella nuova progenie si fa strada un qualche ateismo. Non parlare di ciò nell’assemblea del Santo Profeta Ché i musulmani d’India non pensino a una calunnia”. Non nascono i datteri se abbiamo seminato gramigna, “Non si ha il tessuto broccato se abbiamo filato lana”. 133. LA RELIGIONE (versi ripresi da Mirza Bedil ) L’insegnamento della filosofia occidentale è: “La ricerca dell’invisibile non è che una follia”. Che importa se la forma non può essere visibile? Lo sceicco e il brahmano sono scultori di idoli. La conoscenza moderna è basata sul sensibile, Oggigiorno il vaso della fede è ridotto in pezzi. Ciò che è detta religione è una forma di pazzia Che ripugna all’immaginazione degli uomini. Ma la filosofia della vita dice che è qualcos’altro, Una perfetta guida mi ha rivelato questo segreto: “Con ogni altezza si raccomanda un po’ d’estasi, Se sei l’uomo più savio, non essere senza pazzia”. 134. UN INCIDENTE NELLA BATTAGLIA DI YARMUK La gioventù araba in armi era disposta per la battaglia, La sposa della terra di Siria era nell’attesa del mirto. Un giovane arabo che era irrequieto come il mercurio Si avvicinò al comandante dell’esercito e prese a dire: “Oh Abu ‘Ubaidah, concedimi il permesso di lottare, La coppa della mia pazienza e della mia calma è piena. Sono impaziente di essere ancora separato dal Profeta, Nel Suo amore è difficile sopportare un attimo di vita. Dato che sto per presentarmi all’udienza del Profeta, Sarei lieto di portarGli un messaggio se ce n’è uno”. L’occhio del comandante, una spada non sguainata, Notando questo zelo e fervore si inumidì di lacrime. Il comandante esclamò:”Tu sei quel giovane arabo Al cui amore anche gli anziani debbono inchinarsi. Possa il Dio di Muhammad esaudire il tuo desiderio, Com’è elevato ed elegante lo scenario del tuo amore! Quando tu sarai giunto all’udienza del Santo Profeta, Porgigli i miei omaggi e presentagli questa petizione: “Il Dio Altissimo ci ha dimostrato la Sua misericordia, Tutte le promesse che ci ha fatto sono state esaudite”. 135. LA RELIGIONE Non giudicare la tua nazione con il metro dell’ovest, Speciale è per composizione la nazione del Profeta. La sua organizzazione si basa sui paesi e sulle razze, La religione costituisce la forza dell’organizzazione. Se strappi la veste della religione, dov’è la serenità? Se la serenità scompare, scompare anche la nazione! 136. RESTA ATTACCATO ALL’ALBERO IN ATTESA DELLA PRIMAVERA Il ramo dell’albero che si è separato in autunno Non può rinverdire con la nuvola di primavera. Per questo ramo l’autunno durerà per l’eternità, Non può rinverdire nella fioritura di primavera. L’autunno regna anche nel tuo giardino di rose, Nella tasca della rosa non c’è denaro contante. Gli uccelli che cantavano nel segreto delle foglie Hanno lasciato le foglie del tuo albero ombroso. Dal ramo separato dovresti imparare una lezione, Sì, tu sei a conoscenza delle abitudini del mondo. Resta sempre in stretto contatto con la tua nazione, Resta attaccato all’albero in attesa della primavera! 137. LA NOTTE DEL MI’RAJ Dal cielo giunge il richiamo della stella della sera: “Oggi è la vigilia della notte quando l’alba si china, Per coraggio il cielo celeste è ad un passo di strada”. Questo dice la notte dell’ascensione al musulmano. 138. IL FIORE O fiore! perché ti curi del cuore ferito dell’usignuolo? Dovresti invece rammendare le tue proprie lacerazioni! Se tu desideri essere rispettato nel roseto dell’esistenza, Dovresti abituarti a vivere una vita disseminata di spine! Nel giardino il ginepro è libero ma incatenato al suolo, Dovresti ottenere la libertà all’interno di questi legami! Soddisfatto, da’ all’avarizia un messaggio di imbarazzo, Non essere debitore della rugiada, vuota coppa e brocca! Non si confà per il proprio rispetto a che colto dallo stelo Tu venga messo ad ornare un turbante o un qualche collo! La rugiada scompare dal giardino dicendo al bocciuolo: “Se tu ami l’oppressione del giardiniere, crea bellezza; Se a te non interessa affatto la conoscenza dell’autunno, Abbandona subito il desiderio per il mondo della bellezza. Attento, solo in questo si cela la perfezione della tua vita, Se dovessi adornare il vestito di una qualche bellezza! 139. SHAKESPEARE Per il crepuscolo è uno specchio il fluire del fiume, Per il canto serotino è uno specchio il silenzio serale. Per il fiore primaverile è uno specchio il suo petalo, Per l’amante del vino è uno specchio il cavo della coppa. La bellezza specchio di Dio, il cuore specchio del bello, Per il cuore umano è uno specchio la tua grande opera. Il tuo pensiero universale è la perfezione dell’esistenza, Non fu forse la tua geniale mente lo scopo dell’esistenza? Quando l’occhio alla ricerca del sapere si incontrò con te, Vide il sole velato nella brillantezza dell’astro solare. La tua esistenza restò di certo velata all’occhio del mondo E il tuo occhio vide tutto il mondo completamente svelato. La natura ha un tale desiderio di custodire i suoi segreti Che non creerà mai più un altro al quale confidare i segreti. 140. IO E TE Io non ho il sapere di Kalim né tu hai la virtù di Khalil, Sono distrutto dalla magia di Samiri, tu vittima di Azar! Io sono il canto non detto, tu colore e profumo scomparsi, Io sono desiderio di dolore, tu storia di lamento d’amore! Il mio dolore è piacere, miele il veleno, distruzione la vita, Il tuo cuore è haram preso di ‘ajam, infedeltà la religione! Essenza è la perdita della vita, veleno l’interesse per la vita, Non esser triste, non addolorarti, è la via di un qalandari! Ricchezza e povertà non curare, se in te esiste una scintilla, Nel mondo la forza di Haidar dipende dal cibo di sha’ir! O lampada di haram, insegnami quel metodo della tavaf In grado di dare alla tua falena la natura della salamandra! Le lamentele di crudeltà che l’haram lancia alla sua gente, Se le riferisci in un tempio persino l’idolo griderebbe Hari. Né i campi di battaglia né gli agguerriti nemici sono nuovi, Né muta la natura di Asad-allahi, o Marhabi, o Antari. Misericordia! o Profeta, attendono la tua benevolenza I poveri che hanno ricevuto da te l’intelletto di Alessandro! 141. PRIGIONIA La prigionia accresce la fiducia se la natura è di alta qualità, La goccia primaverile è benedetta nella prigione del guscio! Questo eccellente muschio non è che una goccia di sangue, Che diventa muschio se è nascosta nell’ombelico del daino. Ad ogni modo non è dato a tutti esservi abituati per natura, Solo un uccello straordinario può prosperare nella prigionia. La forza del corvo e il volo dell’aquilone non sono in questa, Questa grazia è una prerogativa solo del falcone e dell’aquila. 142. ELEMOSINARE UN CALIFFATO Se un territorio è perduto, lascia che sia perduto, Non dovresti essere sleale ai comandamenti di Dio. Non avete alcuna conoscenza o notizia della storia? Avete iniziato a chiedere elemosinando il califfato. Se non ce lo prendiamo con il nostro proprio sangue, Una conquista diversa è un’onta per i musulmani! Non mi vergogno così tanto di essere scacciato via Quanto di chiedere ad altri una medicina per la cura. 143. HUMAYUN (per la morte di Mister Justice Shah din) O Humayun, la tua intera vita fu tutta piena di calore, La tua scintilla una lampada di luce per la riunione. Sebbene il tuo corpo terreno fosse sottile e debole, Il tuo carattere amabile era brillante come una stella. Com’era indomito il tuo cuore nel tuo fragile corpo, Una fiamma universale in una manciata di polvere! Il cuore saldo non aveva paura alcuna della morte, Nel silenzio della notte si cela l’affanno del domani! Gli imprudenti considerano la morte la fine della vita, Questa sera apparente di vita è mattino di vita eterna! 144. KHIZR, LA GUIDA 1- Il poeta Una notte ero assorto in contemplazione, lungo il fiume, Con un mondo di inquietudini celate nei recessi del cuore. Tranquilla era la notte, l’aria calma, il fiume fluiva piano, Il mio occhio era stupefatto, era il fiume o solo un quadro? Come il bambino che succhia e si addormenta nella culla, L’onda irrequieta si era addormentata in qualche luogo! Per la magia della notte gli uccelli si erano celati nei nidi, Le stelle ammiccanti erano prese dalla magia della luna! All’improvviso vidi Khizr, quel viandante e viaggiatore Nella cui vecchiaia riposava il colore giovanile come alba. Andava dicendo:”O tu che vai cercando gli eterni segreti, Se l’occhio interno vedesse, svelato sarebbe il mondo”! A queste parole un gran tumulto si agitò nel mio cuore, Interessato alla ricerca della verità, così iniziai a parlare: “O tu , il cui occhio aperto sul mondo vede quelle spine, I cui tumulti riposano ancora silenti nelle acque del fiume. La barca del povero, l’anima pura, il muro dell’orfano, Persino la sapienza di Mosè sono stupefatti dinanzi a te. Lasciando dimore e paesi te ne vai vagando per i deserti, Nella tua vita non ci sono giorno e notte, ieri e domani. Quale è il segreto della vita? che cosa è l’imperialismo? E quale è il significato della lotta tra il capitale e il lavoro? Il vecchio vestito rappezzato dell’Asia viene ora lacerato, I giovani delle nazioni nate da poco si ornano di questi! Anche se Alessandro non possiede l’acqua dell’eternità, Per carattere non desiste dal prendere parte all’allegria! I figli del Profeta stanno vendendo la religione di Mustafa, E il turco che combatte è impolverato e sporco di sangue! C’è fuoco, ci sono i figli di Ibrahim, c’è anche Nimrod! C’è ancora in qualcuno il desiderio di una nuova prova? 2- La risposta di Khizr che vaga nel deserto Perché ti meravigli per il mio vagare tra monti e deserti? Quest’incessante fatica e travaglio è dimostrazione di vita. O tu relegato in casa, non hai tu mai osservato quella scena Quando il richiamo della battaglia risuona nell’aria deserta! Quel camminare allegro del daino sulle montagna di sabbia, Quella casa senza cibo, il viaggio senza distanza e destino! Quell’apparizione della stella che si muove veloce all’alba O la fronte dell’angelo Gabriele che si manifesta dal cielo! Quel tramontare del sole nel silenzio dell’aria del deserto, Che accresce l’occhio intuitivo e preveggente di Khalil! E quella sosta della carovana lungo la riva della corrente Come i credenti si riuniscono in folla attorno a Salsabil! L’amore ardente va in cerca di una nuova terra selvaggia Mentre nella città si fanno sforzi per seminare e coltivare. Con la rotazione la coppa della vita diventa più matura, O negligente, questo è il segreto della stabilità della vita! 3- La vita Al di sopra del timore dei profitti e perdite è posta la vita! Ora l’anima, ora la rassegnazione dell’anima sono la vita! Non misurarla con il metro e il peso dell’oggi e del domani, Sempiterna, in lotta incessante, per sempre giovane è la vita! Creati un tuo proprio mondo se pretendi di essere tra i vivi, Il segreto di Adamo e lo scopo della creazione sono la vita. Chiedi a chi scava la montagna quale sia la realtà della vita, Il canale del latte, la pala per scavare, la dura roccia, è vita. Nella schiavitù si riduce a un semplice ruscello gocciolante, Nella libertà, simile ad uno oceano senza confini, è la vita. Si manifesta essa nella sua potenza infinita di sottomettersi, Anche se nascosta e celata in un corpo di polvere, è la vita. Tu sei uscita dall’esistenza dell’oceano simile ad una bolla, In questa battaglia e lotta perdenti il tuo esame è la vita. Mentre sei immatura, tu sei soltanto un mucchio di polvere, Quando raggiungi la maturità, diventi una spada tagliente! Il cuore che non ha pace per la morte in difesa della verità Dovrebbe prima creare la vita all’interno del proprio corpo. Dovrebbe bruciare quest’universo che ha preso in prestito, Dovrebbe creare dalle sue ceneri un suo proprio universo. Dovrebbe dimostrare la potenza potenziale di questa vita, Dovrebbe far sì che la scintilla possa creare la luce eterna. Dovrebbe brillare simile a un sole sulle terre dell’Oriente, Dovrebbe far sì che Badakhshan crei i suoi preziosi rubini. Dovrebbe il custode del cielo inviare un emissario di dolore, Dovrebbe eleggere i suoi confidenti tra le stelle della notte. Questa è l’ora del Giudizio, tu sei nella terra del Giudizio, O negligente, mostra le tue azioni se ce ne sono nel tesoro! 4- Imperalismo Vieni, ti spiegherò il vero significato del verso In al- muluk. L’imperialismo è una sorta di inganno delle nazioni vincenti. Non appena i popoli oppressi si destano dal loro incantesimo La magia degli imperialisti li culla riportandoli al loro sonno. Per l’effetto della magia di Mahmud l’occhio del servo Ayaz Si vede attorno al collo le bardature della bellezza del padrone. Finalmente il sangue di Israele ribolle tutto di rabbia e di ira, L’incantesimo di Samiri è fatto a pezzi da un qualche Mosè. La sovranità è prerogativa soltanto dell’Essere Incomparabile Solo Lui è il sovrano dell’universo, il resto solo idoli di Azar. Non disonorare la tua indipendente disposizione alla schiavitù, Ché tu non ti atteggi a un padrone più infedele di un brahmano. Il sistema democratico occidentale è la stessa vecchia orchestra Corrosa che non ha nulla di differente dalla musica di Cesare. Il mostro del dispotismo batte la strada in veste di democrazia, Tu lo consideri come un bel treno che ti porta l’indipendenza! L’assemblea legislativa, le riforme, i diritti e le concessioni, Per la medicina occidentale sono dolci, l’effetto è soporifero! Ci protegga Iddio dai bei discorsi dei membri delle assemblee, Sono bugie dei capitalisti che litigano per ingannare i poveri! Hai preso per un giardino quest’apparente miraggio di bellezza! O ignorante! Hai pensato che la gabbia fosse diventata il nido! 5- Capitale e lavoro Va’ dal lavoratore reso schiavo e portagli questo mio messaggio, Non è solo il messaggio di Khizr, è un messaggio dell’universo! Fa’ attenzione, tu che sei stato soggiogato dall’astuto capitalista, Tu che sei stato preso dall’inganno per tanti e tanti e tanti anni. La ricompensa che le tue mani datrici di ricchezza hanno avuto Non è stata null’altro che le elemosine date dai ricchi ai poveri. Gli affiliati di Alamut ti hanno distribuito le foglie dell’hascisc E tu, o sempliciotto, le hai prese per canna da zucchero e canditi. Razza, nazionalità, chiesa, impero, civiltà, colore, sono questi Un assortimento di narcotici che l’imperialismo sa come usare. Il lavoratore ignorante e inesperto è vittima di mitiche divinità, Sotto l’influsso dei narcotici rinuncia al bene della propria vita. Il capitalista ha vinto la partita con gli stratagemmi dell’inganno, All’ingenuo e sprovveduto lavoratore è stato dato scacco matto. Rialzati, o lavoratore, l’assemblea ha adottato un nuovo modo, In Oriente e in Occidente ha avuto inizio per te una nuova epoca. Coloro che guardano in alto non si accontentano più del fiume, O ignorante, tu sembri soddisfatto come il fiore con la rugiada. La democrazia si sveglia e canta, e tu hai ragione di rallegrarti. Per quanto tempo andrai dietro alle favole di Alessandro e Jam? Un nuovo sole è nato e si è levato dal seno materno della terra, O cielo! per quanto tempo andrai piangendo per le stelle cadute? Fa parte della natura umana la voglia di spezzare tutte le catene, Per quanto tempo l’occhio di Adamo piangerà il paradiso perduto? La primavera dà questi consigli al giardiniere esperto di giardino, Per quanto tempo darai la medicina al cuore ferito della rosa? Possa l’ignorante lucciola cessare dal girare attorno alla candela E vivere là dove la sua propria natura può mostrare la sua luce! 6- Il mondo dell’Islam Perché mi vai raccontando storie e avvenimenti di Turchi e Arabi? Nulla dei loro dolori e delle loro gioie è nascosto o ignoto a me. I discendenti della Croce si sono portati via l’eredità di Khalil, Il suolo del Hijaz è diventato il mattone delle basi della chiesa! Il copricapo rosso è stato disonorato e vilipeso in tutto il mondo, Tutti coloro che ne erano orgogliosi hanno ora bisogno degli altri! Dai venditori di vino dell’Occidente oggi l’Iran va acquistando Quel vino forte che fa liquefare la caraffa con il suo proprio calore. Le attività politiche dell’Occidente hanno suddiviso le nazioni e le Hanno frammentate come l’oro fatto a pezzi da un paio di forbici. Il sangue dei musulmani è diventato a buon mercato come l’acqua, Voi siete irrequieti poiché i vostri cuori non sanno il loro destino. Rumi ha detto un tempo che ogni vecchio edificio da ricostruire Dev’essere prima demolito, non conosci questa semplice verità? La patria ci è sfuggita dalle mani, la nazione è svanita dagli occhi, O negligente, guarda nel più profondo ché Dio ti ha dato la vista! È meglio essere sconfitti che dover chiedere inermi l’elemosina, O inerme formica! non andare da Salomone a fare richieste. La salvezza dell’Oriente sta nell’organizzazione dei paesi islamici, I popoli dell’Asia non sono ancora a conoscenza di questo mistero. Abbandonate la politica, entrate di nuovo nel forte della religione, Paesi e ricchezze sono solo una mercede per la difesa dell’haram. I musulmani dovrebbero essere una unità per la difesa dell’haram, Dalle rive del fiume Nilo alla città di Kashghar, in ogni dove. Chiunque farà discriminazioni sulla base di colore e razza, perirà, Si tratti del Turco che vive nella tenda o dell’Arabo di alto rango! Se per il musulmano la razza fosse più importante della religione, Verrebbe spazzato via dal mondo come la polvere di una strada! Per ricostruire di nuovo le fondamenta del Califfato nel mondo È necessario riportare da un qualche dove il coraggio degli avi. O voi che non sapete distinguere tra il tangibile e l’intangibile, Fate attenzione, o voi prigionieri di Abu Bakr e ‘Ali, attenzione! 7- Il poeta Sull’amore incombeva la lamentazione che è stata presentata, Guarda ora con cuore spassionato l’effetto della lamentazione! Sei stato testimone del culmine della maestà del flusso del fiume, Guarda l’onda inquieta divenuta una catena in cui s’è impigliata. Il sogno della libertà universale agognato con ardore dall’Islam, Guarda ora, o musulmano, l’interpretazione di quel sogno oggi! Le sue proprie ceneri sono il mezzo di vita della salamandra, Guarda alla resurrezione di questo nostro mondo dopo la morte! Con occhi spalancati e vigili nello specchio o nelle mie parole Guarda l’immagine debole ed evanescente dell’epoca futura. Il cielo tiene in serbo per te un inganno ancora più predisposto, Guarda la disgrazia che si prepara contro la forza del destino. Tu sei musulmano, conserva il desiderio nel tuo petto felice, Volgi ogni momento il tuo occhio all’atto malefico di Satana. 145. IL RISORGIMENTO DELL’ISLAM La luce evanescente delle stelle è il segnale di un’alba radiosa, Il sole è sorto all’orizzonte, il tempo dello stupore se n’è andato! Il sangue ha ripreso a scorrere nelle arterie morte dell’Oriente, Questo è un segreto incomprensibile ad Avicenna e al- Farabi! La tempesta dell’Ovest ha fatto di noi tutti dei veri musulmani, Solo le alte maree portano alla perfezione la bellezza della perla. Il musulmano è di nuovo alla presenza della maestà del Signore, La dignità del turco, il sapere dell’indiano, l’eloquio dell’arabo. Se un qualche sopore si nasconde tuttora nei bocciuoli dei fiori, “Batti il tamburo più forte se il gusto della musica non basta”. Danza senza tregua nel giardino, nel nido, nella casa campestre, Non è possibile togliere al mercurio la sua propria irrequietezza. Perché nell’occhio del puro dovrebbero entrare visioni di armi? Quando è in grado di vedere il valore dell’anima di un martire? O Dio, accendi la candela del desiderio nel cuore del tulipano, Fa’ del granello di polvere del giardino un martire per la verità. Nelle lacrime del musulmano si sentono le piogge primaverili, Nell’oceano di Ibrahim si riprodurranno nuovamente le perle. Il libro della nazione solare viene rilegato nuovamente ancora, Questo ramo della nazione hashemita verrà a fiorire di nuovo! Il turcomanno di Shiraz ha conquistato i cuori di Tabriz e Kabul, Dal profumo della rosa lo zefiro ottiene il compagno di viaggio! La valanga che si è abbattuta sugli Ottomani non è un vero lutto Dopo la distruzione di miriadi di stelle ritorna nel mondo l’alba! Nel mondo la vista interiore è più difficile della sovranità stessa, La vista interiore si ha solo quando il cuore si scioglie in sangue! Per migliaia di anni il narciso si è lamentato di non poter brillare, Con gran difficoltà nasce in un giardino un essere che discerne! Canta, o usignuolo, fa’ sì che con i tuoi cinguettii e gorgheggi Nell’esile corpo del colombo il cuore diventi quello del falcone. Nascosto e celato all’interno del tuo cuore è il segreto della vita, Narra ai musulmani le tradizioni del dolore e pathos della vita. Tu sei la mano della possanza e la parola di Dio Onnipotente, O imprudente, fa’ rinascere quella fede della quale hai dubitato. La destinazione del musulmano si trova oltre il cielo azzurro, Tu sei la carovana di polvere il cui strascico è formato da stelle. Caduca è la casa, temporaneo l’abitante, tuo è l’inizio e la fine, Tu sei il messaggio ultimo e finale di Dio, anche tu sei eterno. Il sangue della tua vita orna di mirto la sposa nomata tulipano, Tu discendi da Ibrahim, sei l’architetto-costruttore del mondo! La tua natura è quella di custodire le possibilità di tutta la vita, Tu sei la pietra di paragone per i gioielli nascosti del mondo! Considerando il percorso dal mondo materiale al mondo eterno Tu sei quel dono e quel regalo che il benedetto Profeta si prese. Tutta la storia delle nazioni musulmane rivela l’intero segreto, Tu sei il protettore e il difensore di tutte le nazioni dell’Asia. Apprendi nuovamente la lezione della verità, giustizia, coraggio, A te deve essere affidata e consegnata la guida di questo mondo. Questo è lo scopo della creazione, questo è il segreto dell’Islam, Possano esserci sempre fratellanza universale e infinito amore! Distruggi gli idoli della razza e del colore e fonditi nella nazione, Non ci siano più abitanti del Turan, dell’Iran, dell’Afghanistan! Per quanto tempo te ne starai nel giardino ad ascoltare gli uccelli? Le tue braccia hanno la potenza delle ali del falcone del Quhistan. Nel mondo dell’esistenza pieno di dubbii la fede di un musulmano È simile alla luce della lampada di un eremita nel buio del deserto. Che cosa portò alla caduta e fine della tirannia di Cesare e Kisra? La forza di Haidar, la pietas di Bu Dhar, la verità di Salman. Con quale dignità e come i capi della comunità si misero in marcia, L’uomo della decadenza non può che guardare dal buco della porta. In questo mondo la permanenza della vita dipende da una fede salda, Il nativo del Turan ha mostrato di resistere più a lungo del tedesco. Quando con l’ardore del suo fuoco l’uomo si crea una fede interiore, Allora non fa che accrescere le ali e le piume dell’angelo Gabriele. Nella schiavitù né spade né inganni possono essere di alcuna utilità, Le catene possono essere spezzate quando nasce l’estasi della fede. Potrebbe qualcuno determinare la forza delle sue gambe e braccia? I destini vengono cambiati dal semplice e puro sguardo del credente! La santità, la sovranità, l’universalità della conoscenza materiale, Che cosa sono queste se non un chiarimento dei segreti della fede? Non è invero molto facile seguire e sviluppare la visione di Ibrahim. L’avidità crea nella visione, in maniera furtiva, subconsce immagini. La discriminazione tra sottomesso e sovrano è la rovina dell’umanità. Fate attenzione, o oppressori! La punizione di Dio sarà molto severa! L’essenza di ogni cosa è sempre la stessa, si tratti di polvere o luce, Il sangue del sole sgocciola tagliando il nucleo del grano di polvere. Fede sicura, lotta incessante, amore, conquista dell’intero universo, Sono queste le spade degli uomini di coraggio nella lotta della vita. Che cosa ci si aspetta dal coraggioso? alta disposizione, fede sincera, Cuore caldo, visione interiore immacolata, e un’anima senza riposo! Coloro che hanno attaccato simili ad aquile sono rimasti privi di ali, Immerse nel sangue del crepuscolo le stelle sono uscite più lucenti! Coloro che erano abituati a nuotare sotto il mare ne rimasero sepolti, Coloro che vinsero le onde impetuose del mare emersero come perle. Coloro che erano orgogliosi della chimica sono come via polverosa, Coloro che si prostrarono a Dio ne emersero come creatori di gioia! Il nostro messaggero dal piede lento ha portato un messaggio di vita, Coloro che ebbero messaggi elettrici rimasero privi di informazioni! L’haram è stato oltraggiato dai sacerdoti ignoranti dalla vista corta, I giovani tartari ne sono usciti fuori con un’eccellente vista interiore! Gli angeli, abitanti del mondo celestiale, andavano dicendo alla terra “Questi uomini terreni ne sono usciti più vivi, più forti, più belli”! Gli uomini che hanno fede e credo vivono nel mondo simili al sole, Collocatevi qui, uscite fuori lì, collocatevi lì, uscite fuori qui! La fede individuale costituisce il mezzo della riscossa della nazione, Questa è la forza e il fulcro che modellano il destino della nazione! Sei il segreto e lo scopo della creazione, manifestalo ai tuoi occhi, Diventa il conoscitore di te stesso, diventa l’interprete del Signore. L’avidità degli uomini ha ridotto a pezzi e lacerato la razza umana, Diventa un simbolo di fratellanza, diventa il linguaggio dell’amore. Questi Indiani, quelli Khorassiani, questi Afghani, quelli Turani, O tu rovinato dai confini nazionali, balza su e lanciati nell’infinito. Le tue ali sono contaminate dalla polvere del colore e della razza, O uccello dell’haram, scuoti le tue ali prima di spiccare il tuo volo. O imprudente! immergiti nel tuo io, è questo il segreto della vita, Diventa eterno trascurando e lasciando i confini ristretti del tempo! Nella battaglia della vita ricerca e assumi la natura dell’acciaio, Nella camera da letto dell’amore diventa soffice e lieve come seta. Trascendi le montagne e i deserti simile ad una furiosa inondazione, Se trovi un giardino lungo la tua strada, diventa un ruscello canoro. Non esistono confini di sorta per la tua conoscenza e il tuo amore, Non esiste alcuna melodia più dolce della tua nell’orchestra divina! Ancora oggi l’umanità è una preda senza difesa dell’imperialismo, È vergognoso che l’uomo sia ancora il cacciatore della razza umana! Il luccichio della civiltà moderna abbaglia e seduce l’occhio umano, Ma questo è soltanto il luccichio e lo splendore di gioielli non reali! La scienza che è stata l’orgoglio dei saggi e dei sapienti dell’ovest, È l’arma di battaglia nelle grinfie macchiate di sangue dell’avidità! Nessuna magia o incantesimo della prudenza può rendere stabile Una civiltà che si basa solo sul capitalismo e sull’imperialismo. Il dinamismo è costruttore di vita, distribuisce inferno e paradiso, Per sua natura questa creatura terrena non è né angelo né inferno. Prendi parte al clamore dell’usignuolo, apri il bocciuolo del fiore, La tua persona rappresenta la brezza di primavera del giardino. La scintilla dell’amore è risorta nuovamente dal cuore dell’Asia, Il mondo è diventato il terreno di parata dei Tartari vestiti di seta. Vieni, c’è un nuovo acquirente che vuole comprare questo suolo, Dopo un lungo tempo la carovana è alfine arrivata al nostro luogo. Vieni, o coppiere, giunge dal suo nido la musica triste dell’uccello, La primavera è giunta, l’amato è giunto, l’amata serenità è giunta! Sul colle e giù nella valle ha preso dimora la nuvola di primavera, Dalla sommità della montagna sono giunti i rumori della cascata! Ho dato la mia vita a te, o coppiere, dovresti cantare i canti futuri, In una fila dopo l’altra sono arrivati a gruppi gli uccelli canterini! Lascia le pratiche ascetiche e porta senza paura la coppa del vino, Dopo tanto tempo è giunto dal vecchio ramo il canto dell’usignuolo! Narrate agli amanti le tradizioni delle battaglie di Badr e Hunain, Ai miei occhi sono diventati chiari i significati di queste battaglie! L’altro ramo dell’Amico di Dio va fiorendo con il nostro sangue, Nel mercato dell’amore la nostra moneta ha ripreso il suo valore. Sulla tomba dei martiri sto spargendo acqua sui petali del tulipano, Il loro sangue è diventato l’alimento per l’alberello della nazione! “Vieni, sì che possiamo innaffiare i fiori e versare vino nelle coppe, Fa’ a pezzi il tetto del cielo e costruiscine le nuove fondamenta”. 146.1 GHAZAL O zefiro, porta il mio messaggio al nostro Profeta La povera nazione ha perso la religione e le risorse. La riva del fiume ha dato questo messaggio all’onda Lontano è il mare e tu sei già impaziente nel fiume. O Qais! l’onore dell’amore dura nella tenda del letto. Se il letto è perso, gloria e onore e Lailah sono persi! La goccia ha perso la dignità di perla lasciando la lotta, Ha perso il gusto di andar vagando e lottare nel fiume. Questa voce uscita dalle labbra di Iqbal non è nota, La riunione ebbe il messaggio di speranza e si attivò. 146.2 GHAZAL Questi canti di tortore e usignuoli sono un’illusione, Dietro questo frastuono il mondo del giardino tace. O vino dell’ovest! l’effetto delle tue coppe è questo, Il coppiere ride e l’assemblea tutta è inconsapevole. Non ti si rintraccia nella casa dolorosa del mondo, Fu anche il creato un delitto che la Tua natura si cela? Ah! ciò che il mondo considera cuore non è un cuore, Nel petto dell’uomo questo è un tumulto silenzioso. Cammina lungo il sentiero della vita ma con prudenza, Capisci che le tue spalle sorreggono un lavoro di vetro. In quale modo sono diventate vicine Delhi e Lahore? Ah! Iqbal, quell’usignuolo è ora avvolto nel silenzio. 146.3 GHAZAL O usignuolo solo, il tuo lamento è immaturo ancora, Dovresti trattenerlo nel tuo petto per un po’ ancora. Se l’intelletto è prudente tutti lo considerano maturo, Se l’amore è prudente, è considerato immaturo ancora. L’amore si gettò con sicurezza nel fuoco di Nimrod, L’intelletto guarda questo spettacolo dal tetto ancora. L’amore agisce in fretta al comando del messaggero, L’intelletto non ha capito il messaggio d’amore ancora. La via dell’amore è la libertà e la rivoluzione del mondo, Tu sei imprigionato nel tempio del giorno e notte ancora. Richiesto di temperanza, il coppiere risponde rudemente: Nel tuo cuore c’è la medesima ansietà per la fine ancora. La lotta costante è la misura della valutazione della vita, La tua misura è il conto dei giorni e delle notti ancora. O pioggia di primavera, per quanto tempo quest’avarizia? I tulipani sul pendio della mia collina sono assetati ancora. Essi sono abituati al vino straniero, io ho il vino arabo, La mia coppa tiene in allarme i bevitori del vino ancora. Lo zefiro ha recato dal giardino notizie riguardo a Iqbal, Colui che è stato preso da poco si dibatte nella rete ancora. 146.4 GHAZAL Solleva il velo dal tuo volto e mostralo all’assemblea, Lascia che gli occhi del sole, luna e stelle lo vedano. Se tu sei il lampo, per quanto tempo durerà il segreto? Fa’ la conoscenza del mio cuore rimanendo svelato. L’effetto del caldo respiro è il miracolo della vita. Se è nel tuo petto, compi il miracolo di dare la vita. Fino a quando si dovrà pregarti sul Tur come Kalim! Manifesta la fiamma del Sinai con la Tua esistenza. Che l’haram sorga con ogni grano della Tua polvere, Rendi il cuore estraneo ai modi e maniere della chiesa. In questo giardino non è cosa bella superarne i limiti. Se vuoi mostrare la Tua eleganza, mostrala con grazia. Vieni prima con il rispetto di Te stesso come Alessandro, Poi fa’ mostra del desiderio della grandezza di un Dario. Un giorno o Iqbal giungerai alla destinazione di Lailah, Per giorni ancora continua a vagabondare nel deserto. 146. 5 GHAZAL La brezza di primavera soffia di nuovo, canta o Iqbal. Se sei bocciuolo diventa fiore, se fiore diventa giardino. Sei una manciata di polvere, con il calore degli elementi Vaga intorno, spargili e diventa un deserto per vastità. Tu appartieni all’essenza dell’amore, tu sei inestimabile. Gli acquirenti sono poveri, abbassa il prezzo nel paese. Perché vuoi velare i tuoi canti nelle corde della chitarra? Tu sei una canzone preziosa, svelala ad ogni orecchio. O saggio viandante, se nel tuo sentiero fai un incontro, Il giardino diventa rugiada se la tempesta diventa deserto. L’indulgenza si nasconde tutta nell’amore della ricchezza, Se vuoi giungere a destino, sii distruttore della ricchezza. 146.6 GHAZAL O agognato post-realtà, appari talvolta in forma materiale, Ché nella mia fronte ci sono tante prostrazioni inquiete. Partecipa all’assemblea. Tu sei una canzone da ascoltare, A che servono i canti nascosti nelle corde della chitarra? Non custodirli gelosamente, il tuo specchio è uno specchio Più caro all’occhio del Creatore se viene rotto e infranto. Nel suo girare intorno la falena esclamò:”Gli effetti passati Non sono né nella tua storia di dolore, né nella mia di amore”. I miei peccati non potrebbero trovare rifugio in nessun luogo Se non quando sono sotto l’ombra della Tua misericordia. Né nell’amore esiste quel calore, né nel bello quell’arguzia, Né nel Ghaznevide quella vivacità, né in Ayaz quei riccioli. Le volte in cui mi sono prostrato, una voce giunse dalla terra, Tu sei preso dalla materia, non c’è premio per le tue preghiere. 146.7 GHAZAL Non stupirti se gli uccelli in gabbia amavano la poesia, Il lamento che agita i cuori restava come canto silente. Il Tuo fulgore non era sufficiente per il cuore agitato, Restava il lamento dell’alba, il sospiro di mezzanotte. Non rimanevano né Dio, né idoli, né tempio, né haram, Né il coraggio di ‘Ali, né l’infedeltà di Abu Lahab. Se la mia orchestra rimase presa dal plettro straniero, Io sono martire della fedeltà il cui canto rimase arabo. 146.8 GHAZAL Anche se sei vincolato dalla causa ed effetto, Mantieni il tuo cuore alquanto indipendente. L’intelletto non è del tutto esente da critiche, Poni sempre alla base delle tue azioni l’amore. O musulmano, tieni sempre nella tua mente Presente il versetto del La yuklif ul mi’ad. Questo è il messaggio della Voce del Tempo, Tieni nel cuore Inna wa’d-Allah-i Haqqun. POESIE SATIRICHE 147.1 In Oriente i principii si conformano alla religione, In Occidente questi si conformano alle macchine. Noi non ne manteniamo neppure uno di quelli, Laggiù uno di quei principii viene mutato in tre. 147.2 Le ragazze stanno ora imparando l’inglese, La nazione ha trovato la via della prosperità. Si dà importanza alle maniere dell’Occidente, Si considerano un peccato i modi dell’Oriente. Che spettacoli produrranno questi drammi? Si saprà il risultato dopo aver sollevato il velo. 147.3 Anche lo sceicco non è un fautore del velo Gli studenti sospettano di lui senza motivo. Nel sermone di ieri egli ha detto chiaramente: Perché il velo se gli uomini diventano donne? 147.4 O saggio, si tratta di un affare di pochi giorni. Né tu sarai modesto, né la donna ama il velo. Si avvicina il tempo in cui al posto dei figli Ella vorrà i voti per un posto nell’assemblea. 147.5 L’istruzione occidentale è davvero esaltante, La prima lezione è il vanto di andare al liceo. Solo gli acquirenti abitano nel subcontinente, Gli afghani portano dal loro paese l’assafetida. Il mio stato è di leccare la punta dello stivale. Ella dice: attento, non strisciare sul mio tappeto. Si dice che il cammello sia un animale goffo, La mucca è buona perché le corna sono sottili. 147.6 Non ha importanza se il predicatore è povero, Dovrebbe inchinarsi di fronte alla nuova civiltà. Molto si è scritto sulla cancellazione della jihad, Dovrebbe scrivere sulla cancellazione dell’hajj. 147.7 Il malato della civiltà non si cura con una goli, Per curarne la malattia devi dargli una pillola. Una volta in cambio dei servigi dell’insegnante Si usava dargli come regalo i moti del cuore. I tempi sono mutati, dopo la lezione l’allievo Si rivolge al maestro: “presentami il conto”. 147.8 Ci sarà mai una fine a questo lungo acquistare, Ombrelli, fazzoletti, sciarpe, camicie giapponesi. Se va avanti questo stato di autocompiacimento, Il lavatore verrà da Kabul, il sudario dal Giappone. 147.9 Noi poveri orientali ci siamo invischiati con l’Occidente, Le caraffe di cristallo sono lì, solo vecchie terracotte qui. In quest’epoca tutti saranno eliminati tranne uno solo, Chi è saldo nei propri modi di vita è sicuro delle sue idee. O sceicco e brahmano, ascoltate le parole di chi è saggio? Dalle altezze soprane il cielo ha annientato quelle nazioni Che un tempo convocavano assemblee di affetto ed amore. Oggi si discute di urdu e hindi, di qurbani e jhatka. 147.10 “Ricerca, testimonianza, cosa testimoniata sono le stesse.” Se è vero questo detto di Ghalib, non c’è nulla di strano. O sceicco, ti è mai capitato di udire alcunché di simile? Che cosa dicono mai quelli del tempio a quelli della Ka’ba! Noi chiediamo ai musulmani che sono disposti ad amare, Se amate gli idoli, perché questa inimicizia con i brahmani? 147.11 Abbiamo perso tutte le nostre risorse materiali, Anche il pensiero del Giorno finale è scomparso. Lo sceicco è in lotta con gli Atti di Donazione, Chiedigli se esista alcuna proprietà in donazione. 147.12 Ho tentato di suicidarmi e la Miss ha esclamato: O, Amore, se sei civile, non andare oltre i limiti. Strana è l’idea del suicidio senza coraggio o spada, Persino il dolore del fallimento ha superato i limiti. Le ho risposto: Dammi un po’ di denaro contante, Assolderò un afghano dalla provincia di frontiera. 147.13 Erano così ingenui da non apprezzare il valore arabo, Che hanno avuto? non sono sfuggiti ad assalti e lotte. In Occidente il cammello si chiama la nave del deserto, I turchi non hanno saputo fare buon uso di questa flotta. 147.14 In India i consigli sono una parte del governo, Questo è l’inizio della nostra perfezione politica. Siamo stati mendicanti, mendicare era un costume, I ricchi devono ora imparare l’abilità di mendicare. 147.15 Non è difficile fare parte del Consiglio Imperiale, I voti saranno disponibili, saremo anche pagati? Sia benedetto Mirza Ghalib che ha detto bene: “Siamo pronti a vivere a Delhi, perché desistere?” 147.16 Quale sarà una miglior prova di affetto e fedeltà, Senza amore per te, che intollerabile crudeltà sarà. Si insiste ch’io parli pure nel comitato di controllo, Lo farò dopo aver capito se il Collector accetta. Accetta il certificato, può essere utile per tuo figlio, Ora è d’accordo, più tardi potrà o non potrà esserlo. Per gli indiani non è possibile avere un posto in terra, Forse è possibile per loro trovare il fondo dei mari. Come barca insensibile siamo soggetti agli ordini, Siamo legati alla riva o all’onda come egli desidera. 147.17 Lo sceicco faceva un sermone sul comportamento: Gli infedeli in India lavorano sodo nel commercio. I politeisti hanno rapporti di affari con i politeisti, Ma la nostra gente difetta di intelligenza e praticità. Impuri si ritengono gli oggetti toccati dagli infedeli, Ascolta, se l’orecchio del musulmano sente la verità! Un ubriacone era presente alla riunione del sermone, Discorsi come quelli del predicatore erano pungenti. Disse:“ Non è terribile che restrizioni di questo tipo Si estendano anche agli articoli del mangiare e bere?” Gli risposi:”Non c’è alcun problema che ti riguarda, In India anche i musulmani vendono liquori e alcool!” 147.18 Per quanto tempo andrà avanti quest’affare dell’Oriente? Si comprano tazze e bicchieri invece di coppe di religione. La cura dell’amore è la lancetta della nuova istruzione, Il mio chirurgo estrae sangue dalle vene della nazione. 147.19 Un giorno la mucca volgendosi al cammello disse: Nessuna cosa nel mondo rimane sempre lo stessa, Sono considerata un disonore se spezzo la corda, Ho sentito dire che tu hai rotto la corda del naso. In India tu sei importante per ragioni politiche, Con la ferrovia nei deserti non c’è più posto per te. Sino a ieri tu non volevi la compagnia della mucca, Sul tuo labbro pendulo persisteva la voce del “mai”. Che ti è successo che oggi tu hai mutato parere? Non c’è più oggi nel tuo cuore quella vecchia voce? Udendo queste parole, il cammello con vergogna: Anch’io voglio far parte del gruppo dei tuoi amanti, L’invidia degli sguardi dei cammelli è per te gioia, È da tanto tempo che io desidero avere questa gioia. Gli effetti dei tuoi tumulti si sono sparsi nella foresta, Quel discorso ha dato frutto persino tra i senza parola. È da tanto tempo che io vivo solo in un unico deserto, Non ho nulla, mangio e bevo con denaro in prestito. Capre, cammelli, mucche, leopardi e asini azzoppati, Tutti vivono nelle stesse condizioni. E il prestigio? Se il giardiniere impara la lezione dell’uguaglianza, Perché non dovrebbero gli uccelli vivere in armonia? Dammi la stessa tazza perché solo questa è appropriata. Tu devi esserne intossicata, i tuoi compagni altrettanto. “Che vale la veste macchiata di Hafiz? Colorala di vino, Quindi conducilo al mercato, smarrito e intossicato”. 147.20 La notte scorsa la zanzara mi narrò L’intera storia dei suoi insuccessi. Mi danno solo una goccia di sangue In cambio del lavoro di un’intera notte. E questo proprietario senza sforzo alcuno Ha succhiato tutto il sangue del contadino. 147.21 Dal carcere mi fu rivelato questo nuovo versetto, Il Corano è tutto nella Gita, la Gita nel Corano. Come procede l’amicizia tra sceicco e brahmano, In questa battaglia né l’uno né l’altro vincono. Badri si era già disgustato di andare al tempio, Masita non si affretta dalla moschea, è testardo. 147.22 Si può perdere la vita ma non la verità, Questo principio è il nucleo delle religioni. Sono gli uccelli che hanno le stesse piume, Attività bancaria, proprietà, monarchia. 147.23 Capitale e lavoro si confrontano l’un l’altro, Quante aspettazioni distrutte di tanta gente. Con prudenza questo guaio non va rimandato, Perché “ecco che voi lo state affrettando!” Gog e Magog, tutti questi sono stati liberati, L’occhio del musulmano vedrà il significato. 147.24 Quell’eterno ubriacone ha lasciato le terre di Siria, Ha accantonato le regole e l’etichetta della taverna. Se così, a che serve quest’occasione per ammonirlo? Il cielo blu cambia e muta colore ad ogni momento. Curzon si preoccupa certo delle misure da prendere, Nello stomaco dell’obbedienza è il diverso dolore. L’Agha Khan domanda alla delegazione dall’India, È il digestivo per la presa della Palestina e dell’Iraq? 147.25 Scoppiò una lite tra contadino e proprietario, Ognuno diceva che la terra apparteneva a lui. Il contadino diceva che la terra gli apparteneva, Il proprietario diceva che il contadino era pazzo. Io chiesi alla terra chi ne fosse il proprietario, Mi rispose che credeva solamente in questo: Che ne sia possessore il padrone o il contadino, Tutto ciò che è sotto il cielo appartiene alla terra. 147.26 Gettale tutte in un vicolo lungo la strada, Le uova della nuova civiltà sono marce. Elezione, membro, consiglio, presidenza, Le trappole dell’indipendenza sono strane. Il lavoro del falegname è stato diminuito, I piani dell’Europa sono diventati rigidi. 147.27 Il proprietario della fabbrica è un uomo inutile, Ama i piaceri, il duro lavoro non è affar suo. Il comando di Dio è: L’uomo avrà il suo sforzo. Il capitalista non ha diritto al frutto del lavoro. 147.28 Ho sentito queste parole nella fabbrica ieri: Gli artigiani devono abitare solo in capanne. Ma che bel salone si è costruito il governo! In città i capitalisti non hanno alcuna dimora. 147.29 I credenti si sono costruita la moschea durante la notte, Il nostro cuore infedele da anni non poté essere devoto. Che bel messaggio diede il sufi senussi al re Faisal: Tu discendi dal Hijaz, ma nel cuore non sei del Hijaz. Gli occhi sono umidi, piacere non c’è in questo pianto, Per il dolore le lacrime di sangue non diventano rosse. Iqbal è un buon consulente, affascina a volte il cuore, È diventato un eroe a parole, ma nei fatti non lo è stato. NOTE E RIFERIMENTI Introduzione Altaf Husain Hali (1837-1914), storico e riformatore sociale, sostenitore del risveglio musulmano dopo il Mutiny del 1857 e dell’attività di Sayyid Ahmad Khan. Sayyid Ahmad Khan (1817-1898), popolarmente noto come il “Sayyid” o “Sir Sayyid”, dedicò la sua vita alla rinascita della comunità musulmana nel sub-continente; nel 1877 fondò ad ‘Aligarh il Muhammadan Anglo-Oriental College, diventato università nel 1920. Da ricordare che gli studenti di ‘Aligarh costituirono sin dal 1935 il nucleo principale del Pakistan Movement e furono i principali sostenitori di M. A. Jinnah. Speeches and Statements of Iqbal, compiled by “Shamloo”, Lahore, Al-Minar Academy, 1945, p.131. Nati nello Stato di Rampur nel 1873 e 1878 rispettivamente, ebbero una parte notevole nella causa musulmana, in particolar modo nella questione del califfato. Agha Khan (1875-1957), capo spirituale dei Khoja, ramo degli Isma’iliti. Cfr. Le memorie dell’Agha Khan, Milano, Garzanti, 1954. Gastone Breccia, Il problema politico dell’India nel quadro costituzionale, Firenze, Sansoni, 1941, pp.80-90. Muhammad ‘Ali Jinnah (1876-1948), iniziò la sua vita politica nel 1910, anno in cui fu eletto deputato musulmano a Bombay, entrando nel 1913 nella Lega musulmana di cui fu eletto presidente a vita nel 1934 ricevendo dai seguaci il titolo di Qa’id-i A’zam; fu il primo Governatore Generale del Pakistan. M. K. Gandhi (1869-1948) detto il Mahatma, l’artefice della lotta non violenta. Cfr. la sua Autobiografia, a cura di C. F. Andrews, Milano, Treves, 1931; e Vito Salierno, Il Mahatma Gandhi attraverso i suoi scritti, Milano, Ceschina, 1969 Motilal Nehru (1861-1931) fu uno dei membri più influenti del Congresso. Ghulam Hussain Zulfiqar (a cura), Pakistan as visualized by Iqbal & Jinnah, Lahore, Bazm-i Iqbal, s.d., p.20. Chaudhri Rahmat ‘Ali, Pakistan, cit. in Hector Bolitho, Jinnah creator of Pakistan, London, J. Murray, 1954, p.125. Sulla sua lotta per la formazione del Pakistan, cfr. Vito Salierno, Pakistan, Milano, IsMEO, 1961; e soprattutto i discorsi di Jinnah, Speeches and writings, Lahore, 1947, voll.2. Da un discorso tenuto nel 1938 agli studenti di ‘Aligarh; cit. in H. Bolitho, p.100. Liyaqat ‘Ali Khan (1896-1951), principale sostenitore dell’opera di M. A. Jinnah, fu Primo Ministro del Pakistan sino alla morte (fu assassinato il 16 ottobre 1951 durante un discorso a Rawalpindi). Jawaharlal Nehru (1889-1964), il più influente uomo politico dopo Gandhi, Primo Ministro dell’India dal 1947 alla sua morte, autore di un importante lavoro The Discovery of India, scritto in cinque mesi nel carcere di Ahmadnagar nel 1944 (Calcutta, The Signet Press, 1946). G. Breccia, op. cit., pp.121-245. Virginia Vacca, L’India musulmana, Milano, ISPI, 1941, pp.106-107. Cit. in Sachin Sen, The birth of Pakistan, Calcutta, 1955, p.146. La missione era composta di Sir Stafford Cripps, Lord Pethick Lawrence e A.V. Alexander. Il lavoro più ampio ed esauriente sugli studi di Iqbal in Europa è quello di Sa’id Akhtar Durrani in urdu, Iqbal Iurop main [Iqbal in Europa], pubblicato dall’Iqbal Akademi-i Pakistan nel 1985. Cfr. in particolare i capitoli 1-2, “Sha’ir-i Mashriq ki tarikh-i paida’ish ka masa’il” (Problemi sulla data di nascita del poeta dell’Oriente), pp.1-7 e “Chand naye zaviye” (Alcuni nuovi punti di vista), pp.8-16. La lirica apre il primo volume di poesie in urdu, il Bang-i Dara [Il richiamo della carovana], pubblicato nel 1924. Vito Salierno, Antologia della poesia urdu, Milano, Ceschina, 1963. The Secrets of the Self, translated from the original Persian with introduction and notes by Reynold A. Nicholson, London, Macmillan, 1920. Revised Edition: Lahore, Shaikh Muhammad Ashraf, 1940. The Mysteries of Selflessness, translated with introduction and notes by Arthur J. Arberry, London, John Murray, 1953. Il poema celeste, a cura di Alessandro Bausani, Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1965, pp.182-188. Ibidem, pp.242-243. Si tratta di Javed (nato il 5 ottobre 1924), figlio della seconda moglie Sardar Begam (c.1892-1935) che Iqbal sposò nel 1910. Il Dr. Javed Iqbal, Giudice della Suprema Corte del Pakistan, è attualmente Vice- Presidente dell’Iqbal Academy of Pakistan, Lahore. A. Bausani, op. cit., pp.33-179. La prima traduzione apparve in un’edizione a tiratura limitata presso l’Is.M.E.O. di Roma. Quella del 1965, che ha dato il titolo all’intero volume antologico, è una riedizione riveduta e corretta. Alessandro Bausani (a cura), Poesie, Parma, Guanda, 1957, p.43. Il poema celeste, ediz. 1965, già cit., pp.216-218. Pubblicato postumo dal figlio Javed, Lahore, Sh. M. Ashraf, 1960; la prima conferenza è “Knowledge and religious experience”, pp.18-21. Alessandro Bausani, Le letterature del Pakistan e dell’Afghanistan, Milano, Sansoni-Accademia, ediz. agg., 1968, p.39. Bal-i Jibril, in Kulliyat-i Iqbal. Urdu, Iqbal Academy Pakistan, Lahore, National Book Foundation, Islamabad, 1990, p.86. Vito Salierno, “Protesta e Risposta alla Protesta” di Muhammad Iqbal. Traduzione dall’urdu con introduzione e note, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale”, Napoli, vol.58, 1998, pp.229-254. Bal-i Jibril, ghazal 14, pp.47-48 (Tu ae maula-i Yathrib! Ap meri chara sazi kar/Meri danish hai afrangi mera iman hai zunnari). Stray Reflections. The Private Notebook of Muhammad Iqbal. Also includes: ‘Stray Thoughts’. Edited with Afterword by Javed Iqbal. Revised and annotated by Khurram Ali Shafique. Appendix: ‘A Rare Writing of Iqbal’ by Afzal Haq Qarshi, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2006, 3rd Edition. Letters of Iqbal, compiled & edited by Bashir Ahmad Dar, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2005, 2nd Edition, pp.21-22. Ibidem, pp.23-24. Kulliyat-i Iqbal. Urdu. Bang-i Dara, pp.187-188. Vedi la traduzione, poesia n.92. ‘Alamgir Aurangzeb (regnò 1658-1707), l’ultimo grande imperatore panindiano della stirpe dei Moghul, estintasi ufficialmente nel 1857-58 con il Mutiny. Morì nell’accampamento di Ahmadnagar, nel Deccan, all’età di 88 anni, mentre l’impero crollava nel caos e nella dissoluzione. Iqbal scrisse la poesia su Aurangzeb, non in urdu, ma in persiano, il masnavi Asrar-i Khudi, in cui spiegava la filosofia e il credo della nazione musulmana (vedi nota 23). In Stray Reflections, già cit., pp.47-48, il poeta spiega il fallimento dell’imperatore e scrive una significativa frase in corsivo: Conquest does not necessarily mean unity. Letters of Iqbal, op. cit., pp.31-34. Vi si recò per specializzarsi in legge e completare gli studi di filosofia al Trinity College, Cambridge. Il Poema Celeste, tradotto in italiano da Alessandro Bausani, già citato. Vito Salierno, Muhammad Iqbal. L’essenza della bellezza, in “Poesia”, Milano, anno VI, n.66, ottobre 1993, pp.49-54; e, in urdu, Itly main Iqbal ka mutala’a [Studi di Iqbal in Italia], in “Majlis-i Iqbal”, Lahore, April 21, 1964, pp.1-2. Cfr. “The Muslim Revival”, Lahore, vol.I, n.1, March 1932, pp.67- 68, cit. in Maria Nallino, Recente eco indo-persiana della “Divina Commedia”: Muhammad Iqbal, in “Oriente Moderno”, Roma, anno XII, n.12, dicembre 1932, pp.610-622. Per il testo originale in inglese cfr. Syed Abdul Vahid, Introduction to Iqbal, Karachi, Pakistan Publications, [1960], p.47. Nel registro delle udienze di venerdì 27 novembre 1931-X si legge: “Ore 15.45 Sir Mohamed [sic] Iqbal, grande poeta mussulmano”. Segreteria particolare del Duce, Carteggio Ordinario, Udienze b.3107. Ringrazio il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Archivio Centrale dello Stato, nella persona del Sovrintendente Dirigente Generale, Prof.ssa Paola Carucci, per il cortese interessamento. Il giorno dopo, 28 novembre, “Il Giornale d’Italia” pubblicò un lungo articolo, non firmato, dal titolo “Sir Mohammed Igbal [sic], il poeta dell’Islam che è stato ricevuto all’Accademia d’Italia”, mentre “La Tribuna”, “Il Messaggero”, “Il Lavoro Fascista” ed il mensile “Oriente Moderno” pubblicarono un trafiletto di agenzia relativo alla conferenza che Iqbal tenne all’Accademia d’Italia lo stesso giorno dicendo solo che si era trattata di “una conferenza su un tema etico religioso, che era stata seguita con profonda attenzione, e alla fine, vivamente applaudita”. In una lettera all’amica di Heidelberg, Emma Wegenast, scritta da Londra il 19 novembre 1931, Iqbal disse: “Andrò direttamente a Roma su invito del Signor Marconi [Presidente dell’Accademia d’Italia]”. Cfr. S. A. Durrani, Iqbal Iurop main, già cit., p.270. Due Poesie di Iqbal, tradotte in italiano con testo a fronte da Vito Salierno, Karachi, Edizioni Il Gelsomino, 1964. Sino al ritrovamento della nota relativa all’udienza concessa da Mussolini a Iqbal c’erano solo la testimonianza dell’articolo di Pietro Quaroni, che non diceva la data e l’affermazione del figlio del poeta, Javed Iqbal, sulla base di ricordi paterni. Sono stato spronato alle ricerche di archivio dal Dr. Sa’id A. Durrani, Chairman dell’Iqbal Academy, Great Britain, che in un incontro a Milano mi ha sollecitato ad approfondire l’argomento: a lui il mio sincero grazie. L’articolo è stato ripubblicato, con lievi modifiche di forma, in Pietro Quaroni, Il mondo di un ambasciatore, Milano, Ferro Edizioni, 1965, pp.106-112. I Documenti Diplomatici Italiani, Settima serie, 1922-1935, vol.XI, Roma, 1981, p.81. “Le Indie sono proprio il forziere del mondo. È necessario che l’Italia le possieda. Non importa ciò che gli inglesi possano dire. I legionari fascisti si incaricheranno di farli tacere”, in Krsta Chantitch-Chandan, L’unité yougoslave et le roi Alexandre Ier. Préface par le Maréchal F. D’Espérey, Paris, P. Bossuet, 1931. Cfr. Loretta De Felice, Un fondo bibliografico, d’interesse documentario, conservato nell’Archivio Centrale dello Stato. La “Collezione Mussolini”, in “Storia Contemporanea”, anno XIV, N.3, giugno 1983, pp.489, 498 (Segnatura C.M. 148, N.46 del Catalogo redatto da L. De Felice). Si legga sull’argomento relativo al fascismo-India l’illuminante saggio di Renzo De Felice, Il fascismo e l’Oriente. Arabi, ebrei e indiani nella politica di Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1988. Sotto lo pseudonimo di Viator si celava Gino Scarpa, un uomo legato a Palazzo Chigi, che dal 1923 in poi era stato più volte in India ed era amico del segretario di Gandhi, Mahadev Desai: dal 1929 al 1933 aveva ricoperto l’incarico di Console Generale a Calcutta. Era stato Gino Scarpa, incontrato da Pietro Quaroni ad Atene, sulla via dell’Afghanistan, a fornire al diplomatico italiano varie lettere di presentazione tra cui quella per Iqbal. Viator, L’India dove va?, Roma, Libreria del Littorio, 1930. Bang-i Dara Il Richiamo della Carovana Titolo inglese corrispondente a “Patrocinatore Legale”. Una tra le prime riviste letterarie mensili in urdu nel Panjab: molte delle poesie giovanili di Iqbal furono pubblicate in questo periodico. Ghalib (Agra 1796-Delhi 1869) visse come poeta alla corte dell’ultimo imperatore moghul Bahadur Shah Zafar e successivamente alla corte del sovrano di Lucknow sino al 1855 quando l’ultimo governante Wajid ‘Ali Shah fu deposto dagli inglesi. La sua opera completa in persiano e in urdu fu pubblicata a Lucknow nel 1863. Cfr. Ahmed Ali - Alessandro Bausani, Ghalib. Two Essays, Roma, IsMEO, 1969; A. Bausani, The position of Ghalib (1796-1869) in the history of Urdu and Indo-Persian poetry, in “Islam”, XXXIV, 1958, pp.99-127. Iqbal ebbe sempre una speciale predilezione per questo poeta grande ma sfortunato, che collocò nel paradiso assieme a Mansur al-Hallaj (858-922), mistico musulmano, diventato un po’ il simbolo dell’amore mistico e di una concezione incarnazionistica della divinità: arrestato nel 913 per eresia (una delle prove più forti contro di lui fu la famosa frase “Io sono Dio”, ana ‘l-haqq, pronunciata in un momento di estasi), fu giustiziato e crocifisso a Baghdad. Shaikh Nur Muhammad (c.1837-1930) era proprietario di una piccola industria tessile, la madre Imam Bibi (m.1914) era una donna di grande pietà religiosa. A lei Iqbal dedicò la poesia Walidah Marhumah ki Yad Main [In ricordo della madre benedetta] nel Bang-i Dara, pp.254-266. Il nome Iqbal significa “successo, buona fortuna, prosperità”. Sayyid Mir Hasan (1844-1929) “Sole degli studiosi”, titolo attribuito agli studiosi musulmani dal governo britannico dell’India. Corrispondente al nostro diploma di scuola media inferiore. Shibli Nu’mani (1857-1914), critico, storico e filosofo, professore di arabo al Muhammadan Anglo Oriental College di ‘Aligarh. In disaccordo con Sir Sayyid Ahmad Khan, fautore dell’introduzione della cultura occidentale tra i musulmani d’India, si trasferì nella città natale di ‘Azamgarh dedicandosi all’attività letteraria. Tra i suoi lavori più importanti sono da annoverare le biografie del Profeta, di al- Ghazzali, dell’imperatore moghul Aurangzeb, di Rumi, di Amir Khusroe. Altaf Husain Hali (1837-1914), poeta, allievo di Ghalib, liberò la letteratura urdu dal convenzionalismo e propugnò altre forme metriche quali il masnavi, poema a carattere moralistico, mistico e narrativo, e la marsiyah, poema elegiaco. Akbar Allahabadi (1846-1921), giudice di professione, fu poeta dall’humour elegante ma pungente: tema costante della sua poesia è lo snobismo dei musulmani occidentalizzati che credono di diventare moderni lasciandosi alle spalle il loro patrimonio culturale e nazionale. Questa osservazione può sembrar strana al lettore occidentale che ignori come i versi di un certo stile di poesia musulmana (specialmente il ghazal) sono pearls at random strung, ognuno formando una unità in sé completa e connesso con gli altri versi dell’insieme solo da una esile Stimmung generale. È pertanto difficile ricordare a memoria nello stesso ordine i versi di un ghazal classico persiano o urdu perché esso è ben spesso ugualmente bello e accettabile con i versi messi in un ordine qualsivoglia (Nota di A. Bausani). I versi persiani, urdu, ecc. (almeno quelli composti nella tradizione classica) non sono fatti per esser recitati con voce normale, o peggio ancora per esser letti con gli occhi, bensì per esser cantati. Si immagina facilmente l’effetto sociale di certo tipo di versi iqbaliani sul popolo indiano musulmano della sua epoca (e del resto anche della nostra) se si tiene presente come le idee ivi espresse non erano intellettualmente “lette” ma popolarmente cantate, e anche se difficili, e proprio perché difficili, avevano un notevole effetto educativo sulle masse, che estasiate dalla loro armonia anche senza, dapprima, comprenderne i significati, li apprendevano e assaporavano facilmente a memoria (data la presenza di metri e rime) per poi “studiarli”. La poesia persiana e urdu ebbe, fra le masse analfabete dei paesi orientali, ben spesso la funzione che ha da noi il giornalismo (Nota di A. Bausani). Si tratta della tesi di laurea The Development of Metaphysics in Persia. Sul soggiorno di Iqbal a Monaco per il conseguimento del Ph.D. si veda il volume di Sa’id Akhtar Durrani in urdu, Navadir-i Iqbal Iurop main [Curiosità di Iqbal in Europa], Lahore, Iqbal Akademi-i Pakistan, 1995, cap.3, pp.103-140. Non è infatti esagerato affermare che il persiano classico, per vari motivi storici e linguistici, è una delle lingue che meglio si presta alla espressione poetica di concetti astratti, mistici e filosofici, con risultati diversissimi, per levità e fluidità, da quelli della greve poesia didascalica e filosofica dell’occidente. Merito di Iqbal è quello di avere mostrato la perfetta capacità del persiano classico poetico anche per la espressione di concetti moderni. Simbolo della tragica crisi delle nazioni e delle culture dell’oriente è che, mentre in Persia tale possibilità è praticamente sdegnata dai giovani in nome di un’assoluta europeizzazione formale, nel Pakistan, che tale “iqbalismo culturale” pur propugna, ci si trova di fronte alla difficoltà dell’essere il persiano lingua straniera. La soluzione attuale sembra quella di scegliere un urdu estremamente persianizzato come quello dell’Iqbal del terzo periodo, ma è fortissima anche qui la corrente letteraria che si oppone a questo, e preferisce un urdu più “paesano”, locale e realistico (Nota di A. B). Questo era il pensiero di Bausani mezzo secolo fa Recitata a Lahore nel 1899 nella seduta della Anjuman-i Himayat-i Islam, fu pubblicata nel numero di aprile 1901 della rivista “Makhzan” [Il magazzino]. È l’alternanza del giorno e della notte che produce il tempo. Kalim è il soprannome di Mosè; significa anche “interlocutore”. Nell’originale il monte Sinai è detto Tur. Il divan è l’opera completa di un poeta, di solito comprendente ghazal. Si tratta di una metafora. Da ricordare che nel mondo islamico alla fine di un corso di studi universitari il dottorando riceveva un turbante. Letteralmente il termine fart significa sia “abbondanza” che “cima o vetta di una montagna”. Nell’originale be-zanjir, ossia “senza catena”. Mitiche sorgenti nel Paradiso. Il Kauthar dà il nome alla surah CVIII,1; per il Tasnim v. la surah LXXXIII, 27 “mesciuto con acqua di Tasnim, la fonte alla quale bevono i Cherubini”. Per i riferimenti coranici in tutte le note abbiamo utilizzato la traduzione italiana di Alessandro Bausani, Corano, Firenze, Sansoni, 1961. Letteralmente “dell’Iraq”. Lailah, la mitica innamorata di Arabia, protagonista di vari poemi epici. L’Autore si riferisce alla civiltà della Valle dell’Indo, ai Veda, ma anche ad una rinascita dell’Islam di cui la civiltà dell’Asia è precursore. Nell’originale arzu significa “ardente desiderio”: è la base della filosofia di Iqbal. Il desiderio non è rivolto alle materialità della vita o alla soddisfazione del desiderio fisico che esiste in tutte le cose viventi. È il desiderio tipico dell’uomo, sostituto di Dio sulla terra, per conoscere la verità e lo scopo della creazione. Da intendersi in maniera figurata: la bellezza va vista con riferimento alle manifestazioni della Bellezza divina. Si tratta di una metafora: i petali, simili a lingue, mostrano la mano artistica del Creatore malgrado il silenzio del fiore. Nell’originale Jam-i jam, ossia la leggendaria coppa del re Jamshid in cui si poteva osservare ciò che si desiderava. Il poeta esprime la speranza che la sua condizione presente possa essere il mezzo per progredire alla ricerca dell’Io. Si riferisce alle macchie lunari. Vedi nota 56. La poesia fu pubblicata in “Makhzan” nel 1902. È un concetto sufi secondo il quale ogni cosa nell’universo rappresenta Iddio sotto forme differenti: tecnicamente è la teoria panteistica detta vahdat al-vujud. Riferimento a Muhammad Shams ad-din Hafiz (1319-1390), autore di un Divan contenente qaside, ghazal, frammenti, ruba’i e brevi masnavi quali il Saqi-namah, tra le composizioni più personali e inimitabili del poeta di Shiraz. Allusione a Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), sepolto a Weimar, alla cui corte visse dal 1796 al 1829. Si tratta di un distico di Ghalib già citato da ‘Abd al-Qadir nella sua Introduzione. Altro nome di Delhi. Notevole è in questa lirica l’influenza di Ode to the Cloud di Percy Bysshe Shelley, anche se la stesura di Iqbal è tutta in chiave orientale, mentre quella di Shelley è tipica del romanticismo inglese. Iqbal conosceva molto bene i romantici inglesi; nella sua biblioteca personale, ora nell’Islamia College di Lahore, c’erano l’opera omnia di Shelley in due volumi: The Poetical Works of P. B. Shelley, London, Reaves & Turner, 1886 (vedi il Descriptive Catalogue of Allama Iqbal’s Personal Library by Muhammad Siddiq, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 1983, sotto il n.341-342) ed un saggio di Adolphus Alfred Jack, Shelley. An Essay, London, Archibald Constable, 1904. Letteralmente qulzum è il mar Rosso o il Golfo Persico. Si allude al miracolo di Gesù di risuscitare i morti. Nel Corano, V, 110: “e quando risuscitavi i morti, col Mio permesso”. Inoltre, LXXVIII, 14-16: “e acqua copiosa abbiamo versato giù da spremute nuvole, con cui far germinare grani ed erbe, e giardini fioriti”. Questa poesia e le successive sono una sorta di apologo con morale finale. Ralpho Waldo Emerson (1803-1882), poeta e filosofo nordamericano, autore di poesie che parlano di un mondo essenzialmente etico e religioso. Nel 1836 pubblicò il saggio Nature sulle relazioni dell’anima con la natura, che diede origine al movimento “Trascendentalism”, la cui conclusione era che l’io dell’uomo stesso è divino ed è una parte di Dio. Nella biblioteca personale di Iqbal c’erano tre volumi di Emerson, uno di poesie (London, Macmillan, 1897) e due di saggi (Philadelphia, David Mackay, 1888). Ovviamente in senso ironico. William Cowper (1731-1800), poeta inglese, autore tra l’altro di un volume di poesie pubblicato nel 1782, contenente otto satire; contribuì alla raccolta di John Newton Olney Hymns con eccellenti liriche. Il più noto dei suoi poemi è The Diverting History of John Gilpin, pubblicato anonimo nel 1792 e ripubblicato in The Task nel 1785. Di quest’ultimo libro, The Task, c’era nella biblioteca personale di Iqbal una copia pubblicata a Londra nel 1855. Riferimento al Corano, II, 153-154: “O Voi che credete, cercate aiuto nella pazienza e nella Preghiera, ché Dio è coi pazienti. E non dite di coloro che son stati uccisi sulla via di Dio:’Son morti’. No! Che anzi essi sono viventi, senza che voi li sentiate”. Albero tropicale snello e dai bianchi fiori fragranti. Poema didattico nella forma detta istifsar-i inkari, ossia interrogazione con risposta in negativo. Nell’originale hairat-khana, luogo di stupore. Nell’originale tamasha, spettacolo. Nell’originale misr, verso. Significa che l’uomo non comprende il significato del concetto musulmano dell’unità dell’umanità (tohid-i insaniyaf). Riferimento al Corano, XLIX, 13: “O uomini, in verità Noi v’abbiam creato da un maschio e da una femmina e abbiam fatto di voi popoli vari e tribù a che vi conosceste a vicenda, ma il più nobile fra di voi è colui che più teme Iddio. In verità Dio è sapiente e conosce”. “Tu non mi vedrai”, cioè l’uomo non è in grado di vedere Dio in questo mondo; Corano, VII, 143: “E quando Mosè venne al Nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui, disse Mosè: ‘O Signore! Mostrati a me, che io possa rimirarti!’. Rispose: ‘Non mi vedrai. Ma guarda il monte, e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu mi vedrai!’. Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato. E quando ritornò in sé disse: ‘Sia gloria a Te! Io a Te mi converto e sono il primo dei credenti!’”. Letteralmente abitanti di Tur, ossia del Sinai, in senso lato i musulmani. Metafora per indicare il cielo sulla base della cosmologia medievale. Poesia mistica che riprende in chiave moderna il motivo simbolico e convenzionale, tipico della letteratura urdu, della “rosa e usignuolo” [gul o bulbul] e della “candela e falena” [sham o parvanah]. Al vecchio motivo stereotipato ed esagerato Iqbal sostituisce qui l’espressione spontanea delle emozioni umane: l’amore della falena per la candela è diventato l’amore del fedele [mu’min] per Dio. Nell’originale tavaf, ossia il circuito della Mecca, il girare attorno al santuario o all’oggetto da venerare. È la circumambulatio latina o la pradakshina sanscrita, comune a tutte le religioni. Inoltre il jalwagah, il trono nuziale, significa il trono celeste, oggetto della venerazione. Nell’originale Kalim, interlocutore, che nella forma completa di Kalim Allah, diventa “colui che parla con Dio”, epiteto di Mosè. Nell’originale Tur. È tutta una visione mistica: la falena e la fiamma, la farfalla che si brucia al fuoco della candela, che si immola volontariamente, ossia il fedele al cospetto di Dio in una visione positiva più che di annientamento. Si tratta dell’eterno problema tra intelletto [’aql, khirad, danish] e intuizione [dil, jigar, vajdan], ossia i due mezzi per conoscere la verità dell’esistenza [vujud] e dell’essenza [zat] di Dio in rapporto all’universo. Il problema affrontato da Iqbal in altre opere di poesia, e in particolare nel saggio The Reconstruction of Religious Thought in Islam, non è stato da lui risolto in maniera univoca ma nell’accettazione della supremazia dell’intelletto e dell’intuizione a seconda delle situazioni. Personaggio avvolto nel mistero, considerato secondo fonti autorevoli un angelo, custode dei segreti dei paradossi della vita che i comuni mortali non possono capire. È stato identificato con un personaggio senza nome nel Corano, XVIII, 65: “E s’imbatterono [Mosè e il suo servo] in uno dei Nostri servi, cui avevam dato misericordia da parte Nostra, e gli avevamo insegnato della Nostra scienza segreta”. Allusione all’arcangelo Gabriele; in particolare il v.14 della surah LIII ricorda “il loto di al-Muntaha”, e Corano, LVI, 28: “piante di loto senza spine [Sidratu ‘l-Muntaha]. Secondo alcuni botanici si tratta di zizyphus lotus, secondo altri di zizyphus spina Christi di cui si crede fosse fatta la corona di spine di Gesù Cristo. Probabile metafora: le onde che si espandono dovrebbero significare un’ideologia, l’Islam, mentre la riva indicherebbe un territorio. La poesia fu pubblicata in “Makhzan” nel 1902. Thèophile Gautier (1811-1872), poeta e romanziere francese, autore fra l’altro di un “balletto” a soggetto indiano, L’anello di Sakuntala, rappresentato a Parigi nel 1858. Nella filosofia zoroastriana della Persia preislamica Yazdan era il dio del bene. Letteralmente avval-o-akhir, primo e ultimo, inizio e fine. Si tratta di un altro motivo tradizionale della poesia urdu, quello della candela come emblema dell’amante e dell’amata. Nell’accezione comune la falena gira attorno alla candela e si brucia per amore; in quella mistica è l’anima che si strugge per raggiungere il divino. In questa lirica Iqbal supera le due accezioni: la falena è l’uomo alla ricerca di Dio. Questa poesia fu pubblicata in “Makhzan” nel dicembre 1902. Nella poesia urdu l’arbusto della ruta è simbolo di ansia e dolore. Dio. Nell’originale haram, il recinto sacro della moschea, una parte per il tutto. Nell’originale tajalli significa manifestazione del potere di Dio e dei suoi attributi. Kun è il suono di “essere”, “che tu sia”, “fiat”, cui si allude in molti versetti coranici, quale ad esempio, III, 59, “E in verità, presso Dio, Gesù è come Adamo: Egli lo creò dalla terra, gli disse: “Sii”, ed egli fu”. Nell’originale vatan ha per Iqbal il significato di patria non nel senso occidentale, ma di intero mondo dell’Islam: si veda, in seguito, la lirica Tarana-i milli (n.84). Si allude allo status elevato dell’uomo Nell’originale divan significa una raccolta completa di poesie, di solito ghazal, quindi “libro” in senso lato. È una delle prime poesie in cui la vena lirica di Iqbal ha il sopravvento sul suo pensiero filosofico: il poeta si abbandona alla melodia della natura anche se molti versi sono un passaggio dal mondo dell’occhio e dell’orecchio al mondo del pensiero. Cfr. M. A. Farooqi, The poetic art of Iqbal, in “Iqbal Review”, Karachi, II, n.3, October 1961, pp.24-50. Questa poesia fu pubblicata in “Makhzan” nel dicembre 1902. La coppa di Jamshid, vedi nota 81. Per la precisione l’originale è più complesso: tuta hava-i diya = la lampada che squarci l’aria, quindi che illumini la notte buia. Bello questo paragone tra il richiamo mattutino del cuculo e quello della preghiera. Letteralmente daman significa “gonna, vela di nave, piede di una montagna”; in senso lato “una superficie che si espande”. Letteralmente millat o a’in = nazione e leggi.. L’uomo, che ha la capacità di indagare i segreti dell’Esistenza e dell’Essenza di Dio, mentre il sole è superiore solo in apparenza perché compie sempre gli stessi movimenti meccanici, sorgendo, raggiungendo l’apice e tramontando. Nell’originale mahmil significa “portantina, palanchino”. Si allude a Mosè e alla sua conversazione con Dio sul monte Sinai. Mosè era attratto dal monte Sinai dal suo inconscio desiderio di vedere Dio, mentre il ricercatore della verità d’oggi non è più spinto da questo desiderio. Distico persiano, leggermente modificato, che Iqbal ha ripreso dalla lirica Daftar-i avval facente parte del Masnavi-i ma’navi [Il masnavi spirituale] di Jalal ad-din Rumi (1207-1273). L’inserimento di versi altrui [tazmin] era un’antica usanza ritornata in auge nel periodo del risveglio dell’Islam indiano. Si tratta dell’epiteto popolare con cui era noto Sir Sayyid Ahmad Khan. Iqbal scrisse questa poesia dopo aver visitato la tomba del Sayyid nel cortile della moschea dell’università di ‘Aligarh. Nell’originale bandah mu’min significa “lo schiavo fedele a Dio, un musulmano ortodosso, un vero credente”. Per Iqbal un mu’min è simile ad uno specchio in cui si riflettono gli attributi di Dio, è un microcosmo in cui l’Assoluto diventa consapevole di sé in tutte le sue componenti. Nell’originale va al-Shams, la surah del Sole, Corano, XCI; è una surah di quindici versetti, una fra le prime rivelazioni del primo periodo meccano. Henry Wadsworth Longfellow (1807-1882), poeta nord-americano, autore di ballate e poesie, Voices of the Night (1839), del lungo poema Evangeline (1847) e della saga indiana The song of Hiawatha (1855). Richiamo alla surah XXIV, 35, detta della Luce: “Dio è la luce dei cieli e della terra, e si rassomiglia la Sua Luce a una Nicchia, in cui è una Lampada, e la Lampada è in un Cristallo, e il Cristallo è come una Stella lucente, e arde la Lampada dell’olio di un albero benedetto, un Olivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non brilla anche se non lo tocchi fuoco. È Luce su Luce; e Iddio guida alla Sua luce chi Egli vuole, e Dio narra parabole agli uomini, e Dio è su tutte le cose sapiente”. Letteralmente bam-i haram, tetto del recinto sacro. Allusione al Giorno della Resurrezione, Corano, XVIII, 99-101: “E in quel Giorno Noi lasceremo che gli uomini si precipitino come onde possenti gli uni su gli altri, e squillerà la Tromba, e li raduneremo tutti, assieme, ed esporremo aperta alla vista degli empi in quel giorno la gehenna, degli empi, ch’ebbero gli occhi coperti di veli di fronte al Mio mònito e non riuscirono a udire”. Alfred Tennyson (1809-1892), poeta lirico, autore di due volumi di poesie (1830 e 1833), poi Poems in two volumes (1842), in particolare gli Idylls of the King (1859) e In Memoriam (1850) per la morte dell’amico prediletto Arthur Hallam. Nella biblioteca personale di Iqbal c’era l’opera omnia di Tennyson, The Works, nell’edizione di Londra, Macmillan, 1900, con numerosissimi segni di lettura. È l’eterno problema del khudi e be-khudi. Nell’originale makan e la-makan.. Designazione di coloro che hanno compiuto studi religiosi di secondo grado, in genere considerati i meno istruiti, spesso formalisti intransigenti e fanatici dalle idee ristrette. Mistico musulmano detto sufi dal vocabolo suf = lana, poiché gli asceti vestivano un rozzo saio di pelo di cammello. L’osservanza dei precetti fondamentali dell’Islam. Termine arabo per indicare la mistica musulmana. Nell’originale rind significa scettico, libero pensatore. Abu Talib Kalim di Hamadan, poeta persiano, visse alla corte di Shah Jahan, seguendo il sovrano nel Kashmir dove morì nel 1651. Nell’originale tashi’iya, che significa “chi professa il punto di vista della shi’a”, ossia gli sciiti. Si riferisce con tutta probabilità all’abitudine dei poeti di frequentare a Lahore il quartiere delle prostitute, che sono anche cantanti e quindi ne cantano i versi. C’è qui anche una qualche allusione all’amore di Iqbal per una di queste donne, una certa Amir Begam che sembra volesse sposare. Nell’originale tilavat significa “recitazione dei testi sacri”. Mansur al-Hallaj (c.858-922), famoso mistico persiano, considerato eretico dagli ortodossi, fu condannato a morte per una frase pronunciata nell’estasi: ana al-haqq [io sono la verità], ossia l’unica realtà essenziale. Nell’originale dil. Vedi nota 112. Si riferisce al desiderio di Mosè di vedere Dio; molti i riferimenti coranici, in particolare VII, 143, dove ricorre la parola arini. Vedi nota 104. Farhad, il tipico amante, innamorato di Shirin: per dimostrarle il suo amore Farhad scavò nella montagna facendo uscire un fiume di latte. Si tratta di una metafora molto usata dai poeti per indicare una cosa impossibile. Reminiscenza di The Wave di E. W. Longfellow. Vedi nota 94. Questa poesia fu pubblicata in “Makhzan” nel marzo 1904. Si allude a Giuseppe messo in vendita sulla piazza del mercato. Corano, XII, 19: “Passarono poi presso al pozzo dei viaggiatori e mandarono uno a attinger acqua. Fece calare il suo secchio in fondo al pozzo e gridò: ‘Ohè, buona novella! c’è qua un ragazzo!’ E lo nascosero per venderlo poi come merce; ma intanto Dio sapeva quel che facevano”. Nell’originale junun significa “pazzia”, che spesso nella letteratura urdu assume il significato di “pazzia d’amore” tipico degli amanti della solitudine nella duplice accezione di amore divino e amore terreno. Re di Persia, il più noto dei quali è Dario I (550-485 a.C.) che estese l’impero fino all’Egitto e invase la Grecia, ma fu sconfitto a Maratona nel 490 a.C.: qui ovviamente è ricordato come simbolo della potenza imperiale. Inutile sottolineare come Iqbal, uomo di fede, sia indifferente alla gloria terrena. Alessandro il Macedone (356-323 a.C.), conquistatore dell’Egitto, fondatore di Alessandria, sconfisse i Persiani e sottomise il Panjab. Poesia modellata su To the Infant di Samuel Taylor Coleridge (1772-1834). Poema pubblicato nella rivista “Makhzan” nel marzo 1904 e recitato in aprile ad una riunione dell’Anjuman-i Himayat-i Islam a Lahore. È questo il primo lungo poema a carattere politico in cui il poeta mette in risalto la situazione di soggezione del sub-continente indiano sotto l’amministrazione britannica, la frustrazione dell’uomo della strada privo di khudi e incapace di comprendere la realtà senza la guida divina, il suo personale desiderio di infondere nuova consapevolezza nei suoi correligionari, l’inesistenza di un piano per ottenere l’indipendenza, il declino dei musulmani d’India, e la necessità di riprendere la lotta guidati dall’amore divino e dall’unità delle varie etnie del sub-continente indiano. Nella stessa occasione Iqbal lesse un poema di Hali, che era presente alla riunione ma non aveva voce sufficiente per farsi udire dagli ascoltatori. Letteralmente “nel suono accattivante del campanello della carovana”: inutile sottolineare il continuo riferimento al titolo della raccolta. Il verso originale è tutto una metafora: Alessandro si diceva possedesse uno specchio di rame brillante, e lo specchio è nella poesia persiana indice di turbamento, e non è da escludere che l’ultima parola del verso gard-i kudurat, letteralmente “polvere di feccia”, sia connessa con lo specchio essendo il vetro fatto di polvere di sabbia. Cespuglio sempreverde i cui semi arrostiti scoppiano e saltano: è una metafora per indicare una persona attiva e concentrata a perseguire uno scopo. L’henna è un colorante rossastro estratto da una pianta coltivata in tutto l’oriente: è usata dalle donne per decorare mani e piedi. Si allude al ritrovamento di Giuseppe nel pozzo, Corano, XII, 19: “Passarono poi presso al pozzo dei viaggiatori e mandarono uno ad attinger acqua. Fece calare il suo secchio in fondo al pozzo e gridò: ‘Ohè, buona novella! C’è qua un ragazzo!’ E lo nascosero per venderlo poi come merce; ma intanto Dio sapeva quel che facevano”. Al pari dei viaggiatori che avevano visto Giuseppe come uomo e non come profeta, la maggioranza vede la religione come un rito senza comprenderne i valori più alti, riducendo la verità assoluta a semplice forma rituale. Forma abbreviata di Jamshid. Vedi nota 81. Nel Corano, II, 35-39, si ricorda la storia biblica di Adamo: “E dicemmo: ‘O Adamo, abita, tu e la tua compagna, questo giardino, e mangiatene abbondantemente e dove volete, ma non vi avvicinate a quest’albero, che non abbiate a divenir degli iniqui’. Ma Satana li fece scivolar di lì e dalla lor condizione li tolse. Così dicemmo loro: ‘Andatevene a odiarvi l’un l’altro come nemici; sulla terra avrete una sede e godimento d’un’ora’. E Adamo ricevette Parole dal Signore, il quale lo perdonò, perché Egli è il Perdonatore, il Misericordioso. Dicemmo dunque loro: ‘Via tutti dal giardino, e quando riceverete da me una Guida, coloro che seguiranno la Mia Guida non avranno né timore né tristezza. Ma coloro che non crederanno e i Miei Segni smentiranno, ebbene sono del Fuoco, nel quale rimarranno in eterno”. Appellativo di Farhad, l’amante di Shirin. Poesia dedicata a Sir Thomas Walker Arnold (1864-1933), che iniziò la sua carriera accademica in India nel 1888 come Professore di filosofia al Muhammadan Anglo Oriental College di ‘Aligarh; nel 1898 si trasferì al Government College di Lahore dove Iqbal lo ebbe come insegnante. Nel febbraio 1904 ritornò in Inghilterra, a Londra, dove insegnò arabo e istituzioni islamiche sino al 1930. Ebbe molta notorietà il suo libro The Preaching of Islam, London, 1908. Nell’originale zulmat-i shab se zia’e kam nahin, “non è meno lucente dell’oscurità della notte”. Si tratta della concezione dell’unità dell’esistenza (vahdat al-vujud) secondo la quale l’universo è fatto di un’unica materia per cui la più piccola particella di polvere ed il sole sono una cosa sola. Nel primo emistichio Iqbal afferma che il suo intelletto stava per comprendere la realtà dell’universo, nel secondo che il suo intelletto non ancora formato del tutto (lo specchio infranto) stava per giungere a capire la natura delle cose quando il suo maestro lo abbandonò per tornare in patria. Si riferisce al breve periodo in cui Iqbal ebbe Thomas Arnold come insegnante al Government College di Lahore. Il filosofo Abu Husain ibn Sina, il nostro Avicenna (980-1037), noto soprattutto per il “Canone della Medicina” (Qanun fi at-tibb) e il “Libro della guarigione” (Kitab al-shifa’). Cfr. Il Canone di Avicenna fra Europa e Oriente nel primo Cinquecento a cura di Giorgio Vercellin, Torino, UTET, 1991. Vedi nota 75. Questo verso indica il desiderio di Iqbal di recarsi in Inghilterra per proseguire gli studi. Cioè di vedere Iddio. Ritorna il concetto dell’uomo unico tra tutte le creature dotato di un’anima. Schiavo di origine abissina, fu tra i primi e più fedeli seguaci del Profeta. Comprato da Abu Bakr, fu il primo muezzin dell’Islam, sempre a fianco del Profeta anche nelle battaglie. Questa poesia fu pubblicata nella rivista “Makhzan” nel settembre 1904. Allusione al Profeta. Salman (m.657), fu uno dei Compagni del Profeta. Persiano di origine, si convertì al cristianesimo; rapito da una tribù araba, fu venduto ad un ebreo dal quale il Profeta lo riscattò. Convertitosi all’Islam, fece parte della cerchia familiare del Profeta del quale narrò vari hadith. Allusione al Profeta. Contemporaneo del Profeta, non poté diventare uno dei suoi Compagni poiché non in grado di lasciare la città di Qaran nel Nejd dove viveva con la madre cieca. Ciò malgrado, il Profeta gli lasciò in eredità la propria camicia. Successivamente si spostò a Kufah e morì martire nella battaglia di Siffin nelle file di ‘Ali. Vedi nota 69. Reminiscenza biblica inclusa nel Corano. Mosè dimostrò a Faraone di essere l’inviato di Dio, mandato a liberare gli Israeliti dalla schiavitù, facendo diventare la propria mano di color bianco. Corano, XX, 22: ”Premiti ora la mano sul fianco, ne uscirà bianca, ma senza male alcuno: ecco un altro Segno”. Inoltre Corano, XXVII, 12; XXVIII, 32. Allusione al Profeta. L’invito alla preghiera. Il nome originario di Madinah. Secondo il Corano l’emigrazione di Adamo dal paradiso alla terra non fu una punizione, ma rappresentò la responsabilità affidatagli da Dio. Cfr. Corano, XX, 122: ”Ma poi il Signore lo prescelse, si convertì a lui benigno e lo guidò al Vero” Si allude alla rimozione da parte del Profeta degli idoli che erano stati collocati alla Mecca dai Quraish prima dell’avvento dell’Islam. Letteralmente “nella mia manica”: allusione al desiderio di Mosè di vedere Iddio e parlargli. Richiamo al periodo trascorso dal Profeta nella cava di Hira‘ dove ebbe la prima rivelazione, la surah CXVI, 1-5, detta del “grumo di sangue”. Si allude all’ultima rivelazione coranica. Si tratta dei grandi saggi, predicatori dell’unità di Dio, anche se non musulmani, quali Buddha, Nanak e altri. Agli inizi del cristianesimo, a causa delle persecuzioni, molti cristiani furono costretti a rifugiarsi in Grecia. Si allude alle persecuzioni subìte dai buddhisti da parte degli hindu e alla loro emigrazione in Cina e in Giappone. La teoria galileiana. Pubblicata in “Makhzan” nell’ottobre 1904 con il titolo di Hamara desh [Il nostro paese], prese nella pubblicazione in volume il nuovo titolo di Tarana-i Hindi con un lieve cambiamento nel quinto distico. L’Himalaya; vedi la poesia n.1. Questo distico è una reminiscenza dal lungo poema Shikva-i Hind [Protesta dell’India] di Altaf Husain ‘Ali.. Si tratta di un verso famoso (mazhab nahin sikhata apas main bair rakhna), ripreso e spesso ripetuto da Gandhi. Cfr. l’articolo pubblicato dal Mahatma nel giornale “Harijan” l’11 maggio 1947. Dopo aver letto questa poesia, ‘Abd al-Qadir scrisse da Londra: “Il nostro amico ha espresso esattamente gli stessi sentimenti che bruciano nel mio cuore mentre sono lontano dal mio paese. Se l’avessi composta io da Londra, avrei espresso gli stessi pensieri che Iqbal ha scritto stando a Lahore”. Cfr. Ghulam Hussain Zulfiqar, Development of Iqbal’s Mind & Thought, Lahore, Bazm-i Iqbal, 1998, p.25. Salomone, famoso per la ricchezza e il potere ma anche per la sua saggezza: l’anello con la perla incastonata era il simbolo del suo potere. Uno dei più venerati sufi dell’India (m. 1236). Vedi la poesia n.126. Guru Nanak (m.1539), l’iniziatore del Sikhismo, che per Iqbal era un propagatore dell’unità di Dio. Vedi la poesia n.126. La dinastia Moghul. Vedi nota 69 e nota 109. Nell’originale haram. Mirza Khan Dagh (1831-1905), poeta alla corte moghul, maestro di Iqbal per corrispondenza. Questa poesia fu scritta in occasione della morte e fu modellata sui Memorial Verses di Matthew Arnold (1822- 1888), che ebbe una qualche influenza sul poeta, soprattutto la prima strofe: “Goethe in Weimar sleeps, and Greece, / Long since, saw Byron’s struggle cease” ecc.. Nella biblioteca personale di Iqbal c’era il libro di George Saintsbury, Matthew Arnold, Edinburgh, William Blackwood, 1894. Vedi nota 56. Mir Mahdi Majruh, noto poeta di Delhi (m.1902), fu allievo di Ghalib. Cfr. Ram Babu Saksena, A History of Urdu Literature, Allahabad, Ram Narain Lal, 1927, p.169. Amir Khusrav (1253-1325), mistico e poeta in persiano, autore di famosi ghazal, visse e operò a Delhi durante il periodo del sultanato: fu discepolo di Nizam ud-din Auliya (m. ca. 1325), noto santo del tempo. Cfr. Alessandro Bausani, Le letterature del Pakistan e dell’Afghanistan, Milano, Sansoni-Accademia, 1968, pp.55-56. Il nome dato a Delhi dall’imperatore Shah Jahan che vi costruì il Red Fort e la Grande Moschea. La canfora è sinonimo di freddezza. Il verso è una metafora per indicare il pensiero di Dagh, un insieme di fervore tipico della gioventù e di freddezza tipica del ragionamento dell’età matura. Reminiscenza di To a skylark di William Wordsworth. Di questo autore, tra i preferiti di Iqbal, c’era nella biblioteca personale tutta l’opera omnia, The Poetical Works, nell’edizione di Edinburgo, William Paterson, in otto volumi, 1882, con abbondanti segni di lettura; in particolare, il volume VII reca segni a matita relativi a To a skylark. Appellativo onorifico adoperato per i celebri poeti persiani Hafiz e Sa’di, nativi di Shiraz. Padre di Abramo, considerato un grande scultore di idoli. La corte di Haidarabad nel Deccan, dove fiorirono i poeti che emigrarono da Delhi. Vedi nota 61. La lirica fu scritta o concepita a Bhimbar, una collina nel Kashmir, dove si trovava allora il poeta. Reminiscenza di The Nightingale and Glowworm di William Cowper: vedi nota 96. Tutta la poesia è una metafora che ruota sulle teorie dell’unità dell’esistenza (vahdat al-vujud) e dell’unità della manifestazione (vahdat al-shuhud). La luce della candela è la stessa luce di Dio che l’uomo vide nel giorno della creazione. Si allude alla luce della candela entro un vetro e alla luce di dio celata nel corpo dell’uomo. Altrove, nello Zarb-i Kalim, Iqbal chiarì che Amore è presenza completa, Conoscenza è velo completo. Reminiscenza della poesia di William Wordsworth Our birth is but a sleep and a forgetting. Vedi nota 222. Fiume del Panjab che attraversa Lahore. Noto sufi (1233-1324), il suo mausoleo fu visitato da Iqbal nel 1905 prima di recarsi in Europa: questa poesia fu scritta in quell’occasione. Vedi nota 113. Questi versi si riferiscono al suo primo maestro Mir Hasan (1844- 1929) che gli insegnò arabo e persiano a Sialkot. L’espressione “un secondo Yusuf” è di solito rivolta ad una persona che si ama per le sue qualità. Qui probabilmente Iqbal ha voluto indicare il fratello maggiore Ata Muhammad (1859 c.-1940) che lo aiutò a proseguire gli studi. Si tratta di una serie di tredici ghazal dal contenuto mistico ed esoterico. Iddio. Si tratta di uno dei pochi ghazal nello stile di Dagh. Molti i riferimenti coranici a questo proposito; ad esempio, IV, 82; VI, 92; X, 1; XXVII, 6. Nell’originale Tur. Altri riferimenti coranici: XXII, 7-14; XXVIII, 29-35. Vedi nota 194. Vecchia idea cosmogonica secondo la quale il cielo controllava il destino dell’uomo: è questa una metafora ancora in uso nelle letterature urdu e persiana. Si riferisce ad un hadith del Profeta secondo il quale la nazione musulmana, la ummah, si sarebbe divisa in settantadue sette. Vari sono i riferimenti coranici a questo proposito. Nell’originale khila’t è la veste d’onore che sovrani e alti dignitari elargivano ai sudditi come segno di distinzione. Si riferisce alla richiesta di Mosè di vedere Dio sul monte Sinai (Tur) ed il conseguente rifiuto. Allegoricamente significa che Dio è al di là della comprensione dell’uomo: Mosè non sarebbe stato in grado di riferire la visione ed ecco il perché del rifiuto divino. Significa che i meritevoli vedono Iddio anche in questo mondo. Similitudine tra la rosa e l’uomo: questi, nato dal fango, può elevarsi in virtù delle proprie azioni. Dio è onnisciente e non ha bisogno di raccogliere prove delle azioni dell’uomo in vista del Giorno del Giudizio. Si tratta di un concetto molto sottile: la più alta ricompensa per l’uomo è sentire la presenza divina quando passa dal suo io all’io divino (esperienza mistica, tecnicamente detta fana fi Allah). Molti i riferimenti coranici, II, 164: “e nel cangiare de’ venti e delle nubi soggiogati fra il cielo e la terra, vi son Segni per gente dotata d’intelletto”; e III, 190; II, 219-220. Le huri sono le fanciulle vergini dai grandi occhi neri, promesse ai fedeli. Vedi nota 432. Strali sarcastici contro quei religiosi che interpretano alla lettera il Corano senza comprenderne l’intimo significato. Vedi nota 158. Iddio che non può essere visto con occhi umani ma con cuore puro. La bellezza [jamal] di Dio è una ragione sufficiente per amarLo e non è necessario aspettare il giorno del Giudizio. Vedi nota 109. Si tratta di un ghazal pieno di misticismo e metafore: il nocciolo è che l’amore per Dio è fonte di sofferenze fisiche e materiali. Lailah e Majnun, corrispondenti ai nostri Giulietta e Romeo. Qui si vuol dire che se l’Amante realizza il suo io (Khudi), la differenza tra l’Amante e l’Amata scompare. Vedi nota 109. Iddio è in ogni dove se l’Amante ha sviluppato la propria vista in maniera tale da vederLo. Significa che la potenza di Dio è infinita. Riferimento al Corano, V, 83: “ma anzi, quando ascoltano quel che è stato rivelato al Messaggero di Dio li vedi versar lacrime copiose dagli occhi, a causa di quella verità che essi conoscono, e li odi dire: O Signor nostro! Crediamo! Annoveraci fra testimoni del Vero!”. Allusione al Corano, VII, 143: “E quando Mosè venne al Nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui, disse Mosè: ‘O Signore mostrati a me, che io possa rimirarti!’ Rispose: ‘Non mi vedrai. Ma guarda il monte, e se esso rimarrà fermo al suo posto ebbene, tu mi vedrai!’. Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato. E quando ritornò in sé disse: ‘Sia gloria a Te! Io a Te mi converto e sono il primo dei credenti”. Nell’originale be-niaz, attributo di Dio. Nell’originale niazmand, attributo dell’Uomo. Nell’originale ‘arsh, l’empireo, la sfera celeste. Dio è onnipresente ed è vicino ai fedeli. Riferimento al Corano, II, 186: “Quando i Miei servi ti chiedono di Me, Io sono vicino; ed esaudirò la preghiera di chi prega quando Mi prega; ma essi Mi rispondano e credano in Me, a che possano esser nel vero”. Nell’originale rind significa “intossicato”, nel senso di persona caduta in estasi divina. Vedi nota 262. Nell’originale taqlid significa “contraffazione”, ossia il seguire ciecamente la tradizione. Vedi nota 113. Nell’originale ‘ibadat che deriva dalla parola ‘abd cioè “schiavo”, qui “schiavo di Dio”. Per il contrasto tra ‘aql e dil vedi nota 112. Vedi nota 109. L’interpretazione più probabile è che se il predicatore stesso non rinuncia al bere, la sua predicazione non ha alcun valore. Vedi nota 81. Nell’originale iksir, parola araba denominante una sostanza leggendaria capace di tramutare tutto in oro; la nostra “pietra filosofale”. Vedi nota 270. Nell’originale Ism-i A’zam, “il grande nome”, “Il nome dell’Onnipotente”, uno dei novantanove di Allah, sconosciuto a tutti e quindi oggetto della ricerca del soprannaturale. Nell’originale Haqq-i mahram “amico della verità”, cioè amico di Dio. In poesia si crede che le macchie lunari siano create dall’amore della luna per Dio. Vedi nota 255. Nell’originale be-niazi “libertà da qualunque necessità”: si ricordi che be-niaz è un altro degli attributi divini. Vedi nota 268. Nell’originale Chashmah-i Haivan, la “fonte della vita” che dava l’immortalità. Questo componimento è tutto un’abile applicazione “moderna” del procedimento poetico classico detto husn-i ta’lil, o “etiologia”, consistente nell’attribuire a cause poetiche immaginarie gli effetti naturali delle cose (Nota di Alessandro Bausani). Nell’originale haram: vedi nota 123. Swami Ram Tirath (1873-1906), intimo amico di Iqbal, brillante matematico e studioso della filosofia Vedanta. Non mantenne il suo voto di celibato e si sposò negli Stati Uniti: preso dal rimorso, tornò in India e si suicidò annegandosi nel Gange ad Hardwar, uno dei punti più sacri del fiume. Padre di Abramo; vedi nota 224. Riferimento alla kalimah, la professione di fede del musulmano la cui prima parte è La, la negazione “non”: La ilaha illa’llah Muhammad ar-rasul Allah [Non c’è altro Dio all’infuori di dio e Muhammad è il suo messaggero]. Allusione al Corano, XXI, 51-71, dove si parla di Abramo che distrusse gli idoli del tempio. Il Tasnim è uno dei fiumi del Paradiso; vedi nota 74. Con questo messaggio il poeta invitava gli studenti dell’università musulmana di ‘Aligarh in particolare e tutti gli studenti musulmani dell’India in generale alla lotta con cuore puro. Gli ultimi due versi indicano che l’amore dei giovani per Dio non è ancora maturo: essi devono liberarsi dalle proprie manchevolezze prima di intraprendere la lotta per la libertà. Si tratta dell’amore per Dio, ‘ishq, in un linguaggio mistico e metaforico. Si allude al miracolo della “mano bianca”: vedi nota 192. In tutta la poesia si sente un’eco del Prometheus Unbound di Percy Bysshe Shelley laddove la luna apostrofa la terra: “So when thy shadow falls on me, / Then am I mute and still, by thee / Covered; of thy love, Orb most beautiful, / Full, oh, too full ...” (vv.453-456). Vedi nota 90. Il sole è Dio. Attraverso un bocciuolo si può comprendere Dio. Molti sono i riferimenti coranici: l’uomo è in grado di riconoscere la mano di Dio nei segnali provenienti dai fenomeni della natura. Il messaggio del poeta è che il segreto del successo in questo mondo e nell’altro sta nel dinamismo, nel movimento: la stasi è un’illusione. Nascendo l’uomo si separa da Dio al quale anela tornare dopo la vita terrena: i dolori dell’uomo derivano dalla separazione e scompaiono al momento della riunione con il Creatore. Pseudonimo per l’amata, usanza tipica dei poeti pre-islamici. Qui Sulaima, la bellezza umana, è il riflesso della Bellezza divina. Altri nomi di fantasia per l’amata sono Salmah, Lubnah, Laila. Nell’originale divanah significa “pazzo d’amore”, “lunatico”: è parola persiana usata in poesia per “innamorato”. Nell’originale sauda, parola araba simile alla precedente. Metafora per indicare che il poeta è proteso verso l’amore divino e quello umano al tempo stesso. Iddio, il be-niazi, “colui che non ha bisogno”, ha creato nel poeta l’opposto, il niazi, “colui che ha bisogno”: il bisogno del poeta è unirsi a Dio. Vedi anche nota 287. Nell’originale barq, “temporalesco, che tuona”. Alla ricerca di Dio che è il Tutto il poeta preferisce essere fuorviato dalle parti, cioè dagli oggetti che ne sono un riflesso materiale. Nell’originale il poeta ha usato i nomi della celebre coppia del deserto, Qais (l’innamorato) e Lailah (l’innamorata). Nella tradizione Khizr, un personaggio avvolto nel mistero, è descritto come un essere in eterno movimento; qui Iqbal adopera una similitudine per persona o cosa alla ricerca del creatore. Come in molte poesie di Iqbal a carattere personale, scritte dopo il ritorno dall’Europa, il dolore della separazione è mistico e sensuale al tempo stesso, separazione da Dio e da una donna. Questa poesia fu acclusa in una lettera all’amica Atiyya Begam il 14 dicembre 1911. Cfr. Letters of Iqbal, compiled and edited by Bashir Ahmad Dar, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 1978, pp.10, 37. Il poeta aveva conosciuto Atiyya Begam (1881-1967) a Londra nell’aprile 1907: tra i due ci fu una grande amicizia, anche se in molti pensarono ad un amore: nel 1947 Atiyya, che aveva sposato nel 1912 il pittore Fizee Rahamin, pubblicò un libro di ricordi, Iqbal, con molte lettere del poeta a lei indirizzate. Vedi nota 255. Nell’originale Sharab-i Tuhur, “il vino di Tuhur”, una bevanda paradisiaca priva degli effetti del vino terreno. Corano, XLVII, 15: “... e fiumi di vino delizioso a chi beve”, e altrove. Vedi nota 255. Uno dei fiumi del Paradiso. Il fiume che scorre tra Odenwald e Palatinato e attraversa Heidelberg, la cittadina universitaria culla del Romanticismo tedesco, dove Iqbal soggiornò per qualche tempo. Lì ebbe una relazione con Emma Wegenast, un’insegnante di tedesco più giovane di lui, con la quale facevano passeggiate lungo il fiume leggendo il Faust di Goethe. In una lettera da Londra il 20 ottobre 1932 si legge: “Ricordo ancora il fiume Neckar lungo le cui rive eravamo soliti passeggiare assieme”. Cfr. S.A.Durrani, Iqbal Iurop main, già cit., p.269 Nell’originale dard-i pahlu “dolore del fianco. Nell’originale l’amante è reso con l’appellativo di naz (lusinga, civetteria) e l’amata/l’Amato con quello di niaz (necessità, desiderio). Nelle opere di Iqbal e nel sufismo i due termini uniti indicano la relazione tra il fedele (mu’min) e l’Amato (Dio). Si tratta di un riferimento nella storia iniziale dei musulmani nel subcontinente indiano. Il Ghaznevide è Mahmud di Ghazna in Afghanistan: salito al trono nel 999, si annesse il Panjab con Lahore e Multan, e distrusse a Somnath i templi hindu. Ayyaz, un suo favorito, diventò governatore di Lahore. Questo distico ripete nei due emistichi un medesimo concetto. Secondo la tradizione Alessandro avrebbe creato uno specchio di lucido rame; qui il poeta vuol dire che qualunque fedele (d’amore) potrebbe costruire un specchio e diventare potenzialmente grande. Nell’originale il poeta ha usato il termine hilal, ossia luna crescente, la mezzaluna. Il vero musulmano ha la responsabilità di istituire sulla terra il regno di Dio. Nell’originale qaum, nazione come territorio nazionale. Nell’originale millat, nazione come patria di tutti i musulmani. Azar, padre di Abramo, scultore di statue idolatrate nei templi di Ur in Caldea. Il Hijaz è l’Arabia della Mecca e di Medina. ‘Abd al-Qadir (1874-1950), direttore della rivista “Makhzan” e avvocato, autore dell’introduzione al Bang-i Dara. Questa poesia fu pubblicata nel periodico nel novembre 1908. Si riferisce ai giovani che, inerti come pietre, vanno convertiti in specchi del futuro. Richiamo alla vicenda di Giuseppe falsamente accusato di seduzione dalla moglie di Putifarre: episodio della Genesi. Vedi nota 336. Poeta persiano ben noto nell’India musulmana. Vedi nota 304. Distico di Mirza Bedil (1644-1721), il più grande dei poeti persiani dell’India, nato ad ‘Azimabad (nome musulmano di Patna, nella provincia indiana del Bihar), visse e morì a Delhi. Cfr. Alessandro Bausani, Note su Mirza Bedil (1644-1721), in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale”, Napoli, n.s., VI, 1954-1956, pp.163-199; e Contributo a una definizione dello “stile indiano” della poesia persiana, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale”, Napoli, n.s. VII, 1957, pp.167-178. È il takbir, “Allah-o akbar”, il grido di battaglia dei Musulmani Il poeta persiano Sa’di di Shiraz (1184-1291) che pianse la distruzione di Baghdad nel 1258 ad opera dei mongoli di Hulagu Khan. La sua opera, il Divan, che consta di undici volumi, tratta dell’amore in tutti i suoi aspetti, mistico, sensuale, simbolico: famosi, in particolare, il Gulistan [Il roseto] e il Bostan [Il giardino]. Cfr. Alessandro Bausani, La letteratura neopersiana, Milano, Sansoni-Accademia, 1968, pp.244-253, 455-459. Il poeta urdu Dagh al quale Iqbal ha dedicato nel presente Bang-i Dara la poesia n.44. Vedi nota 220. Il regno musulmano di Granada creato verso il 1160 e conquistato dai cristiani nel 1492. Ibn Badrun, vissuto in Spagna nel XII secolo, scrisse il commento ad un poema di Ibn ‘Abdun (m.1134) sulla caduta della dinastia locale degli aftasidi. Per le vicende storiche cfr. Vito Salierno, I Musulmani in Italia (secoli IX-XIX), Lecce, Capone Editore, 2006. L’acqua del pozzo di Zamzam che si trova nel recinto (haram) della Ka’ba e che i pellegrini portano in dono a familiari e amici. Si tratta di un verso sarcastico: il pellegrino dovrebbe ritornare a casa purificato e invece continua ad essere preda dei suoi vizi. Azal è il proprio giorno natalizio in cui è scritto il proprio destino. La rivista alla quale Iqbal collaborava, diretta da ‘Abd al Qadir. Vedi l’Introduzione al Bang-i Dara. La shari’ah (letteralmente “la via diritta, la via battuta”) è la legge positiva che disciplina l’attività umana in quanto esplicata nel mondo esterno, prescindendo da quella fede e da quelle credenze di cui, nel foro interno, è giudice Dio solo. Cfr. Alessandro Bausani, L’Islam, Milano, Garzanti, 1979. Vedi nota 104. È il contrasto consueto tra la ragione e il cuore. Vedi nota 109. Cioè il subcontinente indiano, non idoneo a ospitare la vera religione essendo sotto un dominio straniero. Dal doppio significato: il vino dell’amore divino che è lecito e il vino terreno che ottunde il cervello ed è vietato. Chiaro sarcasmo nei confronti dei fedeli legati alla forma e non alla sostanza. La data “marzo 1907” rappresenta un momento di particolare importanza per il poeta che ha trovato la risposta ad una domanda di alcuni anni prima; in un saggio in urdu, ‘Ilm al-Iqtisad [La scienza dell’economia politica], pubblicato nel 1904, si era chiesto come si potessero eliminare la povertà e il bisogno. La risposta stava nelle capacità morali della razza umana, nella comprensione dell’Islam non come un insistere irrazionale sulla conservazione del passato ma come un mezzo per un balzo in avanti nel futuro. Letteralmente “abitanti di Gerusalemme (Quds)”, in senso lato “sacro”, usato come attributo per l’arcangelo Gabriele. Letteralmente khair al-umam “la nazione migliore”, appellativo coranico, III, 110: “Voi siete la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini [...]”. Vedi nota 220. Baghdad fu la splendida capitale del califfato ‘abbaside (secoli VIII-XIII). Nell’originale Iram, mitico giardino del Yemen creato su modello del “paradiso” da un antico re, Shaddad; è menzionato nel Corano, LXXXIX, 6-8: “Non hai visto quel che ha fatto il Signore della gente di ‘Ad a Iram dalle alte colonne che non avea pari su tutta la terra?” Gli ‘Ad erano un popolo leggendario, vissuto sùbito dopo quello di Noè nella citta di Iram, sommersa dal cataclisma, simile alla nostra Atlantide. Letteralmente Qurtubah, il nome islamico di Cordoba, la capitale dell’Andalus, la Spagna musulmana. Letteralmente millat-i baiza “la nazione splendente”, espressione adoperata da Iqbal per l’intera comunità musulmana (ummah). La Costantinopoli dell’impero ottomano (1453-1921). Nell’originale Mahdi-i ummah, “la comunità del Profeta”. Vedi nota 123. Nell’originale Shah-i laulak, uno dei titoli del Profeta. Abu Ayyub Ansari, uno dei compagni del Profeta, morì nella battaglia di Costantinopoli nel 674 durante il califfato di Mu’awiyah (661-680). Uno degli attributi del Profeta, “il prescelto”. Nell’originale haj-i akbar, ossia il grande pellegrinaggio alla Mecca fatto di venerdì che vale migliaia di pellegrinaggi. Leggendario re di Persia. L’antico nome di Medina. Nell’originale a’ina-dar è propriamente il manico o supporto di uno specchio. È un concetto che si ripete nell’opera di Iqbal. Nel Zabur-i ‘Ajam [I Salmi di Persia] dice: “essere e non essere provengono dal mio vedere, dalla mia cecità / Tempo e Spazio altro non sono che scherzi del Pensiero mio eterni”. Cfr. A. Bausani, Il Poema celeste, Bari, 1965, p.245. Per l’originale v. Kulliyat-i Iqbal. Farsi, Lahore, 1990, p.320, vv.5-6. Nell’originale qiran, il punto in cui due pianeti si congiungono. Si sente un’eco della poesia Elegy written in a Country Churchyard di Thomas Gray (1716-1771). Nella biblioteca personale di Iqbal c’erano le poesie di Gray: vedi The Poetical Works of Thomas Gray and Essays on criticism, Rape of the Lock and Essay on man by Pope, London, G. Routhledge, 1895. Questa poesia, pubblicata in “Makhzan” nel giugno 1910, fu composta durante un breve soggiorno, in marzo, nello stato di Haidarabad, nel Deccan; in una nota introduttiva Iqbal scrisse:”Una notte Akbar Haidari [nella cui casa era ospite] mi condusse a vedere le tombe magnificenti ma tristi dei Qutbshah, i sovrani del Deccan. Il silenzio della notte, il cielo coperto e i raggi della luna che filtravano tra le nuvole, assieme al triste spettacolo delle tombe, produssero una profonda impressione sul mio cuore. Questa poesia esprime le impressioni di quel memorabile evento”. Cfr. G. H. Zulfiqar, op. cit., p.59. Nell’originale faghfur, appellativo dell’imperatore della Cina. Nell’originale takbir, il grido dei musulmani in battaglia e in momenti difficili. Secondo il pensiero islamico le ingiustizie nel mondo terreno verranno riparate dalla giustizia nel mondo ultraterreno. È un concetto eracliteo. Si tratta di uno dei diamanti più favolosi: appartenuto all’imperatore moghul Shah Jahan (1627-1657) e ai suoi discendenti, fu portato in Persia da Nadir Shah nel 1756, poi preda di guerra inglese, ora tra i gioielli della corona a Londra. Sesto mese del calendario greco o siriano corrispondente a marzo. L’Autore ha adoperato i termini jalali (maestà) e jamali (bellezza), che sono le due categorie che raggruppano i novantanove nomi di Allah. Vedi nota 194. Una caratteristica della poesia urdu è l’inserimento di versi da altri poeti, detto tecnicamente tazmin. Anisi Shamlu, funzionario amministrativo nell’esercito moghul al tempo dell’imperatore Akbar (1560-1605), fu un noto poeta. Il noto sufi Mu’in ad-din Chishti (1139-1236), nato a Sanjar nell’Asia centrale e vissuto ad Ajmer in India, fautore dell’Unità di Dio (Tohid-i Ilah) e dell’Unità dell’Umanità (Tohid-i Insaniyat), missionario dell’Islam. Le prime parole della shahada, la professione di fede musulmana. Versi di Anisi Shamlu. Fazl-i Hussein (1877-1936), coetaneo e amico intimo di Iqbal, importante leader politico nel Panjab. La lirica, che fu scritta in occasione di un dolore dell’amico, assume un valore universale. Si tratta della surah XCIV, 5-6: “ché, in vero, con l’avversità viene la gioia. Sì, con l’avversità viene la gioia”. Nell’originale Ya Rab, espressione in uso nei momenti difficili. Vedi nota 255. Nell’originale Khizr, un personaggio misterioso. Scritta da Iqbal verso il 1911, questa poesia Tarana-i Milli aveva nella stesura originale il titolo di Tarana-i Muslim [Il canto del musulmano]. Cfr. Reyaz ul-Hasan, Il poeta musulmano indiano Mohammed Iqbal, in “Oriente Moderno”, Roma, anno XX, n.12, dicembre 1940, p.608. Ossia l’Unità di Dio. La Ka’ba, tempio dell’unità di Dio o monoteismo sin dai primordi di Abramo. Cfr. il Corano, III, 96: “In verità il primo tempio che sia stato fondato per gli uomini è, certo, quello che è in Bakka, benedetto, e Guida per il tutto il creato”. Si noti che Bakka è un altro nome per la Mecca. L’invito alla preghiera gridato dal muezzin dall’alto del minareto cinque volte al giorno. Si allude alla battaglia di Karbalah del 10 ottobre 680 (10 del mese di muharram 61 dell’Égira) e al martirio di Husain. che diede origine allo scisma nell’Islam tra sunniti e sciiti L’Arabia; o forse anche la Palestina. Nell’originale hurmat = onore; qui indica il santuario. Il profeta Muhammad. Letteralmente “il segnale della campana”, bang-i dara, da cui deriva il titolo della raccolta. Nell’originale vataniyat significa “patriottismo”. Qui può meglio tradursi con “nazionalismo” da “nazione” come concetto politico. Dall’intero contesto si noterà come Iqbal sia contrario al nazionalismo che considera un elemento distruttivo della vera religione, l’Islam. In una lettera del 7 settembre 1921 a Vahid Ahmad, direttore di “Naqib”, Iqbal scrisse:”Il grande nemico dell’Islam e dei Musulmani in quest’epoca è l’idea di distinzione razziale e nazionalismo territoriale. Quindici anni fa, mi resi conto di ciò per la prima volta. Ero a quel tempo in Europa e questo sentimento portò un cambiamento rivoluzionario nei miei pensieri. Infatti il clima dell’Europa mi fece diventare un (vero) musulmano”. Cfr. G. H. Zulfiqar, op. cit., p.40. Vedi nota 81. Haram è il recinto sacro della Ka’ba, ossia una nuova Mecca. Nell’originale Azar, padre di Abramo e noto scultore di idoli. Altro appellativo del Profeta. La consuetudine del Profeta. Nell’originale sunnat-i Mahbub-i Ilahi è la consuetudine seguita dall’amato di Dio. Nell’originale nabuvvat significa stato o condizione del Profeta. Più chiaro è il termine inglese “prophethood”. Cfr. Zafar Ishaq Ansari, Iqbal and Nationalism, in “Iqbal Review”, Karachi, vol.II, n.1, April 1961, pp.51-89; e Jan Marek, Iqbal’s Concepts of Nationalism and Patriotism, in Iqbal and Modern Era. Proceedings of an International Symposium. Gent, Belgium, 18-19 November, 1997, Lahore, Iqbal Academy Pakistan, 2006, pp.43-55. L’umanità. In Asia centrale. Qui sta ad indicare un pellegrino qualunque. ‘Id è la festa che segna la fine del digiuno del mese di ramadan. Yathrib è il vecchio nome di Medina. L’unità di Dio. Si allude alla sicurezza delle carovane scortate da Damasco alla Mecca. Nell’originale qat’ah è tecnicamente una breve poesia in cui l’ultima parola del secondo emistichio rima con le altre. Il poeta non si riferisce solo a egiziani e indiani ma a tutti i musulmani nel mondo. Rassegnazione [taslim], ossia rassegnazione al fato, ha la stessa radice di Islam (slm), sottomissione al volere divino. . Significa che c’è stato bisogno dei missionari dell’Islam per rivelare all’umanità la natura eterna di Dio. . Nell’originale jam’iyat-i khatir, letteralmente concentrazione dell’animo, quindi pace della mente. Tribù dell’Asia centrale convertitesi all’Islam. Si riferisce al periodo preislamico quando esistevano paganesimi politeistici o monoteismi corrotti (ebraismo e cristianesimo). Iqbal si riferisce all’occupazione musulmana della Spagna e della Sicilia e alla conversione di Santa Sofia nella moschea di Aya Sofia a Costantinopoli. La professione di fede “Non c’è altro Dio all’infuori di dio e Muhammad è il suo messaggero [La ilaha illa’llah Muhammad ar- rasul Allah]. Probabile riferimento a Mahmud di Ghazna (m.1030), il conquistatore afghano che invase l’India a più riprese fondando il primo esempio di impero musulmano nel sub-continente; in particolare qui per la distruzione del tempio di Somnath, che gli valse l’appellativo di “distruttore di idoli” [but-shikan]. Va qui precisato che la jihad, la cosidetta guerra santa, dovrebbe aver valore solo se usata per la diffusione del monoteismo: in tutti gli altri casi è furto o saccheggio. Roccaforte di ebrei vicino Medina, fu conquistata da Muhammad nel 628; fu ‘Ali, cugino e genero del Profeta, a sradicarne il portale. Riferimento al fuoco adorato dai seguaci di Zoroastro in Persia. Iqbal riporta in arabo il versetto 1 della surah CXII del Corano, che comprende solo quattro versetti [ayat] ed è chiamata anche “Dell’Eterno” o “Della dichiarazione dell’unità di Dio”: “Dio è uno, Dio l’Eterno, non generò né fu generato e nessuno Gli è pari”. La regione dell’Arabia dove nacque l’Islam. La direzione della preghiera verso la Mecca. Il testo originale è Mahmud o Ayaz, ossia il sultano e lo schiavo. Il vino dell’unità di Dio [mae-i tohid] ossia il monoteismo. Fortemente espressiva è la visione del musulmano che vaga giorno e notte con la coppa dell’Unità di Dio in mano, tra colline e deserti, lanciando i cavalli nel mare di tenebre [bahr-i zulumat] quando non c’era più terra da conquistare. Secondo la leggenda Alessandro vi si addentrò alla ricerca dell’acqua della vita: in senso più generico si riferisce alle conquiste musulmane. “Vano” batil, termine coranico contrapposto ad haqq “vero”: vedi introduzione. Fa parte - scrive Alessandro Bausani - di quella ricostruzione alquanto teorica della antica semplicità e frugalità araba del deserto, unita a “passione” e intensità religiosa e priva di ogni arzigogolo intellettualistico, che i musulmani modernisti dell’India consideravano e considerano il loro ideale. Le huri, le fanciulle vergini dai grandi occhi neri, e i qusur, i castelli o luoghi di delizie, simboli della ricompensa promessa ai fedeli. Qui vuol dire che gli infedeli ricevono la ricompensa nella vita terrena, mentre i musulmani devono attendere sino alla vita oltreterrena. Cfr. Corano, II, 25; III, 15; IV, 57; XXXVII, 48-49; XXXVIII, 52; XLIV, 54; LII, 20; LV, 56, 58, 70, 72; LVI, 22; LXXVIII, 34. Se i musulmani dovessero scomparire dal mondo non ci sarebbe più nessuno a diffondere il messaggio dell’Islam. Laila e Qais [soprannominato Majnun, il “pazzo” d’amore] rappresentano i tipici amanti del deserto arabo. Nell’originale Ahmad, altro nome del Profeta. Mistici musulmani vissuti all’epoca del Profeta. Schiavo abissino, riscattato dal Profeta, aveva una voce stentorea ed esercitò la funzione di muezzin. La collina che sorge alla periferia della Mecca. La valle dell’Arabia dove, secondo la leggenda, Qais vagò alla ricerca di Laila. Alla sella di Laila. Nell’originale Hu abbreviazione di Huva’ attribuito a Dio nell’espressione Allah Hu. Il monte sul quale Mosè ebbe la visione. Riferimento al Corano, XXVII, 17-18: “E tutti i suoi eserciti si radunarono avanti a Salomone, eserciti di jinn e di uomini e d’uccelli. E avanzarono in truppe distinte, finché, allorché giunsero alla Valle delle Formiche, disse una formica: O formiche! Entrate nelle vostre case, che Salomone e le sue truppe non abbiano a calpestarvi, senza saperlo!”. Caratteristica della religiosità hindu - scrive Alessandro Bausani - e caratteristica, per Iqbal, perniciosa, sarebbe l’inattività, lo spregio della lotta, l’ascetismo. Mescolando qui un motivo anti-colonialistico puramente islamico con uno nazionale indiano, Iqbal auspica il momento in cui anche gli hindu divengano, da monaci, guerrieri, per combattere attivisticamente contro l’idolatria e l’incredulità europea. L’usignuolo è ovviamente il poeta. Ricordiamo che il titolo dell’opera in cui fu inclusa questa poesia Shikva è per l’appunto questo Bang-i Dara, ossia il richiamo della carovana. Il suono dei campanelli appesi ai cammelli dà il via alla partenza della carovana mentre il canto acuto e ritmato dei cammellieri incita i cammelli nella marcia. Si noti la nostalgia per il deserto arabo, culla dell’Islam puro. La valle del Sinai dove Mosé vide il fulgore di Dio sotto forma di lampo. Vedi nota 76. Nell’originale ‘arsh-i barin, la più alta sfera celeste dove si trova il trono di Dio. Albero del Paradiso dai frutti deliziosi. Vedi nota 432. Vedi nota 434. Il posto più alto e lo status più elevato del Profeta. Ovviamente qui in senso ironico nei confronti dei musulmani “occidentalizzati”, che bussano alle porte dei funzionari governativi, longa manus del raj britannico. Lo schiavo favorito di Mahmud di Ghazna, qui inteso come l’amato. Vedi nota 408. Versi di Altaf Husain ‘Ali: è il consueto tazmin. Leggendario eroe, protagonista del Ramayana, uno dei due grandi epos della letteratura indiana. Lungo 24.000 strofe, è attribuito ad un veggente, il rsi Valmiki, “primo poeta” [adi-kavi], che verso il II secolo d.C. fuse in un poema epico le leggende correnti su Rama. Jogendar e Zulfiqar ‘Ali Khan sono qui nomi qualunque, tipo i nostri Tizio e Caio. Vedi nota 166. L’autore ha adoperato un termine mistico, un hadith del Profeta, intraducibile, al-faqr fakhri, che significa “la povertà è il mio orgoglio”. Verso ripreso da Hafiz di Shiraz. Mullah Muhammad Tahir Ghani (m.1668), poeta persiano e sufi del Kashmir. Suo è questo distico qui inserito. Nell’originale pir-i Kan’an, ossia il santo di Kan’a. Vedi nota 331. Decimo mese del calendario musulmano: il primo giorno si celebra la festività di ‘Id-al fitr, detta “della rottura del digiuno”. La poesia fu pubblicata nel numero di ‘Id di “Zamindar” e in “Makhzan” di novembre 1911. Nell’originale nur-i nigah, letteralmente “aspetto o visione di luce”. Nell’originale millat-i baiza, ossia nazione solare, nel senso di comunità prediletta. Riferimento all’abolizione del califfato in Turchia e alla laicità dello Stato da parte di Mustafa Kamal Ataturk (1881-1938). Recitata alla riunione annuale dell’Anjuman-i Himayat-i Islam il 16 aprile 1912. Vedi nota 69. Vedi nota 311. Nell’originale tohid, l’Unità di Dio. Nell’originale khud tajalli, la visione dell’io, la manifestazione divina. Vedi nota 448. Nell’originale na-o-nosh significa il gozzovigliare mangiando e bevendo a piene mani. Dispregiativo nell’originale mah simayan “dalle facce bianche”, gli inglesi che non erano favorevoli ai musulmani perché considerati ribelli al raj britannico. Vedi nota 304. Un hadith, che significa “racconto”, indica sia il singolo aneddoto ove si riferisce ciò che il Profeta disse o fece o tacitamente approvò, sia l’insieme di questi aneddoti. Vedi nota 109. I due termini qui usati, paida e pinhan, corrispondono a due dei novantanove nomi di Allah, al-zahir e al-batin, ossia l’Evidente e l’Occulto. Nella collina di Faran si trova la grotta di Hira’ dove il Profeta si ritirava in meditazione per un intero mese all’anno e dove ebbe la prima rivelazione, la surah XCVI, detta del “grumo di sangue”, che all’inizio era di cinque versetti, diventati poi diciannove. L’unità di Dio, un termine ricorrente in tutta l’opera di Iqbal, e in particolare nei due poemetti di protesta, n.88 e n.103. Vedi nota 76. Vedi nota 483. Richiamo coranico, LI, 56: “E io non ho creato i jinn e gli uomini altro perché M’adorassero”. Questo distico indica la superiorità dell’uomo nella creazione divina; cfr. Corano, II, 143-144. La poesia fu recitata ad una riunione nella moschea Badshahi di Lahore il 6 ottobre 1911 alla presenza di migliaia di persone in lacrime: il titolo originale era L’offerta dell’usignuolo arabo al trono del Profeta. L’attacco alla Libia da parte dell’Italia nel 1911-1912. L’offerta sono le poesie del poeta. Altro nome per la Mecca. Allusione al miracolo di Gesù nel risuscitare i morti. Vedi nota 113. Nell’originale Masiha, il Messia. Il guardiano delle porte del paradiso. Reminiscenza coranica, II, 34: “E quando dicemmo agli Angeli: ‘Prostratevi avanti ad Adamo!’ tutti si prosternarono salvo Iblis, che rifiutò superbo e fu dei Negatori”. Per Iqbal la “qualità” [kaif] e la “quantità” [kam] simbolizzano la conoscenza filosofica e la conoscenza scientifica rispettivamente. Padre di Abramo, era un noto scultore e mercante di idoli. Si riferisce al Profeta. Uno degli appellativi di Allah. Il mese del digiuno. Letteralmente le huri e i palazzi celesti [hur o qusur]. Reminiscenza del Corano, VII, 143: “E quando Mosè venne al Nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui, disse Mosè: ‘O Signore! mostrati a me, che io possa rimirarti!’. Rispose: ‘Non mi vedrai. Ma guarda il monte, e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu mi vedrai!’. Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato. E quando ritornò in sè disse: ‘Sia gloria a Te! Io a Te mi converto e sono il primo dei credenti!”. La Ka’ba. Al-Ghazzali, nato a Tus nel 1058, visse alla corte del selgiuchide Nizam ul-Mulk sino al 1091 quando fu chiamato ad insegnare a Baghdad. Filosofo scettico, diventò in seguito mistico e derviscio: nel 1105 accettò per breve tempo una cattedra a Nishapur. Ritiratosi in un monastero sufi, nella città natale, vi morì il 19 dicembre 1111. Ricordiamo qui il suo Tahafut al-falasifa, [L’incoerenza dei filosofi]. Letteralmente Sayyid, Mirza, Afghani, ossia nobili arabi discendenti dal Profeta, persiani e afghani. Haidar, “leone”, era uno dei soprannomi di ‘Ali, quarto califfo dell’Islam, noto per il suo modo ascetico di vita. ‘Othman, terzo califfo, noto per le ricchezze che entrarono nelle casse dell’erario dalle province conquistate. Ricordiamo che Qais trascorse la vita vagando alla ricerca di Lailah, l’amore unico e platonico. Del deserto. Il Profeta Muhammad. Si narra che il tiranno Nimrod abbia fatto gettare su una pira in fiamme Abramo con l’accusa di idolatria perché predicava la fede in un solo Dio, ma che per miracolo il fuoco si fosse trasformato in un giardino in fiore. Durante il soggiorno in Egitto Giuseppe si ricordò sempre della patria Cana’, in Galilea: qui significa che per il vero musulmano ogni paese è la sua Cana’ poiché l’Islam è universale. Dopo aver saccheggiato le terre dei musulmani, i tartari si convertirono all’Islam e divennero gelosi custodi della Mecca. Ci si riferisce all’invasione bulgara della Turchia nell’autunno 1912 e alla marcia su Costantinopoli, ultima sede del califfato. Sino alla fine dei tempi. Riferimento al Corano, XCIV, 4, riprodotto nel testo: “E non facemmo alto il tuo nome?”. Questa surah di otto versi è un messaggio di speranza e di incoraggiamento in tempi oscuri e difficili. Nell’originale hilal, la mezzaluna, simbolo dell’Islam, descritta come un evento miracoloso nel Corano, LIV, detta appunto la “surah della luna”. Nell’originale takbir: vedi nota 335. Si riferisce alla tavola e alla penna celesti [lauh o qalam], simboli di saggezza e potere: sulla tavola e con la penna si scrivono i destini degli uomini. Mullah ‘Arshi (m.1581), poeta persiano, nato a Tabriz ma vissuto a Yazd, autore di diecimila versi. Il distico ripreso è l’ultimo di questa breve poesia didascalica. Shirin e Farhad sono i protagonisti di un poema epico di Yusuf Nizami (1141-1204) di Ganj, nell’odierno Azerbaigian. I tre emistichi tra virgolette e il distico finale sono di Hafiz di Shiraz (1319-1390), autore di un Divan comprendente ghazal, quartine, qaside, frammenti ed un breve masnavi, il Saqi-nama [Libro del Coppiere]. Pur non essendo stato un vero panegirista di prìncipi e non avendo vissuto a corte, ebbe la protezione dei mongoli e dei mozaffaridi. Cfr. Alessandro Bausani, La letteratura neopersiana, op. cit., pp.262-273; e Hafiz of Shiraz. Thirty Poems, translated by Peter Avery and John Heath-Stubbs, London, J. Murray, 1952. . Nell’originale Ba bang-i chang, tipica espressione in persiano e in urdu per indicare un modo di fare o parlare senza peli sulla lingua. Vedi nota 109. Vedi nota 224. La poesia fu scritta al tempo della guerra italo-libica. Reminiscenza coranica, VII, 143: “E quando Mosè venne al Nostro convegno e il suo Signore ebbe parlato con lui, disse Mosè: ‘O Signore! Mostrati a me, che io possa rimirarti!’. Rispose: ’Non mi vedrai. Ma guarda il monte, e se esso rimarrà fermo al suo posto, ebbene, tu mi vedrai!’. Ma quando Iddio si manifestò al monte lo ridusse in polvere e Mosè cadde fulminato. E quando ritornò in sé disse: ’Sia gloria a Te! Io a Te mi converto e sono il primo dei credenti!”. Nell’originale, Thurayyah. Vedi nota 408. I giardini di Lahore al tempo in cui la città era la capitale dell’imperatore moghul Jahangir che regnò dal 1605 al 1627. Nell’originale ummah, la nazione musulmana. Nell’originale jihad. Idarnah, in turco. Occupata dai Serbi e dai Bulgari nel 1913, la città fu annessa alla Grecia alla fine della prima guerra mondiale, ma fu poi restituita ai Turchi. Il comandante delle truppe ottomane. Depositario e interprete della legge islamica. I dhimmi sono i non musulmani che vivono in territorio islamico e che sono esenti dal servizio militare in cambio del pagamento di una tassa sulla persona, la jiziah: i loro beni sono pertanto inviolabili. Nell’originale yahud o nazari, ossia “ebrei e cristiani”. Riguarda un attacco a Delhi da parte di Ghulam Qadir della tribù afghana dei Ruhila, che alleati dei moghul contro i mahratta nella terza battaglia di Panipat nel 1761, si ribellarono poi contro l’imperatore. Nell’originale mighfar, ossia una copertura in metallo indossata sotto l’elmetto. Si tratta del consueto tazmin, ossia inserimento di versi altrui, in questo caso di un poeta in persiano, Abu Talim Kalim, giunto in India dall’Asia centrale al tempo dell’imperatore Jahangir. Vedi nota 154. Nell’originale Yathrib ka pas, “il Custode di Yathrib”. Nell’originale Sulaiman. Distico di Abu Talim Kalim. Maulana Shibli Nu’mani (1857-1914), professore di arabo all’Oriental College di ‘Aligarh, in disaccordo con Sayyid Ahmad Khan sull’istruzione occidentale, si ritirò nella città natale di ‘Azamgarh dedicandosi alla lotta per il risveglio della comunità musulmana del subcontinente. Fu un autore prolifico di biografie e saggi. Altaf Husain Hali (1837-1914), allievo di Ghalib, poeta e saggista, liberò la letteratura urdu dai convenzionalismi del tempo. Significativo il suo poema Madd o jazr-i Islam [Alta e bassa marea dell’Islam] che incitava i musulmani alla riscossa dopo i tragici eventi del 1857-58. Vedi l’Introduzione, 1. Background storico. Distico di Shibli. Non si tratta della teoria evoluzionista di Darwin: secondo Iqbal la perfezione si raggiunge solo con la lotta, i tentativi, le tribolazioni. Appellativo del Profeta. Zio del Profeta, a lui ostile. Nell’originale in arabo Halab, la città di Aleppo in Siria nota per le manifatture del vetro. Abu Bakr (571-634), primo califfo dal 9 giugno 632, denominato al-Siddiq [testimone di verità] dal Profeta. L’evento descritto in questa poesia si riferisce ad una spedizione del Profeta nell’ottobre 631 contro la città di Tabuk ai confini con la Siria. Cfr. Muhammad ibn Jarir al- Tabari, Vita di Maometto, a cura di Sergio Noja, Milano, Rizzoli, 1985, pp.336-343. Omar ibn al-Khattab, secondo califfo dal 634 al 644, era suocero del Profeta: fu il primo a codificare le regole dell’amministrazione del nuovo stato islamico. Riferimento all’Hadith-i Qudsi secondo il quale Iddio non avrebbe creato l’universo se non avesse voluto creare al tempo stesso la persona del Profeta. Faizi Fayadi Akbarabadi (m.1596), poeta considerato uno dei “nove gioielli” alla corte dell’imperatore Akbar che regnò dal 1556 al 1605. Distico di Faizi. Reminiscenza della poesia On the Receipt of my Mother’s Picture di William Cowper: vedi nota 96. La madre morì il 9 novembre 1914. Si tratta probabilmente del fratello maggiore, Ata Muhammad (c.1859-1940). Nell’originale qudsi, letteralmente “santità, sacralità”, sono gli angeli vicino al trono di Dio. . Jamal ud-din ‘Urfi (1555-1591), poeta persiano di Shiraz, trasferitosi a Lahore nel 1586. Vedi nota 182. Nasr al-Farabi (870-950), il latino Alpharabius, nato nel Turkestan, visse a Baghdad per quarant’anni, e morì ad Aleppo: filosofo, poeta e sufi, considerato il più grande filosofo arabo prima di Avicenna. Nell’originale hudi, il canto dei cammellieri durante la marcia della carovana. Di un ignoto amico che lo invitava a scendere in politica. Vedi nota 113. Nell’originale ab-i haivan, la fonte dell’acqua della vita che dava l’immortalità: vedi nota 167. Questo distico è del poeta Hafiz di Shiraz: vedi nota 86. Guru Nanak (1469-1539), fondatore della setta dei Sikh, predicò l’unità di Dio e la tolleranza universale, condannando il formalismo sia dell’Hinduismo che dell’Islam. Cfr. M. Abdullah Farooqi, Iqbal’s Estimate of Guru Nanak, in “Iqbal Review”, Karachi, III, n.3, October 1962, pp.77-87. Vedi anche il saggio di Stefano Piano, Guru Nanak e il Sikhismo, Fossano (Cuneo), Editrice Esperienze, 1971. Appellativo del Buddha e in generale di tutti i grandi mistici dell’Hinduismo. Qui Buddha è considerato il sostenitore dell’uguaglianza tra gli uomini, mentre Nanak è il custode dell’integrità dell’unità di Dio [tohid]. Nell’originale haqq, giustizia: qui riferito a Guru Nanak. Il sacerdote hindu. Nel Corano, VI, 73, è il nome del padre di Abramo. Capostipite degli Arabi attraverso Ismaele e creatore della Ka’ba. Nell’originale tohid, monoteismo. Cioè Guru Nanak. Mir Razi Danish (m.1665), poeta persiano di Mashhad, si trasferì in India, prima nel Deccan, poi nel Bengala, infine alla corte di Shah Jahan e del figlio Dara Shikoh. Vedi nota 69 e nota 109. Secondo la leggenda Nimrod è il re che condannò Abramo ad essere bruciato vivo ma il fuoco si tramutò miracolosamente in un roseto. Abbreviazione di Khalil Allah, l’Amico di Dio. Vedi nota 438. Distico di Mir Razi Danish. Vedi la poesia n.37 e la nota 186. Vedi nota 167. Il raja Poro del Panjab, sconfitto da Alessandro Magno nella battaglia dell’Idaspe nel maggio del 326 a.C. Vedi nota 166. Si riferisce all’azan, il richiamo alla preghiera. Mullah Muhammad Malik Qumi (m.1615), poeta originario della Persia, si trasferì nell’India del sud, a Bijapur alla corte degli ‘Adil Shah. Vedi nota 113. Si tratta di un distico di Qumi che nell’originale recita: “Andata per togliersi una spina dal piede, la sella o il palanchino (della cavalcatura di Laila) scomparve alla vista. Fui negligente per un momento, la persi di vista per centinaia di anni”. Nella poesia il verso assume questo significato: il lieve errore dei musulmani di aver accettato senza riserve l’istruzione occidentale li ha portati a diventare sottomessi all’occidente. Vedi nota 408. Nell’originale ahl-i muharram, ossia la gente del muharram, il primo mese del calendario musulmano. Mirza Sa’ib (m.1675), poeta persiano nato a Isfahan ma vissuto a Tabriz, in viaggio per l’India si fermò a Kabul alla corte del governatore Zafar Khan Ahsan, che seguì prima nel Deccan poi nel Kashmir. Considerato il più grande poeta persiano del Seicento, scrisse circa trecentomila versi tra qaside e ghazal: il suo poema più noto è un Qandahar-namah [Il libro o viaggio a Qandahar]. Cfr. Alessandro Bausani, La letteratura persiana, op. cit,, pp.293-302. Vedi nota 448. Hatif di Isfahan, poeta persiano del XVIII secolo, svolse un importante ruolo nel rinascimento della Persia. Vedi nota 336. Vedi nota 61. Si riferisce al richiamo di Hali nel noto poemetto Madd o jazr-i Islam [Alta e bassa marea dell’Islam]. Il pozzo della Mecca. Nell’originale huzur-i Yathrib, il Signore di Yathrib (Medina). Emistichio di Sa’di. Mirza Bedil di Patna (1644-1721), uno dei maestri ammirati e imitati da Iqbal. A lui il Poeta dedicò una breve lirica nella terza raccolta in urdu, Zarb-i Kalim: cfr. Kulliyat-i Iqbal, op. cit., p.134. Vedi nota 334. Significa che il seguace dell’Islam, come il seguace dell’Hinduismo, è anch’egli un intagliatore di statue, anche se lascia il tutto all’immaginazione del fedele. Altrove, in Zabur-i ‘Ajam [I Salmi di Persia], Iqbal dice: “Ho intagliato un idolo a mia propria somiglianza, un dio a mia immagine / Per me non c’è fuga dall’Io, qualunque sia il mio stile, non adoro che me stesso”. Mirza Bedil. Distico di Mirza Bedil. Battaglia del 636 tra arabi e bizantini sotto il califfato di ‘Omar. Nell’originale hina, ossia il mirto indiano, qui sinonimo di sangue. Abu ‘Ubaidah ibn-Jarrah, uno dei primi compagni del Profeta. Reminiscenza dal Corano, II, 155-156:”Noi vi metteremo alla prova col terrore, con la fame, con la privazione dei beni e della vita e dei frutti della terra. Ma da’, o Muhammad, una buona novella ai pazienti! I quali, quando li colga la disgrazia esclamano: ‘In verità noi siamo di Dio ed a Lui ritorniamo”. Nell’originale Rasul-i Hashimi, “il messaggero di Hashim”. Nell’originale mulk o nasab, ossia mulk, territorio, paese (in inglese country) e nasab, razza, casta, genealogia, linea familiare. Per comprendere il pensiero di Iqbal contrario al nazionalismo e a tutti gli “ism”, cfr. Vito Salierno, Iqbal’s visits to Europe: Dialogue between the East and the West, in Iqbal in Europe Centenary Conference. An International Conference on the theme: Iqbal as a Bridge between the East and the West, London, The School of Oriental & African Studies (SOAS), 17 June 2008. Nell’originale jama’iyat significa “la pace della mente”. Si tratta dell’ascensione del Profeta al cielo. Vedi, Corano, la surah XVII, detta per l’appunto “la sura del viaggio notturno” e in particolare i versetti 61-65. Per ulteriori notizie, cfr. Enrico Cerulli, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949, e il volume aggiuntivo Nuove ricerche sul Libro della Scala e la conoscenza dell’Islam in Occidente, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1972. Nell’originale ‘arsh-i barin. William Shakespeare (1564-1616), poeta e drammaturgo, troppo noto per parlarne qui. Ricalca una poesia anonima You and I: “If I am weak and you are strong, / Why then, why then, / To you the braver deeds belong, / And so again, / If you have gifts and I have none, / If I have shade and you have sun, /’Tis yours with freer hand to give, / ‘Tis yours with truer grace to live / That I, who giftless, sunless, stand / With barren life and hand”. Vedi nota 69 e nota 109. Vedi nota 578. Samiri, il nostro Samaritano, era un mago che convinse Mosé a costruire un vitello d’oro. Se ne accenna nel Corano, II, 51-54; VII, 148-149; XX, 85-98. Azar, padre di Abramo, era uno scultore di idoli. ‘Ajam, nome della Persia, qui significa qualunque cosa straniera. ,. Monaco eremita nel deserto. Soprannome di ‘Ali: vedi nota 507. Nell’originale nan-i sha’ir, sorta di pane fatto con un cereale di infima qualità: metafora per indicare “vita semplice, alto intelletto”. La circumambulazione: vedi nota 108. Nell’antica credenza la salamandra era una creatura che viveva nel fuoco e del fuoco. Soprannome di Vishnu. L’espressione Hari Hari è per un hindu sinonimo di grande stupore o disgusto. Appellativo di ‘Ali, il “Leone di Dio”. Marhabi, eroe ebreo, comandante di uno dei forti di Khaibar, conquistato dagli arabi nel 629. Vedi anche nota 423. Si riferisce al “Romanzo di Antari” [Sirat Antar], poema cavalleresco preislamico, sorta di vita romanzata del celebre poeta ed eroe pagano la cui memoria rimase viva fra gli arabi. Cfr. Francesco Gabrieli, Storia della letteratura araba, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1962, pp.296-304. Nell’originale shah-i ‘Arab o ‘Ajam, cioè “Signore degli Arabi e dei Persiani”, ossia “Signore del mondo”. Grande fu il rimpianto per l’abolizione del califfato, soprattutto tra i musulmani dell’India. Vedi nota 113. Questa lunga poesia è un colloquio immaginario tra il poeta e Khizr sui poblemi sociali, economici e politici del mondo; fu recitata alla riunione dell’Anjuman-i Himayat-i Islam il 16 aprile 1922. Khizr, una figura leggendaria, era diventato immortale avendo scoperto e bevuto l’acqua della vita: si dice che appaia ai viandanti che hanno smarrito la strada riportandoli sulla retta via e dando loro anche consigli spirituali. Cfr. anche il paragrafo “Iqbal’s Message to the Poor and Oppressed” in Ralph Russell, The Pursuit of Urdu Literature. A Select History, London and New Jersey, Zed Boks Ltd., 1992, pp.182-185. Sono tutti riferimenti coranici. Vedi nota 577. Vedi nota 578. Vedi nota 317. Il poeta ha adoperato un termine persiano, kun fikan, con riferimento al Corano, VI, 72-73:”Compite la preghiera e temete Iddio: Egli è colui davanti al quale tutti sarete raccolti, ed Egli è Colui che ha creato il cielo e la terra con verità d’intento e il giorno in cui dice a una cosa. ‘Sii!’ ed essa è, la Sua parola è verità. A Lui appartiene il Regno, il dì che squillerà la tromba. Egli è Colui che conosce l’Invisibile e il Visibile, il Saggio che di tutto ha contezza”. Riferimento al poema epico Shirin o Farhad: vedi nota 161 e nota 522. Il Badakhshan è una regione dell’Afghanistan nota per i rubini. Nell’originale saltanat ossia sultanato, governo imperiale. Si tratta di un versetto coranico relativo alla regina di Saba, Bilqis, che, ricevuto l’invito di Salomone, disse ai suoi cortigiani: “Quando i re entrano in un paese lo spogliano e rendono schiavi i nobili”. Cfr. Corano, XXVII, 20-44, in particolare il versetto 34 che inizia con inn al-muluk, ossia “quando i re”. Vedi nota 321. Al tempo di Mosè e di Gesù il popolo di Israele era considerato l’erede e il vicario di Dio: nel Corano è considerato tale. Vedi nota 617. Attributo per Iddio. Vedi nota 224. Per ulteriori notizie su questa sezione cfr. il bel saggio di Jan Marek, Socialist Ideas in the Poetry of Muhammad Iqbal, in “Studies in Islam”, New Delhi, April-July 1968, pp.167-179. Fortezza persiana conquistata nel 1091 da Hasan ibn Sabbah che vi creò un’organizzazione segreta i cui membri sotto l’effetto di droghe erano disposti a qualunque assassinio politico e non. La parola “assassino” deriva proprio da hashish, cioè coloro che uccidevano sotto l’effetto dell’hascisc. Second Iqbal il capitalista è simile a Sabbah che incantava con false promesse. Vedi nota 578. Si tratta del fez turco, rosso con un fiocco nero, di largo uso tra i musulmani di tutto il mondo sino alla seconda guerra mondiale. Vedi nota 138. Ricordiamo che Rumi ha nel Javed-namah lo stesso compito che Virgilio svolge nella Divina Commedia, cioè quello di accompagnare il poeta nel viaggio allegorico nel Mondo Superiore. Si riferisce al racconto coranico nella surah XXVII detta per l’appunto “della formica”, e in particolare ai versetti 18-19:”... finché, allorché giunsero alla Valle delle Formiche, disse una formica: ‘O formiche! Entrate nelle vostre case, che Salomone e le sue truppe non abbiano a calpestarvi, senza saperlo!’ – Sorrise allora Salomone allora delle loro parole e disse: ‘Signore, concedimi che io Ti ringrazi dei favori che Tu hai accordato a me e ai miei genitori, e che compia opere buone a te accettevoli, e fammi entrare, per Tua misericordia, fra i tuoi servi buoni”. Si sottintende quella dell’Occidente. Come già detto in precedenza, si riferisce alla Mecca. Città del Turkestan cinese. Ovviamente queste indicazioni geografiche sono solo simboliche per il mondo intero dell’Islam. Il poeta mette in guardia i musulmani di tutto il mondo: le contese e le dispute tra sunniti e sciiti non giovano alla causa dell’Islam. Vedi nota 624. Nell’originale in arabo La yukhlif al-mi’ad, metafora per indicare il principio del male nella religione zoroastriana.. Questo lungo poema chiude idealmente il Bang-i Dara: iniziato dopo la riscossa turca contro i greci nell’agosto-settembre 1922, fu recitato all’annuale riunione dell’Anjuman-i Himayat-i Islam il 31 marzo 1923. Da una lettera di Iqbal all’amico poeta Ghulam Qadir Girami il 23 febbraio 1923 si apprende che il poema non era ancora finito:”Ti scrivo questa lettera con la richiesta dei membri dell’Anjuman che tu venga a recitare qualcosa alla riunione di Lahore. Anch’io reciterò un poema, Insha Allah, dal titolo Tulu’-i Islam. Spero sia finito in tempo”. Cfr. Ghulam Hussain Zulfiqar, op. cit., pp.152-153. Girami (c.1856-1927), intimo amico di Iqbal, fu poeta alla corte del Nizam di Haiderabad, Deccan, dal 1890 al 1917. Vedi nota 182 e nota 562. Emistichio di ‘Urfi; vedi nota 560. Nell’originale ghazi, così è chiamato il musulmano che combatte e si immola per la propria fede.. Nell’originale naisan significa pioggia di primavera; nella credenza popolare se una goccia di questa pioggia cade in una conchiglia produce una perla. Qui si tratta di una metafora per indicare che le avversità dei musulmani sono solo apparenti e si tramuteranno presto in successi. Nell’originale Khalil Allah, cioè l’amico di Allah. Metafora per indicare l’intera comunità islamica: il profeta apparteneva al clan dei Banu Hashim. Si riferisce a Sa’di di Shiraz la cui poesia è molto popolare in Persia e in Afghanistan. Per Sa’di v. nota 336. Nell’originale didah-var, “colui che ha un occhio interiore”, riferimento a Mustafa Kamal Ataturk (1881-1938), per il quale Iqbal ebbe grande stima sino al 1924; il poeta cambiò idea dopo l’abolizione del califfato. Nell’originale hadith, letteralmente “le abitudini e i detti del Profeta”. Regione della Persia famosa per i rapaci. Sovrano della Persia al tempo della conquista musulmana nel VII secolo. Soprannome di ‘Ali. Uno dei Compagni del Profeta. Vedi nota 188. L’indicazione di Turan e Germania è generica e si riferisce alla guerra greco-turca: il turano rappresenta il turco, il tedesco (nell’originale alamani) l’occidentale, in particolare gli inglesi alleati dei greci. Si riferisce alla sconfitta dell’impero austro-ungarico durante la prima guerra mondiale. Riferimento ai sottomarini tedeschi. Secondo il Corano i martiri per la fede non sono morti: il sostegno reciproco dei musulmani in tutto il mondo porterà alla sconfitta degli infedeli. Nell’originale kun fikan: vedi nota 636. Nell’originale khudi, l’io interiore su cui si basa tutto il pensiero filosofico e l’opera poetica di Iqbal. Ibidem. Nell’originale hadith: vedi nota 667. Battaglie significative nella storia dell’Islam. Nell’originale Khalil: vedi nota 578. Distico di Hafiz di Shiraz: vedi nota 523. Nell’originale kammali, cioè “colui che è avvolto in una piccola coperta”, appellativo affettuoso per il Profeta; con questo attributo hanno inizio le sure LXXIII e LXXIV. Vedi nota 434. Si tratta del poeta Altaf Husain Hali: vedi nota 61. Vedi nota 577. Nell’originale kam o kaif significa “quantità e qualità”: vedi nota 497. Vedi nota 69 e nota 109. Reminiscenza coranica, XXXIX, 53:”... Non disperate della Misericordia di Dio, poiché Iddio tutti i peccati perdona: Egli è l’Indulgente Clemente!” Vedi nota 321. Il quarto califfo famoso per il coraggio. Vedi nota 550. Nell’originale ‘Ajam, ossia Persia, termine che in Iqbal assume il significato di “straniero” rispetto al proprio paese. Vedi nota 657. Si tratta delle parole finali del versetto 9 della surah III: “[Dio] la sua promessa non rompe”. Il Corano. Riferimento al Corano, IV, 122: “... la promessa di Dio è verità”. Si tratta di un gruppo di ventinove brevi poesie relative a temi di natura politica, sociale ed economica riguardanti problemi del sub- continente indiano del tempo Riferimento alla dottrina della Trinità. Si riferisce alla moda di sbarbarsi introdotta da Lord Curzon, vicerè dell’India dal 1899 al 1905. Nell’originale Iqbal ha usato il termine persiano zan per “donna” con allusione alla pronuncia di Curzon. Nell’originale college dall’inglese. Pianta delle ombrellifere, puzzolente. Termine usato per la cosiddetta guerra santa: qui, richiamata in maniera sarcastica, perché si tratta di un argomento spesso usato per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da altri problemi. Si tratta del pellegrinaggio alla Mecca. Termine per una pillola indigena. Pillola occidentale. Nell’originale ghussal indica colui che lava i morti. Si tratta della maniera musulmana di uccidere un animale invocando Allah. Si tratta della maniera sikh con un colpo solo, separando la testa dal corpo. Vedi nota 56. Si trattava di leggi considerate controverse, emanate per proteggere le proprietà musulmane dagli usurai hindu. I voti. Sino al 1935 le elezioni in India erano a suffragio ristretto: non di rado capitava di comprarli. Vedi nota 56. Nell’India Britannica il Collector era il più alto funzionario amministrativo nel distretto. Vedi nota 86. Badri e Masita sono nomi qualunque per un hindu e un musulmano. Nel testo, in arabo, Wa qad kuntum bihi tasta ‘jilun, versetto 51 dalla surah X, 50-51:“Di’:’Che ne pensate? Quando il Suo castigo vi giungerà, di notte, o di giorno, avran forse voglia d’affrettarlo, gli scellerati? E ancora, quando quel momento sarà realtà, vi crederete allora? Ora, ecco che voi lo state affrettando!”. Nel testo, in arabo Yansilun, fine del versetto 96 dalla surah XXI, 95-96:“E grava un’interdizione su ogni città che distruggemmo: la sua gente non potrà tornare nel mondo, finché sarà aperta libera via a Gog e Magog, ed essi si precipiteranno giù da ogni altura”. Qui in particolare Iqbal si riferisce al capitalismo e all’imperialismo che hanno spogliato le indifese nazioni extraeuropee. Vedi nota 700. Vedi nota 5. Nel testo, in arabo, Laisa lil Insani illa ma sa’a, versetto 39 dalla surah LIII:”e che l’uomo non avrà di suo che il suo sforzo”. Membro della confraternita senussita fondata nel 1837 nell’Africa del nord da Muhammad ibn ‘Ali al-Sanusi (m.1859). Re Faisal (1885-1933) che diventò re di ‘Iraq nel 1921 con l’aiuto inglese; Iqbal lo considerò un traditore della causa del califfato. BIBLIOGRAFIA Testi originali adoperati: Muhammad IQBAL, Bang-i Dara (in urdu), Lahore, Shaikh Mubarak ‘Ali, 1924. Muhammad IQBAL, Bal-i Jibril (in urdu), Lahore, Shaikh Mubarak ‘Ali, 1935. 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Una montagna ed uno scoiattolo 62 8. Una mucca ed una capra 63 9. La preghiera del bimbo 65 10. Simpatia 65 11. Il sogno di una mamma 66 12. Il lamento di un uccello 66 13. L’interrogazione dei morti 67 14. La candela e la falena 68 15. La ragione e il cuore 69 16. Lamento di dolore 70 17. Il sole 70 18. La candela 71 19. Un desiderio 72 20. Il sole del mattino 74 21. Il dolore dell’amore 75 22. Una rosa avvizzita 76 23. La pietra tombale del Sayyid 76 24. La luna nuova 77 25. L’uomo e l’assemblea della natura 77 26. Il messaggio del mattino 79 27. Amore e morte 79 28. Virtù e vizio 80 29. Il poeta 82 30. Il cuore 82 31. L’onda dell’oceano 82 32. Addio, o assemblea del mondo 83 33. Il bimbo che succhia 84 34. L’immagine del dolore 85 35. Lamento per la separazione 89 36. La luna 89 37. Bilal 90 38. La storia di Adamo 91 39. Canto dell’India 92 40. La lucciola 92 41. La stella del mattino 93 42. Canto nazionale dei bimbi indiani 95 43. Un nuovo altare 95 44. Dagh 96 45. La nuvola 97 46. L’uccello e la lucciola 97 47. Il bimbo e la candela 98 48. Lungo la riva del Ravi 99 49. La petizione del viaggiatore 100 50. Ghazals 1 Non guardare al giardino della vita come un estraneo, 101 2 Se tu non fossi venuto, non avrei motivo di contesa 101 3 O Signore, strana è la pietà del predicatore! 101 4 Per il nido ho bisogno di paglia da qualche dove 102 5 Come dire come fui separato dal mio giardino 102 6 Insoliti per condizione, distinti dal mondo sono essi 103 7 Non si deve vedere lo spettacolo con la pupilla dell’occhio 103 8 Che dire se ho un diniego in cambio di tanto Desiderio 104 9 Colui che andavo cercando sulla terra e nel cielo 104 10 Il completamento del tuo Amore è ciò che desidero 105 11 Quando il non-bisognoso apre la Sua Graziosa Mano 105 12 Mi preoccupo delle mie difficoltà, non di quelle altrui 106 13 Majnun ha lasciato il villaggio, tu dovresti lasciare la selva 106 Seconda Parte (dal 1905 al 1908) 51. Amore 108 52. L’essenza della bellezza 109 53. Il messaggio 109 54. Swam Ram Tirath 109 55. Agli studenti del “College” di ‘Aligarh 110 56. La stella del mattino 110 57. Bellezza e amore 111 58. Guardando un gattino in grembo a ... 111 59. Il bocciuolo 112 60. La luna e le stelle 112 61. L’unione 113 62. Sulaima 114 63. L’amante incostante 114 64. Un tentativo fallito 115 65. Canto di dolore 116 66. Gioia di breve durata 116 67. L’uomo 117 68. La manifestazione della bellezza 117 69. Una sera 117 70. Solitudine 118 71. Messaggio d’amore 118 72. Separazione 119 73. Ad ‘Abd al-Qadir 119 74. Sicilia 120 75 Ghazaḷs 1 Nulla più che un respiro è la vita dell’uomo 121 2 O Dio! insegna un po’ di amore al mio intelletto 121 3 Il mondo saprà quando la conversazione verrà fuori dal cuore 122 4 Il Tuo splendore si manifesta nel tuono, nel fuoco, nella scintilla 123 5 O riunione del mondo! Se le tue riunioni attirano 123 6 Circola la coppa del vino come il riflesso del vino 124 7 È il tempo della chiarezza, comune sarà la vista dell’amato 124 Parte Terza (dal 1908 ..) 76. Città dell’Islam 126 77. La stella 127 78. Due pianeti 127 79. Cimitero regale 128 80. L’apparizione del mattino 131 81. Versi ripresi da Anisi Shamlu 131 82. La filosofia del dolore 132 83. In occasione del dono di un fiore 134 84. Inno nazionale 134 85. Nazionalismo 135 86. Un pellegrino sulla via per Medina 135 87. Frammento 136 88. Protesta 136 89. La luna 142 90. La notte e il poeta 142 91. L’assemblea delle stelle 143 92. A zonzo nell’empireo 144 93. Consiglio 145 94. Rama 145 95. L’automobile 146 96. Gli uomini 146 97. Alla gioventù dell’Islam 146 98. L’inizio di Shavval 147 99. La candela e il poeta 148 100. Il musulmano 153 101. Dinanzi al trono del Profeta 154 102. Un ospedale nel Hijaz 154 103. Risposta alla protesta 155 104. Il coppiere 161 105. L’istruzione e i suoi effetti 161 106. Al servizio dei potenti 162 107. Il poeta 162 108. La buona novella del mattino 163 109. Preghiera 163 110. In risposta ad una richiesta di scrivere versi per ‘Id 164 111. Fatimah bint-i ‘Abd Allah 164 112. La rugiada e le stelle 165 113. L’assedio di Adrianopoli 166 114. Ghulam Qadir Ruhilah 166 115. Una conversazione 167 116. Io e tu 167 117. Versi ripresi da Abu Talim Kalim 168 118. Shibli e Hali 168 119. L’evoluzione 169 120. Siddiq 169 121. La civiltà presente 170 122. Nel ricordo della madre morta 170 123. Un raggio del sole 175 124. ‘Urfi 175 125. In risposta ad una lettera 176 126. Nanak 176 127. Infedeltà e Islam 176 128. Bilal 177 129. I musulmani e l’istruzione moderna 177 130. La principessa dei fiori 178 131. Versi ripresi da Sa’ib 178 132. Una conversazione in Paradiso 179 133. La religione 180 134. Un incidente nella battaglia di Yarmuk 180 135. La religione 180 136. Resta attaccato all’albero in attesa della primavera 181 137. La notte del Mi’raj 181 138. Il fiore 181 139. Shakespeare 182 140. Io e te 182 141. Prigionia 183 142. Elemosinare un califfato 183 143. Humayun 183 144. Khizr, la guida 183 145. Il risorgimento dell’Islam 188 146. Ghazals 1 O zefiro, porta il mio messaggio al nostro Profeta 192 2 Questi canti di tortore e usignuoli sono un’illusione 192 3 O usignuolo solo, il tuo lamento è immaturo ancora 192 4 Solleva il velo dal tuo volto e mostralo all’assemblea 193 5 La brezza di primavera soffia di nuovo, canta o Iqbal 193 6 O agognato post-realtà, appari talvolta in forma materiale 194 7 Non stupirti se gli uccelli in gabbia amavano la poesia 194 8 Anche se sei vincolato dalla causa ed effetto 194 Poesie satiriche 147. 1 In Oriente i principii si conformano alla religione 195 147. 2 Le ragazze stanno ora imparando l’inglese 195 147. 3 Anche lo sceicco non è un fautore del velo 195 147. 4 O saggio, si tratta di un affare di pochi giorni 195 147. 5 L’istruzione occidentale è davvero esaltante 195 147. 6 Non ha importanza se il predicatore è povero 196 147. 7 Il malato della civiltà non si cura con una goli 196 147. 8 Ci sarà mai una fine a questo lungo acquistare 196 147. 9 Noi poveri orientali ci siamo invischiati con l’Occidente 196 147. 10 “Ricerca, testimonianza, cosa testimoniata sono le stesse.” 196 147. 11 Abbiamo perso tutte le nostre risorse materiali 196 147. 12 Ho tentato di suicidarmi e la Miss ha esclamato 197 147. 13 Erano così ingenui da non apprezzare il valore arabo 197 147. 14 In India i consigli sono una parte del governo 197 147. 15 Non è difficile fare parte del Consiglio Imperiale 197 147. 16 Quale sarà una miglior prova di affetto e fedeltà 197 147. 17 Lo sceicco faceva un sermone sul comportamento 198 147. 18 Per quanto tempo andrà avanti quest’affare dell’Oriente 198 147. 19 Un giorno la mucca volgendosi al cammello disse 198 147. 20 La notte scorsa la zanzara mi narrò 199 147. 21 Dal carcere mi fu rivelato questo nuovo versetto 199 147. 22 Si può perdere la vita ma non la verità 199 147. 23 Capitale e lavoro si confrontano l’un l’altro 199 147. 24 Quell’eterno ubriacone ha lasciato le terre di Siria 199 147. 25 Scoppiò una lite tra contadino e proprietario 200 147. 26 Gettale tutte in un vicolo lungo la strada 200 147. 27 Il proprietario della fabbrica è un uomo inutile 200 147. 28 Ho sentito queste parole nella fabbrica ieri 200 147. 29 I credenti si sono costruita la moschea durante la notte 200 Note e riferimenti 201 Bibliografia 247 2 Bang-i Dara--Il Richiamo Della Carovana 1 Bang-i Dara--Il Richiamo Della Carovana Bang-i Dara--Il Richiamo Della Carovana